Capitalismo globale in crisi, più cresce più diventa ineguale

Di seguito pubblichiamo un contributo dei nostri compagni inglesi della CWO.

Per miliardi di persone, specialmente in Africa e nel mondo islamico, la povertà si diffonde e il reddito pro-capite diminuisce. Questo divario crescente tra ricchezza e povertà, tra opportunità e miseria, è al tempo stesso una sfida alla nostra compassione e una fonte di instabilità.

Presidente George Bush, discorso alla Banca Inter-Americana di Sviluppo, in apertura del summit di Monterrey sul “Finanziamento per lo sviluppo”, Marzo 2002

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La ragione definitiva di tutte le crisi rimane sempre la povertà e il consumo ristretto delle masse in contrapposizione alla tendenza della produzione capitalista allo sviluppo delle forze produttive come se solo la capacità di consumo assoluto della società costituisse il loro limite.

Karl Marx, Il Capitale Libro 3°

Secondo le ultime affermazioni di Fondo Monetario Internazionale (FMI) e Banca Mondiale, guardiani dell’ordine economico capitalista, il mondo diventa sempre più prospero. In aprile il FMI ha previsto un quinto anno consecutivo di forte crescita economica, al 4,9%, “il più alto tasso registrato dai primi anni 1970”. Non siamo in grado di mettere in dubbio la fondatezza di queste cifre; tuttavia non siamo neppure obbligati ad accettare senza discussione la loro interpretazione da parte del FMI. Dato che il capitalismo è un sistema che dipende dalla “crescita”, cioè dall’espansione della produzione di merci e dall’accumulazione di capitale, un breve periodo di cinque anni consecutivi di crescita difficilmente appare di grande importanza. Il fatto che il FMI valuti in tal modo il dato relativo a questi ultimi cinque anni - il più alto tasso di crescita dai primi anni 1970 - non solo mostra il carattere di breve termine delle prospettive capitaliste, ma tradisce anche l’ansia sulla sostenibilità dell’accumulazione del capitale nel suo complesso.

Negli ultimi anni il mondo capitalista in sostanza ha dovuto riprendersi dallo scoppio della bolla dei mercati azionari dell’alta tecnologia, che ha spinto al ribasso il tasso di crescita del prodotto lordo mondiale all’1,4% nel 2001. I “forti tassi di crescita” di cui il FMI si vanta oggi devono quindi essere letti in rapporto ad un punto di partenza molto basso, infatti, si tratta del quarto punto di partenza più basso in una serie di mini-boom e severe “flessioni” che caratterizzano la crisi del profitto di lungo periodo. Posto in questa prospettiva di lungo periodo, è chiaro che il quadro è tutt’altro che roseo. Al contrario, nonostante la ristrutturazione economica, la globalizzazione della produzione, la cosiddetta liberalizzazione del commercio e l’apertura dei mercati finanziari e monetari, il rallentamento della crescita persiste e la tendenza al collasso completo continua a manifestarsi. La verità è che la liquidazione degli accordi di Bretton Woods e la svalutazione del dollaro, nel 1971 e nel 1973, hanno marcato uno spartiacque, segnando l’inizio della fase discendente del ciclo di accumulazione post-bellico. Il fatto che il FMI debba salutare come un segnale positivo un ritorno ai tassi di crescita degli anni settanta è un’indicazione di quanto a fondo quella crisi abbia morso.

Come un analista critico dei dati ufficiali nota:

Anche negli instabili anni settanta, la crescita mondiale è caduta al di sotto del 4% solo in due anni: nel 1974, quando scese all’1,1%, e nel 1975, quando raggiunse l’1,0%. A quel tempo, tali tassi di crescita erano ritenuti catastrofici, e la flessione del 1974 è ritenuta generalmente essere non solo la peggiore dopo quella degli anni 1930, ma anche la causa principale delle politiche economiche degli anni 1980, tutte orientate verso la liberalizzazione dei mercati finanziari e commerciali. (1)

In breve, la ripresa della crescita dell’economia mondiale degli ultimi cinque anni non si avvicina minimamente a quella dei periodi precedenti la crisi degli anni 1970.

Tutto ciò sarebbe senza dubbio più evidente se fossimo in grado di rappresentare graficamente la crescita media del prodotto lordo mondiale dei soli paesi più ricchi, cioè senza includere i tassi di crescita medi del resto del mondo, che partendo da una base più bassa risultano in assoluto più elevati. I dati per un tale calcolo sono difficili da trovare ma, per esempio, una media valutata per sei paesi - USA, Giappone, Germania Ovest, Francia, GB, Italia - per il 1974 e il 1975 risulta rispettivamente pari a un meno 0,6 e un meno 2,25. (2)

In altre parole, i tassi di crescita medi nascondono il fatto che le economie più ricche del mondo sono andate in recessione durante gli anni settanta, come avvenne pure nel 1981-82 e di nuovo nel 1991-92 e nel 2001-02, almeno per gli USA, la zona euro, la GB e il Giappone (la cui crescita è stata attorno allo zero per tutto l’ultimo decennio).

La ricchezza ineguale delle nazioni

Dati i bassi tassi di crescita delle economie più ricche del mondo, si potrebbe supporre che con il passare dei decenni i paesi più poveri del mondo, con i loro tassi di crescita medi, siano riusciti ad incrementare la loro quota di prodotto lordo mondiale. Questo, dopo tutto, è quel che sta dietro al concetto di nazioni “in via di sviluppo” nell’epoca post-coloniale, ma in realtà ciò non è mai realmente accaduto. Ci fu, è vero, un incremento significativo durante gli anni settanta, ma la tendenza non durò. Dopo aver aumentato la propria quota del prodotto lordo mondiale fino al livello senza precedenti del 22% nel 1980 (a causa degli alti prezzi di petrolio e materie prime), tale quota crollò drammaticamente con l’arrivo della terza crisi debitoria mondiale e l’associato declino dei prezzi delle materie prime. Già nel 1990 la quota del prodotto lordo mondiale del “terzo mondo” era scesa al di sotto del 15%. Il programma di aggiustamenti strutturali del FMI di conseguenza divenne parte del più ampio processo di globalizzazione, che ha tenuto a galla il capitalismo sulla base dell’abbassamento dei prezzi delle materie prime e delle merci (compresa la forza lavoro) e la liberalizzazione dei mercati finanziari che ha creato condizioni molto vantaggiose pere realizzare profitti mediante la speculazione finanziaria. Non c’è bisogno di dirlo, ma la quota di prodotto lordo mondiale del capitale “non-avanzato” non ha ancora recuperato i picchi degli anni 1980. Tutti i “recuperi” che si sono verificati sono stati in gran parte dovuti alla Cina e in misura minore all’India (10,5% e 8,5% di crescita, rispettivamente, nel 2006). In sostanza, tuttavia, su scala globale non c’è stato alcun recupero. Sebbene gli stati del “terzo mondo” godano di una quota di prodotto lordo mondiale lievemente superiore rispetto agli anni 1960, questo è più che controbilanciato da un raddoppio della loro popolazione nell’ultimo mezzo secolo. Quindi, nel 1960 gli stati avanzati, con il 22% della popolazione mondiale, contavano per più dell’80% del prodotto lordo mondiale globale. Nel 2005 il mondo avanzato contava per il solo 14% della popolazione mondiale, eppure deteneva ancora il 75% del prodotto lordo mondiale. (3)

In termini di prodotto lordo mondiale pro capite questo si traduce in un’ancora più diseguale divisione della ricchezza nel mondo. A parte la Cina, il prodotto lordo mondiale pro-capite nei paesi “in via di sviluppo” è ora più basso che nel 1960. Inoltre il divario si è allargato recentemente, sotto l’impatto della globalizzazione, che lavora a vantaggio delle roccaforti capitaliste. Come mostra lo studio di Freeman:

Il punto di massimo fu raggiunto nel 1982 quando il reddito medio nei paesi poveri era il 40% della media mondiale. Dopo dieci anni di liberalizzazione finanziaria, questo cadde al 25% circa, dove è rimasto da allora. Invece, il reddito medio del settimo della popolazione mondiale, che vive nei paesi avanzati, è cresciuto da tre volte la media mondiale nel 1960, a cinque volte e mezzo nel 2005. (4)

Ci sono numerosi altri studi che mostrano più o meno la stessa sproporzione tra i paesi più ricchi e quelli più poveri del mondo. Ciò che non viene evidenziato in maniera chiara è che questa è la conseguenza di un rapporto imperialistico in cui le nazioni ricche decidono le regole sulla base dei propri interessi. E gli interessi di uno stato ricco in particolare hanno preminenza su tutti gli altri. Nel 1948 gli amministratori del capitale statunitense erano abbastanza chiari su quale fosse la propria missione post-bellica:

Abbiamo circa il 50% della ricchezza mondiale, ma solo il 6,3% della popolazione... il nostro compito reale nel periodo che viene è di escogitare uno schema di relazioni che ci permetta di mantenere questa condizione di disparità. (6)

Sebbene gli Stati uniti non poterono mantenere questa enorme disparità, che rifletteva la loro posizione di enorme forza nel periodo seguente alla distruzione del capitale europeo e giapponese dopo la Seconda Guerra Mondiale, controllano ancora una quota sproporzionata di ricchezza mondiale. Estrapolando dai dati del prodotto lordo mondiale e della popolazione del 2006 (forniti dalla CIA!), gli USA ora hanno approssimativamente una popolazione pari al 4,6% di quella mondiale ma detengono il 27,2% del reddito globale annuo. (7)

Le divisioni di classe all’interno degli stati diventano più nette

L’iniqua distribuzione della ricchezza capitalista non riguarda solo gli stati fra di loro, ma anche al loro interno fra le diverse fasce e classi sociali. Non c’è una sola nazione al mondo in cui il prodotto lordo mondiale sia distribuito paritariamente. Nonostante tutti i discorsi sulla democrazia, il capitalismo rimane in tutto il mondo un sistema di sfruttamento di classe basato essenzialmente sul fatto che quelli che posseggono e controllano i mezzi di produzione ammassano ricchezze create dal lavoro non retribuito della classe lavoratrice. Il modo in cui la ricchezza è distribuita all’interno degli stati è il risultato della lotta di classe, sia contemporanea che storica, come pure del punto raggiunto del capitalismo nel ciclo di accumulazione. (8)

Marx sosteneva che proprio il processo di accumulazione riduce la componente variabile del capitale, in modo tale che una “accumulazione accelerata è necessaria per assorbire un numero accresciuto di lavoratori, o anche per tenere impiegati quelli che già sono al lavoro...”. (9)

Anche così, la crescente produttività della forza lavoro che viene con lo sviluppo della produzione capitalista assicura una tendenza permanente verso la creazione di una “popolazione in soprannumero” - cioè il famoso esercito industriale di riserva che il capitalismo ha permanentemente a sua disposizione.

Per Marx la tendenza verso una popolazione in surplus relativo è una legge generale dell’accumulazione capitalista che assume “ora una forma acuta durante la crisi, poi di nuovo una forma cronica durante i tempi fiacchi” (9), quando il tasso di accumulazione rallenta. Fino a tempi recenti i sociologi e gli economisti borghesi si prendevano beffe di questa legge generale, puntando al presunto pieno impiego raggiunto nei centri del capitalismo avanzato durante il periodo post-bellico (intendendo con “pieno impiego” meno di un milione di disoccupati). Ora che è più difficile reclamare livelli di piena occupazione per i centri del capitale e ora che la globalizzazione della produzione pone i salariati dovunque in diretta competizione reciproca è più difficile beffarsene. Durante le flessioni, o le fasi di crisi del ciclo, il capitale è obbligato a ridurre ulteriormente il costo della forza lavoro nel tentativo di tagliare i costi e rimanere competitivo. I salari vengono tagliati. Le acquisizioni e le fusioni diventano comuni, mentre il capitale diventa più concentrato. La minaccia della disoccupazione rende più facile al capitale attaccare la classe operaia. Anche così i capitalisti sperimentano difficoltà crescenti nella ricerca di posti profittevoli dove investire in maniera produttiva (di plusvalore) i loro capitali.

È vero che l’espansione dell’esercito di riserva dei disoccupati non è solo una questione degli ultimi vent’anni. Come abbiamo visto, l’intero periodo post-bellico ha fatto registrare un relativo incremento della popolazione del “terzo mondo” e un relativo decremento della sua quota di ricchezza. Lo “sviluppo” del terzo mondo ha costantemente generato un numero crescente di sottoccupati e disoccupati, sempre più impoveriti. Tuttavia, nella fase attuale della crisi di accumulazione, la disparità grottesca tra quelli che vivono dietro muri protetti da guardie e la maggioranza del resto della popolazione è diventata acuta e schiacciante. Il Fmi, con i sui programmi di aggiustamenti strutturali da un lato e le ingiunzioni ad aprire la produzione e i mercati commerciali e finanziari al capitale mondiale dall’altro, ha aperto al capitale nuove prospettive di vita ma solo esacerbando l’impatto della crisi sulla massa della popolazione nella periferia capitalista.

Oggi più persone vivono in città piuttosto che in campagna. Nonostante il fatto che una crescente proporzione di migranti nelle città del “terzo mondo” non trovi alcun lavoro nell’economia formale, l’esodo forzato verso le città di persone a causa di guerre, impraticabilità di coltivazioni di sussistenza, disastri ambientali, debiti personali è continua. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2002 più del 78% degli abitanti delle città nei paesi più poveri del mondo, cioè un miliardo di persone, vivono in slum. Questa è una stima conservativa. Uno “slum” per l’ONU significa “sovraffollamento, abitazioni povere o informali, accesso inadeguato a acqua potabile e sistema fognario, insicurezza di possesso”. Apparentemente queste condizioni devono essere soddisfatte tutte perché qualcuno sia definito dall’ONU un abitante di slum dato che, per esempio, 2,6 miliardi di cittadini ufficialmente mancano di servizi sanitari. Non sorprendentemente, l’ONU riporta che 1,8 milioni di bambini muoiono ogni anno di diarrea e altre malattie legate all’acqua. O, come ha scritto un altro ricercatore:

Malattie legate alle forniture di acqua, al sistema fognario e alla spazzatura uccidono ogni giorno in tutto il mondo 30 mila persone e costituiscono il 73% delle malattie che affliggono l’umanità. (10)

È difficile immaginare già solo cosa “l’insicurezza del possesso” significhi per persone che vivono in scatole improvvisate, spesso in zone altamente inquinate o fisicamente precarie, dove c’è il pericolo che il terreno collassi per frane o inondazioni. Eppure, ogni anno:

... centinaia di migliaia, a volte milioni, di persone povere - inquilini legali o abusivi - sono sfrattati con la forza nei quartieri del terzo mondo. (11)

A Shangai e Pechino, per esempio, 1,5 milioni e 1 milione di persone rispettivamente sono state sfrattate tra il 1991 e il 1997 per consentire per far posto a nuovi insediamenti favorendo la crescita della rendita immobiliare. Raramente questi eventi raggiungono le cronache, ma quest’anno il notiziario della BBC ha riportato di una stazione di polizia incendiata da “Naxaliti” che resistevano allo sfratto dalle loro legali abitazioni nelle periferie di Calcutta (un sito primario dove designare una Zona Economica Speciale per il governo locale).

Tuttavia, sia che i poveri urbani del mondo vivano in slum o no, essi sono in costante crescita e non solo nei paesi della periferia. Il 6% degli slum si trovano infatti nei centri del capitalismo, e quello maggiormente popolato (100 mila persone) a Los Angeles. Eppure al tempo stesso il FMI canta le lodi del nostro mondo meraviglioso, la Banca Mondiale annuncia che il numero di persone che vivono con meno di 1 dollaro al giorno è sceso al di sotto di 1 miliardo per la prima volta! Sono buone notizie! Con il potere d’acquisto del dollaro che scende continuamente, è un miracolo che qualcuno posso sopravvivere con meno di 1dollaro al giorno. In realtà ciò testimonia solo dell’elevato numero di persone che sopravvive al di fuori della economia formale del capitalismo. Oggi 2 dollari al giorno come criterio di valutazione della povertà non sono certo una sovra-stima. Con questa misura, anche George Bush ha riconosciuto (nel discorso riportato all’inizio di questo articolo) che “metà delle persone del mondo vivono ancora con meno di 2 dollari al giorno”. Questa è un’affermazione stupefacente. Considerando il passaggio del World Factobook della CIA del 2002, che dice che:

verso la fine degli anni 1990 uno sbalorditivo miliardo di lavoratori, rappresentanti un terzo della forza lavoro mondiale, la maggior parte di loro nel sud, erano o disoccupati o sottoccupati. (12)

Con ciò possiamo cominciare ad avere un’immagine della dimensione della sovrappopolazione relativa per il capitalismo del XXI secolo.

Le storie di successo della globalizzazione, Cina e India, contribuiscono per la loro parte. Solo in Cina 36 milioni di lavoratori furono resi in esubero tra il 1996 e il 2001 mentre ben oltre 2 milioni di migranti rurali andavano a gonfiare le file dei poveri delle città pronti ad unirsi alla forza lavoro super-sfruttata nelle zone economiche speciali della fascia costiera. Secondo le informazioni disponibili sul sito Worldwatch ( worldwatch.org ), l’Istituto per la Ricerca Economica Nazionale Cinese, nel 2006:

il reddito netto medio dei contadini cinesi è aumentato ad un tasso del 6,2%, molto al di sotto del 9,6% di crescita registrato nelle aree urbane. Gli esperti notano che il divario dei redditi all’interno delle aree urbane della Cina è ancora più ampio che quello tra le aree urbane e le regioni rurali, ed è il maggiore colpevole di tutte le disparità tra ricchi e poveri. [...] L’Accademia Cinese di Scienze Sociali riporta che il reddito disponibile per circa il 60% dei residenti urbani è più basso della media nazionale.

L’approfondirsi delle divisioni della ricchezza non è affatto limitato agli stati più poveri del mondo. In Gran Bretagna l’1% più ricco della popolazione possiede ora il 23% della ricchezza mentre il 50% più basso ne ha solo il 7%. Tutti gli studi sui redditi e sulla povertà durante gli anni del governo di Tony Blair hanno riportato un divario crescente tra ricchi e poveri. Nonostante le promesse del New Labour di ridurre la povertà infantile, oltre 4 milioni dei 13 che vivono sotto la soglia di povertà, sono bambini. (13)

Oggi il tasso di mortalità infantile, pari al 6,5 per mille bambini sotto i 5 anni, è il secondo peggiore nell’intero mondo “sviluppato”. Il peggiore è quello degli USA, con 8 bambini su mille che muoiono prima di aver raggiunto i 5 anni. Infatti è difficile trovare una nazione con una disparità di ricchezza più grande come negli Stati Uniti. Ufficialmente gli USA ammettono di avere 37 milioni di “poveri” - cioè persone che vivono sotto il livello del reddito medio pro capite. Ma un recente studio delle Nazioni Unite, usando i calcoli patrimoniali familiari e individuali (proprietà e finanze), piuttosto che solo il reddito annuo, ha trovato che il valore Gini della disuguaglianza nella ricchezza - una maniera standard di calcolare la distribuzione della ricchezza - per gli Stati Uniti è pari all’80%. Con un tale livello di disuguaglianza è come se una persona in un gruppo di 10 si prende l’80% della torta totale e lascia gli altri nove il restante 20%. (14)

Questa immagine statistica potrebbe dimostrarsi una stima per difetto della situazione reale. Rapporti recenti, questa volta sulla distribuzione dei redditi, rivelano l’allargarsi di un’enorme divisione economica. Sulla base delle dichiarazioni fiscali del 2005 sembra che i 300 mila americani più ricchi abbiano dichiarato un reddito equivalente ai 15 milioni più poveri (o metà della popolazione!). Mentre il reddito nazionale complessivo è aumentato del 9% (15), il reddito della maggioranza dei cittadini, o il 90%, è sceso dello 0,9%. L’intero aumento è stato quindi accaparrato dal restante 10%. Un tale livello di disuguaglianza non si vedeva dal 1928, appena prima della Grande Depressione. (16)

È l’ultimo punto di un processo in accelerazione per cui i ricchi diventano più ricchi mentre i poveri diventano più poveri. Il divario crescente tra quelli che hanno e quelli che non hanno, che è cominciato negli anni 1970, è diventato più ampio sotto Reagan, cosicché tra il 1998 e il 2005 lo 0,1% più ricco della popolazione ha aumentato del 50% la propria quota del totale.

Non meraviglia che Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve statunitense, sia stato spinto a dire in un discorso dello scorso febbraio:

in questi giorni la tendenza a lungo termine verso una più grande disuguaglianza rappresenta una sfida maggiore per gli economisti e per coloro che prendono le decisioni politiche.

Assai diverso dall’immagine rosea presentata dal FMI e dalla Banca Mondiale, il futuro della maggior parte dell’umanità è chiaro. Il capitalismo non ha assolutamente niente da offrire perché:

L’accumulazione della ricchezza ad un polo è, quindi, allo stesso tempo accumulazione di miseria, agonia di fatica, schiavitù, ignoranza, brutalità, degradazione mentale al polo opposto, cioè dal lato della classe che produce il suo prodotto nella forma del capitale. (17)

ER

(1) Alan Freeman, “In Our Lifetime: Long-run Growth and Polarisation Since Financial Liberalisation” introduzione di uno studio per una conferenza sul Materialismo Storico, Dicembre 2006. countdownnet.info

(2) Da una tabella basata su dati di OECD e EEC, in Fitt, Faire and Vigier, The World Economic Crisis, p.155. Zed Press, 1980.

(3) I dati tratti dall’articolo di Freeman citato sopra sono basati sulle statistiche del FMI e perciò escludono il vecchio blocco dell’Europa dell’Est per il 1960 e i cosiddetti stati di transizione per il 2005.

(4) Freeman op.cit. p.8.

(5) US State Department Planning Study no. 23, 1948, citato da noi in ‘The World Trade Organisation, Another Imperialist Agency’, Revolutionary Perspectives n 5, Inverno 1996-97.

(6) Dal CIA World Factbook dove il prodotto lordo statunitense risulta pari a $13.2 trilioni su un prodotto lordo mondiale di $46.66 trilioni, la popolazione statunitense a 301 milioni su una popolazione mondiale di 6.6 miliardi.

(7) Per esempio, dopo la Seconda Guerra Mondiale la classe capitalista era entusiasta di cominciare un nuovo ciclo di accumulazione e perseguì dopo la guerra politiche per la “piena occupazione” e mirate allo sviluppo del Welfare State per ottenere pace sociale dalla classe operaia che chiedeva di essere ricompensata dei sacrifici fatti durante la guerra. Per un’analisi di come la crisi abbia eroso queste condizioni per l’aristocrazia operaia dei giorni nostri, si veda la nostra traduzione dell’articolo “Dall’aristocrazia operaia al precariato”, da Prometeo N. 14, Dicembre 2006, sul sito web del BIPR.

(8) Karl Marx, Capital Vol. 1 p.590. Edizione Lawrence and Wishart.

(9) Ibid. p.600.

(10) Citazione da Eileen Stillwaggon, Stunted Lives, Stagnant Economies in Mike Davis, Planet of Slums, [pub. Verso] p.142. A parte dove specificato diversamente, le informazioni sulla vita negli slum viene da questo libro.

(11) Ibid p.98.

(12) Ibid p.199.

(13) I dati sono tratti dal rapporto del marzo 2007 dell’Institute for Fiscal Studies e l’Economic and Social Research Council, “UK Distribution of Wealth”, 2002.

(14) UNU Press Release su “The World Distribution of Household Wealth”. Dicembre 2006. wider.unu.edu

(15) Questo è un dato superiore alla crescita del prodotto loro do mondiale.

(16) Marco d’Eramo, “L’America dei super-ricchi”.

(17) Marx, ibid. p.604.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.