La Somalia metafora di un continente in agonia

È la loro Africa ed è un inferno!

La Somalia ritorna in auge dopo un’assenza di circa dieci anni dal proscenio internazionale. Non che in questo lasso di tempo non sia successo niente di rilevante ma, andando così le cose del mondo, il manifestarsi, a getto pressoché continuo, di conflitti in ogni angolo del globo pone, quasi necessariamente, nel dimenticatoio quelli un po’ più datati.

Eppure ciò che si è verificato dal 1991 con la caduta di Siad Barre, con l’ascesa dei signori della guerra, con la strage, nel 1993, dei marines con annessa “sindrome di Mogadiscio”, per gli americani, è di una certa importanza se solo si tien conto come uno stato, che si è sempre distinto per una sua omogeneità etnica, linguistica e religiosa, possa deflagrare a seguito di una deriva di frammentazione che non è solamente riconducibile alla sua struttura sociale di tipo nomade e fondamentalmente clanica.

Certo, l’abbrivio, esauritasi l’esperienza del regime di Siad Barre, lo danno proprio le fazioni che, del tutto scevre da una visione unitaria, perseguono il solo intento di sostituirsi al dittatore deposto nello sfruttamento indiscriminato delle risorse. Si assiste ad un ritorno al passato: laddove esista una qualsiasi risorsa degna di tal nome là c’è battaglia per il controllo dell’accesso a quella risorsa con relativa creazione di sovranità di tipo feudale. A loro volta questi gruppi armati sono, in un certo senso, anche emanazione dei clan: ad aver sempre avuto il controllo assoluto della capitale Mogadiscio è stato quello degli Hawiye che, da parte loro e sempre per effetto di questa follia centrifuga, si sono successivamente frantumati nelle fazioni di Alì Mahdi e di Farah Haidid dando in sintesi la possibilità, nelle elezioni presidenziali del 2004, al clan dei Darod di eleggere uno di loro. Nomi tristemente famosi come Osman Ato, Mussa Sudi, Bashir Rage e Omar Addane segnano un tragico intercalare di nefandezze e vessazioni d’ogni tipo perpetrate su una popolazione costretta a convivere col banditismo e la criminalità. In un contesto simile è consequenziale che chiunque muova contro le bande armate assurga a liberatore e di tale ruolo si appropriano le corti islamiche che si propongono quali difensori dell’ordine e della legalità islamica. C’è da dire che dietro il richiamo religioso nascondono una certa propensione per gli affari (controllo dei traffici, dei porti, degli aeroporti) e la loro opposizione alla ricomposizione di istituzioni statali. È indubbio come queste milizie islamiche ricevano aiuti finanziari e armi dall’esterno e segnatamente dall’Arabia Saudita e da altri paesi o singoli ricchi, sostenitori dell’estremismo islamico.

Per puro paradosso, sono gli stessi warlords ( signori della guerra) che organizzano le prime corti islamiche verso la fine degli anni ’90. È di quel periodo, il 6 agosto 1998 per essere precisi, l’entrata dei carri armati etiopici a Mogadiscio con susseguente fuga dei militanti islamici ed è del giorno dopo, il 7 agosto, l’attacco alle ambasciate americane di Nairobi e di Dar es Saalam.

Ci si potrebbe chiedere: ma l’America cosa c’entra? È che a denunciare una certa presenza, anzi una vera regia, finanziaria e d’altro tipo, americana, che sostiene la coalizione dei warlords, assoldati e fatti confluire in una “Alleanza per la restaurazione della pace e l’antiterrorismo”, i quali hanno lanciato, ad inizio 2006, un’offensiva militare contro le corti islamiche sono non solo le corti stesse ma anche esponenti del governo di transizione somalo e finanche analisti politici ed editorialisti statunitensi.

Ora, al di là di una certa sconsideratezza nell’affidare una missione di pace a banditi che praticano da sempre la guerra, anche contro gli USA, aleggia in tutto questo una certa schizofrenia di fondo : gli americani che si fanno paladini dei loro ex-trucidatori i quali, a loro volta, prendono a combattere le organizzazioni islamiche che, nel 1993, erano loro alleate durante la battaglia tra Haidid e le truppe americane: un ciclo forsennato in cui diventa arduo delinearne la tracciabilità.

Ad aiutarci a capire potrebbe essere la Somalia intesa come metafora di un intero continente: l’Africa. Lo scrittore somalo Nuruddin Farah è dell’opinione che “l’Africa è divisa in nazioni che non sono nazioni e stati che non sono autosufficienti, frutto di una spartizione coloniale decisa con la squadra e il righello. I conflitti della Somalia si spiegano anche così.” Sono certamente lasciti degli allora imperialismi europei pronti a darsi battaglia per il controllo delle materie prime di cui il continente africano era ed è tuttora assai ricco e che come triste corollario hanno, nella situazione attuale, paesi come la Liberia, il Sudan, la Nigeria letteralmente alla mercè di organizzazioni criminali. La Somalia, giova ricordare, è un paese che per quasi 1000 anni si è tenuto in contatto, attraverso l’Islam, con le civiltà del Medio Oriente, che si poteva permettere un proficuo scambio di merci col subcontinente indiano e che, per tragico contrappasso, si vede catapultata all’indietro in quanto essa, come l’Africa nel suo insieme, rappresenta un campo di battaglia tra imperialismi vecchi e nuovi. Tanti si dilettano nel raffigurare parallelismi tra la Somalia e l’Afghanistan ponendo nel dovuto rilievo i pericoli insiti in certa radicalità islamica. Tutto questo ci può anche stare. Riteniamo tuttavia più calzante alla situazione attuale l’inserire il Corno d’Africa in una scacchiera per una partita che si gioca tra imperialismi già presenti, Stati uniti e Francia, e altri in cerca di un loro spazio, vedi Cina e India. Considerato che il volume degli scambi commerciali tra la Cina e il continente africano è aumentato di ben quattro volte negli ultimi cinque anni (nei primi dieci mesi del 2005 è aumentato del 40%) e che le direttrici della penetrazionje cinese, tanto per essere più chiari, vanno dal Mar Rosso al Golfo di Guinea e dal Corno d’Africa alla Nigeria ci si può accorgere come la Somalia, coi suoi ricchi giacimenti di gas e di uranio e con la piattaforma oceanica antistante altrettanto ricca di petrolio costituisca, anche per la sua posizione strategica quale porta del mar Rosso, un avamposto prioritario nella lotta imperialistica.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.