Bangladesh - Gli operai dell'abbigliamento lottano contro lo sfruttamento sfrenato

Da Revolutionary Perspectives 41, febbraio 2007

Le lotte del 2006

Nel 2006, i lavoratori del settore dell'abbigliamento del Bangladesh lanciarono una serie di dure lotte per migliorare le proprie condizioni e i propri salari. A loro si unirono i lavoratori di altri settori, come quelli della iuta, dello zucchero e del trasporto. Nel momento di apice le lotte coinvolsero decine di migliaia di lavoratori. In maggio, i lavoratori delle fabbriche d'abbigliamento lanciarono una serie di scioperi nelle fabbriche della capitale, Dhaka. Il governo rispose con l'arresto di operai e l'invio di reparti di poliziotti e soldati per proteggere le fabbriche e le aree bloccate della capitale. I lavoratori, reagirono attaccando la polizia e le fabbriche d'abbigliamento, molte delle quali vennero date alle fiamme.

A fine giugno, fu posto fine agli scioperi e alle dimostrazioni con un accordo tra il governo, i padroni delle fabbriche e il sindacato, la Federazione Nazionale dei Lavoratori dell'Abbigliamento (NGWF). Con questo accordo fu permesso ai lavoratori di organizzarsi e in particolare fu concesso il diritto di aderire ad un sindacato, di avere un giorno di riposo settimanale, il avere il congedo per maternità, di avere contratti vincolanti e di creare un Comitato per il Salario Minimo, che fissasse appunto il minimo salariale.

A settembre si venne a sapere che il Comitato per il Salario Minimo aveva fissato il minimo salariale a circa 20 € al mese e stava introducendo una legge per fissare la giornata lavorativa a 10 ore, prima che fosse dovuto lo straordinario. Questo portava il salario minimo a circa 7,5 cent di € all'ora! Queste questioni e il fatto che la maggior parte delle altre concessioni accordate in giugno non fossero state implementate fecero sì che la lotta erompesse nuovamente in ottobre. Ci furono scioperi e proteste a Dhaka, che denunciavano il collegamento tra le atroci condizioni dei lavoratori del Bangladesh e i profitti dei rivenditori di Gran Bretagna e Stati Uniti. A questi scioperi si unirono altri lavoratori che bloccarono strade, ferrovie e idrovie. Negli scontri con la polizia che seguirono queste dimostrazioni, un lavoratore fu ucciso.

Le rivendicazioni avanzate in queste proteste indicano non solo che gli accordi di maggio non erano stati attuati, ma sottolineano le atroci condizioni in cui questi lavoratori sono obbligati a lavorare. Le richieste includevano quella che i salari, che sono pagati mensilmente, fossero pagati entro il giorno 7 del mese successivo (i media locali stimano che ci siano 450 000 € di salari arretrati che i padroni devono ai lavoratori), il diritto di organizzarsi e di avere un giorno di riposo settimanale, anziché lavorare sette giorni alla settimana. Queste rivendicazioni non sono state soddisfatte e ulteriori scontri appaiono probabili.

War on Want

In dicembre “War on Want”, il gruppo di sensibilizzazione contro la povertà, pubblicò un rapporto titolato “Vittime della Moda”. In questo rapporto erano raccolti i risultati di interviste con lavoratori del Bangladesh in sei fabbriche d'abbigliamento, che impiegano in tutto circa 5 000 dipendenti. Le fabbriche visitate forniscono vestiti a rivenditori come Tesco, Asda e Primark. Il rapporto catalogava le raccapriccianti condizioni sofferte dai lavoratori di queste fabbriche e collegava i salari bassi, da fame, agli enormi profitti sui vestiti intascati dai rivenditori. “War on Want” imponeva ai consumatori inglesi di fare acquisti con moralità e di non comprare vestiti confezionati nelle aziende sfruttatrici del Bangladesh. Il rapporto fu ampiamente pubblicizzato nella stampa liberale borghese, che piangeva le classiche lacrime di coccodrillo per lo sfruttamento sfrenato di questi lavoratori.

Gli argomenti presentati nel rapporto di “War on Want” esemplificano l'impronta politica della sinistra del capitalismo del giorno d'oggi. Loro credono che, se solo si potessero far capire ai pochi capitalisti cattivi gli errori del loro comportamento, e farli agire moralmente, l'attuale sistema non “sfrutterebbe” i lavoratori. Se solo, ci dicono, i capitalisti potessero essere meno avidi, allora il commercio potrebbe essere “equo”. In breve, sostengono che se la classe capitalista potesse essere persuasa ad agire moralmente tutti gli orrori del capitalismo potrebbero essere spazzati via. Questi argomenti tradiscono una assoluta mancanza di comprensione delle basi classiste della società in generale e dello sfruttamento capitalista in particolare. Illustrano la confusa mentalità dei liberali d'oggi.

In realtà, sotto il capitalismo, lo sfruttamento della classe operaia non può mai aver fine dato che esso è la linfa vitale del sistema. Non c'è assolutamente alcuna maniera di rendere questo sfruttamento “equo” come chiedo i liberali moderni. La società capitalista, come la società schiavista e quella feudale che la precedettero, è un sistema in cui una classe sfrutta il lavoro di un'altra classe. È solo con la creazione di una società senza classi che lo sfruttamento sparirà. I liberali, naturalmente, non vogliono la società senza classi. Essi vogliono solo che le condizioni orribili che vediamo oggi nei paesi periferici, come il Bangladesh, siano migliorate. Tuttavia, i profitti dei capitalisti nei paesi centrali del capitalismo, come la Gran Bretagna, stanno diventando sempre più dipendenti dallo sfruttamento dei lavoratori degli stati periferici e la classe capitalista nel suo complesso non ha intenzione di abbassare questo sfruttamento. La delocalizzazione di fabbriche in aree dove il costo del lavoro è basso mostra che, lungi dal voler alleviare lo sfruttamento di questi lavoratori, i capitalisti vogliono approfittarne finché possibile. (1)

L'industria tessile in Bangladesh

Il Bangladesh è una delle nazioni più povere d'Asia, con un reddito medio per persona pari approssimativamente a 410 $ all'anno. Il 30% dei 149 milioni di abitanti vive con meno di 1 $ al giorno. È in posti come questo, dove il lavoro è economico e abbondante, che i settori del capitalismo con ampio uso di forza lavoro si stanno insediando. Nel 2005, 1.55 miliardi di $ di Investimento Diretto Estero (IDE) sono stati indirizzati verso il Bangladesh. Negli ultimi 25 anni l'industria tessile è cresciuta a partire da un livello praticamente nullo, fino a diventare l'industria più grande del paese. Nel 1977, c'erano solo otto fabbriche d'abbigliamento nello stato. Oggi, ce ne sono almeno 4 000, che impiegano 2 milioni di lavoratori e che generano il 76% del valore totale delle esportazioni. Le vendite nel 2005 ammontavano a circa 8 miliardi di $. L'industria tessile è di vitale importanza per la classe dirigente del Bangladesh, ed essa farà tutto il possibile per garantirne la profittabilità, compreso l'invio di soldati a difesa delle fabbriche d'abbigliamento. La fine del regime delle quote per il settore, che si è verificata con la fine dell'Accordo sul Multifibra nel 2005, portò ad una riduzione dei salari mentre la borghesia locale cercava di difendere la sua posizione nel mercato mondiale del tessile. Oggi il settore rimane altamente profittevole.

I due milioni di lavoratori del settore provengono, per la maggior parte, da un ambiente rurale e contadino, emigrati alla ricerca di lavoro in grandi città come Dhaka, Chitagong, Narayangong, Savar e Tongi-Gazipur. Sono loro la prima generazione di proletari e, sebbene siano pagati una tale elemosina, spesso mandano dei soldi alle famiglie nelle aree rurali. La posizione di questi nuovi operai riflette la graduale rovina del contadiname. Come negli opifici tessili del Lancashire e dello Yorkshire nel IXX secolo, i padroni delle fabbriche preferiscono donne e bambini come operai. Infatti più dell'80% di questi lavoratori sono giovani donne di età compresa tra i 14 e i 29 anni.

La paga e le condizioni degli operai tessili del Bangladesh sono le peggiori del mondo e il salario si è letteralmente dimezzato negli ultimi 10 anni. I salari del Bangladesh, confrontati ad altri paesi, sono mostrati nella Tabella 1, qui sotto:

Paese Salario minimo (cent. di € per ora)
Bangladesh 7.8
China 10
India 20.7
USA 395
UK 738
France 816
Tabella 1

Nella pratica, questo minimo non è fatto rispettare e i lavoratori senza qualifica, come gli assistenti alla cucitura, a volte guadagnano appena 4.5 cent di € all'ora. (2) Inoltre gli operai spesso ricevono il salario con due o tre mesi di ritardo, come si può vedere dalla rivendicazione della paga entro il giorno 7 del mese successivo. Gli straordinari spesso non sono pagati e gli operai sono frodati da un sistema di multe per arrivi in ritardo ed errori sul lavoro. La settimana lavorativa media è di 80 ore, secondo il rapporto di “War on Want”, e molte donne sono regolarmente obbligate a lavorare tra le 14 e le 16 ore al giorno. L'igiene è carente e gli operai sono spesso chiusi a chiave nelle fabbriche durante i turni. Questo ha portato alla morte di lavoratori in incendi o cedimenti strutturali degli edifici. A febbraio e marzo 2006, 100 operai sono stati uccisi da incendi e crolli di edifici e fabbriche costruite malamente.

Il capitalismo internazionale

Si evince chiaramente dalla Tabella 1 perché il capitale internazionale installi le sue fabbriche in Bangladesh piuttosto che nei paesi centrali. I livelli salariali in Inghilterra sono 95 volte maggiori di quelli del Bangladesh e inoltre le ore lavorative settimanali sono la metà di quelle del Bangladesh. (3) La competizione in aree come la produzione di vestiti è praticamente impossibile per i paesi del centro del capitalismo. Oggi il numero di operai tessili in Gran Bretagna è appena 200 000 (4), circa, e questi sono impiegati in aree più qualificate come le fibre fatte a mano, la tintura, la stampa, ecc. La proprietà straniera delle fabbriche del Bangladesh e gli acquisti all'estero dei prodotti assicurano che la maggior parte del plusvalore prodotto in questo settore vada alle sezioni della classe capitalista al di fuori del paese. I media del Bangladesh stimano che il 70% dei profitti generati dal settore dell'abbigliamento lasci il paese. Il vice-presidente della Associazione Industriali ed Esportatori d'Abbigliamento del Bangladesh si è lamentato del fatto che così tanta parte del profitto sia presa dagli acquirenti europei e statunitensi. Lui, come “War on Want”, incolpa l'avarizia dei compratori di USA ed UE per i magri salari e le condizioni degli operai del Bangladesh. Questa è la sua spiegazione della situazione:

Mi si chiede a riguardo del numero di lampadine che usiamo e dove siano i servizi igienici. Ma chi paga per queste cose? I profitti degli acquirenti salgono ma se io chiedo più soldi, loro dicono che la Cina è molto economica. È una minaccia di spostare la produzione altrove. (5)

Per il capitalista dei paesi metropolitani la economicità dei beni prodotti in paesi come il Bangladesh è una fonte essenziale di profitto. Viene riportato, per esempio, che una tee shirt per la quale l'acquirente statunitense paga 2 $ in Bangladesh, sarà venduta a 20-25 $ negli Stati Uniti. I beni sono prodotti a prezzi massicciamente al di sotto di quelli del mercato mondiale, e il flusso di profitto che viene da questo commercio aiuta a controbilanciare la tendenza globale alla caduta del saggio del profitto. In generale, l'abbassamento dei salari risulterà sempre in maggiori profitti per la classe capitalista. L'esempio dell'industria dei vestiti mostra anche come l'abbassamento del costo della forza lavoro in Bangladesh produca una riduzione del costo della forza lavoro in tutto il mondo, dato che le fabbriche nei paesi con più alto costo del lavoro chiudono o delocalizzano. Questo produce un aumento globale nel saggio del profitto che durerà finché il costo medio globale della produzione non cadrà, riflettendo il più basso valore medio della forza lavoro. Ciò che crea i profitti per i capitalisti è sempre lo sfruttamento della forza lavoro, e niente altro. È per questa ragione che la classe capitalista internazionale non ha intenzione di alleviare le condizioni dei lavoratori dell'abbigliamento del Bangladesh, come chiede “War on Want”. Il fatto che aziende come Tesco, Asda e Primark abbiano siglato qualcosa definito come “Iniziativa per il Commercio Etico” illustra semplicemente la loro ipocrisia.

Sindacati

Il fatto che la classe operaia del Bangladesh abbia immediatamente mobilitato le forze armate dello stato contro gli scioperi dei lavoratori dell'abbigliamento mostra la loro inesperienza. Nelle più vecchie nazioni capitaliste, come l'UE o gli USA, questi lavoratori si sarebbero trovati a fronteggiare dapprima i sindacati, che avrebbero provato a rendere innocua la lotta, e a sviarla. (6) Gran parte della classe capitalista del Bangladesh non vede alcun motivo per usare i sindacati per controllare la lotta al momento attuale. La ragione di ciò è che i sindacati sono al tempo stesso inesperti e deboli. La Federazione Nazionale dei Lavoratori dell'Abbigliamento (NGWF), che è la maggiore confederazione sindacale del settore, conta 28 diversi sindacati affiliati. Nonostante questo, afferma di avere 20 000 membri in un settore che impegna due milioni di lavoratori. Alcuni dei padroni, tuttavia, capiscono il bisogno di usare i sindacati alla stessa maniera dei paesi capitalisti centrali, ossia per controllare la vendita della forza lavoro e per controllare le dispute. È per questa ragione che l'accordo del giugno 2006 riconosce il diritto all'organizzazione in sindacati.

La situazione può essere paragonata a quella degli anni 1970 in Sud Africa, dove la formazione di sindacati era presentata come una grande vittoria per la classe operaia, nonostante fosse sostenuta dai settori dirigenti della classe capitalista. Questi erano, naturalmente, gli stessi settori che capivano il bisogno di portare i Nazionalisti Africani al potere e orientarsi verso una organizzazione della produzione basata solamente sulle classi e in nessun modo basata sulle razze. I sindacati si dimostrarono alleati chiave nella realizzazione di questo piano, e sono ora in alleanza con il governo borghese dell'ANC, che sovrintende allo sfruttamento capitalista dei loro membri in maniera così efficace che l'economia sta sperimentando un massiccio sviluppo. La condizione della classe operaia del Sud Africa nel suo complesso non è migliorata e la disoccupazione resta al 26%.

Questo dovrebbe valere da monito, per gli operai del Bangladesh, che i sindacati serviranno a lungo andare solo gli interessi dei padroni. Già ora i sindacati del Bangladesh, come la NGWF, mostrano di vedere le cose nella stessa prospettiva dei padroni. Essi ripetono, per esempio, le rivendicazioni dei padroni per il “libero accesso dei vestiti del Bangladesh ai mercati europei e americani e la fine del sistema delle quote”. Chiedono che “le compagnie internazionali conducano un commercio equo con le fabbriche di vestiti in Bangladesh” che, naturalmente, significa che i capitalisti del Bangladesh dovrebbero prendere una fetta maggiore dei profitti, come richiesto dall'Associazione degli Industriali dell'Abbigliamento. (7) Sostengono il successo del capitalismo nazionale che inevitabilmente implica lo sfruttamento dei suoi membri. Gli interessi dei lavoratori non consistono nel successo del capitale nazionale, ma nella resistenza internazionale al capitalismo e nella instaurazione di una società senza classi in tutto il mondo.

La via da seguire per gli operai del Bangladesh è di portare avanti le proprie lotte tramite comitati di sciopero, eletti in assemblee generali che coinvolgano il massimo numero possibile di lavoratori. La chiave del successo è nel tenere il controllo della lotta nelle assemblee generali e seguire tattiche come la generalizzazione della lotta ad altri lavoratori.

Conclusione

Le lotte dei lavoratori dell'abbigliamento del Bangladesh sono molto importanti per due ragioni fondamentali. Prima di tutto esse sono indicative dell'enorme incremento del numero di proletari in paesi come il Bangladesh e dell'inizio della resistenza alle orrende condizioni di sfruttamento. (8) In secondo luogo esse mostrano la capacità di una classe operaia senza esperienza di trovare modi di lotta che uniscano i lavoratori. Ai lavoratori dell'abbigliamento si unirono i lavoratori del trasporto e dei settori della iuta e dello zucchero. Ciò di cui c'è bisogno nella lotta è un contenuto politico che la orienti verso una opposizione all'intero sistema capitalista, di cui il Bangladesh è solo una piccola parte. Ciò di cui c'è bisogno è la formazione di una organizzazione politica che colleghi le esperienze del proletariato internazionale, e le lezioni da esso apprese negli ultimi 150 anni di lotta, alle lotte che stanno emergendo in Bangladesh e altrove. È solo attraverso una lotta internazionale degli operai del mondo che una società senza classi potrà essere costruita.

CP

(1) Un tipico esempio di delocalizzazione in arre di lavoro maggiormente sfruttabile è l'annuncio, dato in gennaio, che la fabbrica Burberry sta per trasferire la sua produzione in Cina. 33 lavoratori gallesi saranno messi in esubero.

(2) Si veda il report di War on Want “Vittime della moda - il costo reale dei vestiti economici”.

(3) La legge per limitare la giornata lavorativa a 10 ore fu approvata in Gran Bretagna nel 1844. Tale legge è entrata in vigore solo ora in Bangladesh.

(4) È paradossale che la Gran Bretagna, la nazione che nel 19o secolo distrusse le industrie tessili del subcontinente indiano per obbligare gli indiani a comprare i prodotti delle industrie tessili di Lancashire e Yorkshire, ora importa la maggior parte dei suoi tessuti da India, Bangladesh e Cina.

(5) Citato in The Guardian. Si veda environment.guardian.co.uk .

(6) Si veda, per esempio, l'articolo sugli scioperi in GB in questa edizione.

(7) Riportato in “Sweatshops and Plantations”. Si veda waronwant.org .

(8) Le condizioni dei lavoratori del Bangladesh sono simili alle orribili condizioni della Gran Bretagna degli anni 1840, descritte da Engels nel suo libro Le condizioni della classe operaia in Inghilterra.