La “Comuna” di Oaxaca

Il continente latino americano tra rivolta sociale e pantano riformista

Il continente latinoamericano, ricco di risorse naturali e di miseria, di rabbia sociale e di rassegnazione, per molti aspetti sta vivendo una nuova fase storica di cui se, oggi, è possibile abbozzare le linee generali, è però meno facile prevedere gli sbocchi.

Anni di spudorato saccheggio - detto neoliberista - hanno accumulato un potenziale esplosivo enorme, finora capitalizzato da quei settori della borghesia che, per questo e altri motivi ancora, forse intravedono la possibilità di scrollarsi di dosso il più che secolare dominio statunitense.

È in tale contesto che si inserisce la Comuna de Oaxaca.

Lo stato di Oaxaca (la cui capitale porta lo stesso nome), nel Messico meridionale, è una delle regioni più povere del paese centroamericano; da lì parte un forte flusso migratorio verso l’immensa periferia di Città del Messico, verso le maquilas addossate al confine statunitense - dove lo sfruttamento della classe operaia, per lo più femminile, non conosce freni - o verso gli USA. L’ineguaglianza o, meglio, la divisione in classi appare nettissima, anche se la classe operaia propriamente detta non occupa gli ultimi gradini della scala sociale. Questo “privilegio” tocca ai disoccupati e ai poverissimi contadini appartenenti alle popolazioni indigene, angariati e sfruttati dai caciques, grandi proprietari terrieri, che hanno ai loro ordini, oltre alle forze dello stato, squadre armate di assassini e gentaglia simile.

Il governatore dello stato, Ulisses Ruiz Ortiz, eletto nelle file del PRI (con l’accusa di frode elettorale, corruzione e chi più ne ha più ne metta), ha appoggiato il leader del partito di destra PAN, Felipe Calderòn, che ha “vinto” le elezioni presidenziali in maniera smaccatamente truffaldina, e che i suoi oppositori chiamano “simpaticamente” FECAL.

Tale è dunque il quadro in cui si inscrivono l’esperienza e la sanguinosa repressione della Comuna di Oaxaca. Essa prende le mosse l’estate scorsa da un “rituale” sciopero dei maestri. Praticamente ogni anno gli insegnanti scendono in sciopero verso maggio, appoggiati dal mastodontico sindacato della scuola SNTE che, forse più che in altri paesi, è intimamente colluso col potere - un tempo il PRI, oggi anche il PAN - e, come spesso accade, si presta volentieri agli intrighi dei politicanti, strumentalizzando le genuine rivendicazioni dei maestri ai fini dei laidi giochi di potere interborghesi.

Ad Oaxaca, però, domina la Secciòn 22 del SNTE che, secondo più fonti, sfugge al controllo totale della dirigenza sindacale e pratica un sindacalismo più combattivo.

Punto di svolta, il 14 giugno, quando il governatore manda la polizia a disperdere il plantòn - sorta di presidio permanente - degli scioperanti. Ne seguono scontri violentissimi; dopo una ritirata iniziale, i maestri si riorganizzano e ricevono l’aiuto degli strati poveri della popolazione. Due giorni dopo, un corteo di 300.000 persone sfila per le vie di Oaxaca, chiedendo le dimissioni di Ruiz. Il 17 nasce la APPO (Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca), organismo che riunisce diverse organizzazioni: dalla Secciòn 22 ai comitati contadini, ai disoccupati... Dunque, ancora una volta l’intervento repressivo dello stato impone un salto qualitativo alla situazione: quello che era un “normale” episodio sindacale si trasforma in un movimento apertamente politico.

Nascono comitati di lotta, funzionanti, se abbiamo capito bene, sul principio della democrazia diretta, vengono occupati edifici e luoghi pubblici, alcune radio si attivano per coordinare la lotta, si mettono in piedi squadre di autodifesa per proteggersi tanto dalle forze repressive dello stato e dagli squadroni della morte (che cominciano ad ammazzare) che dalla criminalità comune.

Questo stato di cose si trascina per qualche tempo, anche perché il governatore, per diverse ragioni, è restio a far intervenire l’esercito (per es., il 60% della fanteria è composto da oaxacheni). Poi, a fine ottobre, si scatena la repressione, attuata dalle forze speciali, con il solito tragico corteo di arrestati, feriti, morti.

Al di là di quella che sarà la conclusione della vicenda, quali spunti di riflessione offre l’esperienza della APPO e della rivolta di Oaxaca? Una è già stata accennata: spesso e volentieri è la borghesia che impone il terreno di lotta e su questo è obbligato a scendere chi vuol lottare contro di essa, per quanto sconnesso e scivoloso esso sia. La seconda, ma non in ordine di importanza, è che una volta di più emerge drammaticamente l’assenza/necessità del partito.

La popolazione povera di Oaxaca e anche settori di piccola borghesia hanno dimostrato una generosa determinazione alla lotta, ma rimane invischiata in una melassa politica in cui accanto a parole d’ordine classiste ne convivono altre interclassiste, di stampo classicamente riformista e democratico-nazionalista.

Per esempio, come nei moti argentini del 2001, i manifestanti sventolano la bandiera nazionale e allo stesso tempo vogliono un mondo senza sfruttati né sfruttatori (vedi: asambleapopulardeoaxaca.com ).

Se a Oaxaca fosse presente il partito di classe, cercherebbe di sviluppare gli aspetti classisti della lotta, di orientarla sul terreno di classe, di strapparne la direzione politica a stalinisti, trotskysti (molto attivi) e riformisti in genere, che fanno delle dimissioni di Ruiz e del ripristino (?) della democrazia il loro principale obiettivo.

Operebbe per allargare la lotta al di fuori dei confini dello stato, di suscitare la simpatia e l’attiva solidarietà del proletariato messicano (e degli strati sociali ad esso vicini), finora (1 novembre) spettatore passivo e decisamente più interessato allo scontro, tutto interno alla borghesia, tra AMLO (A.M. Loper Obrador, il candidato del PRD cui è stata scippata la vittoria alle presidenziali) e FECAL.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.