L’equazione dollaro petrolio traballa e i venti di guerra si rafforzano

L’Iran fa paura anche senza l’atomica

Come da copione, Bush ha annunciato nuove e più pesanti sanzioni contro l’Iran. Dopo qualche giorno Putin ha ricordato a lui e al mondo intero che la Russia è pur sempre una potenza nucleare e che un attacco all’Iran non la lascerebbe indifferente.

Nel frattempo la Turchia ha avviato una serie di operazioni militari al confine con l’Iraq per stanare i guerriglieri curdi del Pkk. Si sa, quella di raccontare balle per giustificare una guerra è un’arte antica quanto la guerra stessa. In realtà, le guerre non sono mai state scatenate per gli occhi della bella Elena ma sempre per interessi di natura economica. Il Pkk è attivo da parecchi decenni, ma a nessun governo turco era venuto in mente prima d’ora di invadere, per averne ragione, l’Irak. Forse, come diceva Andreotti, facciamo peccato ma non crediamo di sbagliare se diciamo che la ragione della probabile invasione del Kurdistan iracheno sono i suoi ricchi giacimenti petroliferi e l’evidente interesse della Turchia a partecipare alla spartizione delle spoglie dell’Iraq.

A prima vista, queste schermaglie potrebbero sembrare uno dei soliti giri di quel valzer che da lungo tempo si balla in Medioriente e dintorni per il controllo delle fonti di produzione del petrolio e delle sue vie. Questa volta però sulla scena aleggia il timore che il valzer possa trasformarsi in una di quelle danze sfrenate che finiscono solo quando in pista è rimasto esausto l’ultimo ballerino; infatti fra lo scintillio delle armi si intravvede sempre più nettamente l’ombra di un convitato di pietra che fa segno all’orchestra di accelerare il ritmo delle macabra danza: è lo spettro della crisi. Più passa il tempo e più è chiaro che si tratta di una crisi strutturale e che pertanto non ammette il suo superamento ricorrendo ai pannicelli caldi di questa o quella manovra di politica monetaria, tanto più che si trascina ormai da qualche decennio.

Gli Usa, che ne sono l’epicentro, l’hanno finora gestita imponendo al mondo intero, con il coltello fra i denti, l’equazione petrolio/dollaro. Ma nonostante ciò la cuccagna è comunque arrivata alla fine. Per la prima volta dal 1990, infatti, il flusso dei dollari in uscita (163 miliardi di dollari), confermando una tendenza in atto già da qualche tempo, ha superato quello in entrata per cui il rischio che il complesso meccanismo di finanziamento del gigantesco debito interno ed estero e dell’altrettanto gigantesca spesa militare (pari al 50% della spesa militare di tutti i paesi del mondo messi assieme) possa collassare è ora davvero altissimo.

Gli Usa, per riconvogliare il flusso nel verso a loro più favorevole, dovrebbero poter rendere più appetibili gli investimenti in dollari aumentando i tassi di interessi. Una simile manovra però comporterebbe il fallimento di un numero imprecisato, ma sicuramente elevato, di banche e Fondi di investimento esposti in modo significativo sul mercato dei subprime e l’insolvibilità di quasi tutta la platea dei mutuatari ad alto rischio. Peraltro, questa è la ragione per cui la Fed continua a immettere liquidità sul mercato e a ribassare i tassi di interesse benché non vi sia in atto una speculare crescita economica. Ciò da un lato favorisce la svalutazione del dollaro e del debito in dollari, ma dall’altro spinge gli investitori verso altre alcove più confortevoli e sicure quali l’oro e l’euro mettendo in crisi l’intero ciclo del cosiddetto petrodollaro. Ora, c’è un solo modo per evitare che questa fuga si traduca in una vera e propria disfatta del biglietto verde: mantenere alta la sua domanda sui mercati internazionali determinando un artificioso rialzo del prezzo del petrolio.

Nei primi anni 1990, in un contesto simile ma meno pericoloso, fu scatenata la prima guerra del Golfo e il prezzo del petrolio raggiunse la stratosferica quotazione di oltre 38 dollari al barile. A prezzi costanti, cioè in valore attuale, fu come se oggi il prezzo del petrolio raggiungesse quota 100 dollari al barile.

Ma la maggioranza degli analisti ritiene che anche questa quota, nell’attuale contesto di crisi, non basterebbe per ripristinare il flusso di capitali di cui gli Usa necessitano per finanziare il loro debito. Perché le cose vadano nel verso giusto per gli Usa, il prezzo del petrolio dovrebbe stabilizzarsi fra i 120 e 150 dollari al barile. Questa quotazione, dato l’attuale rapporto fra domanda e offerta, appare alquanto irrealistica da raggiungere. Infatti gli attuali 90 dollari al barile incorporano già un “ premio speculativo” che, secondo calcoli della Goldaman Sachs, oscilla fra i 5 e 10 dollari al barile mentre per gli esperti della Citigroup fra i cinque i 20 dollari al barile. Se determinato dal solo rapporto fra domanda e offerta, il prezzo del petrolio, cioè, sarebbe dai 5 ai 20 dollari al barile più basso di quello ufficiale. Pertanto, per fargli raggiungere anche solo quota 120, tenuto conto che la congiuntura internazionale è in discesa, occorre che si verifichi un evento di natura extraeconomica di una certa rilevanza e niente a questo scopo è più efficace della guerra. Bombardare l’Iran o invaderlo mettendo sotto il proprio controllo la sua produzione petrolifera sortirebbe sicuramente un vertiginosa impennata delle quotazioni dei prezzi degli idrocarburi e, visto che sono denominati in dollari, anche della domanda di dollari senza che la Fed debba abbassare ulteriormente i rendimenti degli investimenti in dollari. E, sarà un caso, nel mirino dei missili e delle bombe intelligenti dell’esercito statunitense c’è proprio l’Iran. Ce lo conferma il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia nucleare (Aiea) Mohammed El Baradei che ha così commentato la decisione degli Usa di inasprire le sanzioni contro l’Iran:

Non esiste alcuna prova che l’Iran stia costruendo una bomba atomica. Gli Stati Uniti stanno gettando benzina sul fuoco: se continua questa escalation di minacce, rischiamo di far precipitare il Medioriente nell’abisso e nel caos.

da la Repubblica del 29/10/07

Baradei ha ragione: l’Iran non sta costruendo la bomba atomica, ma sta facendo di peggio. Nella piccola isola di Kish, un’isola nel Golfo Persico che galleggia letteralmente sul petrolio e sul gas, l’Iran ha progettato l’apertura di una borsa petrolifera in cui le trattazioni degli idrocarburi dovrebbero aver luogo utilizzando un marker price denominato in euro. Se il progetto dovesse concretizzarsi, si infrangerebbe il monopolio del dollaro quale mezzo di pagamento nelle transazioni dei prodotti petroliferi e con esso anche il controllo del processo di formazione dei loro prezzi; la possibilità cioè per la Fed di svalutare la massa monetaria e il debito in dollari scaricandone i costi sul mondo intero. In ogni caso verrebbe messa in discussione la base già traballante su cui poggia l’attuale supremazia statunitense. Un’ulteriore escalation bellica appare, dunque, inevitabile. Quel che non è certo è il se e come andrà a finire.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.