A novant’anni dalla Rivoluzione d’Ottobre

In occasione del centenario della “Risoluzione d’ottobre” riproponiamo il seguente articolo, tratto da Prometeo dic. 2007. Seguite la sezione del sito dedicata al centenario della Rivoluzione d’Ottobre dove potete trovare tanto altro materiale che inseriremo nel corso del 2017… Buona lettura!

Dopo il crollo dell’Urss la borghesia internazionale ha cantato il de profundis del comunismo. L’orazione funebre è servita a mostrare come il fallimento del presunto comunismo sovietico, altro non fosse che la conferma che, al di fuori del capitalismo, non ci sia la possibilità di dare vita a forme di organizzazione sociale diverse. I rapporti di produzione e di distribuzione capitalistici sarebbero l’unica realtà economica possibile, tutto il resto al più è utopico e tutte le esperienze cui ha preso parte il proletariato hanno portato miseria e oppressione per quella stessa classe.

L’esperienza dell’ottobre bolscevico

Nei fatti a fallire è stato il progetto della controrivoluzione stalinista che, in rottura con la Rivoluzione d’Ottobre, ha contrabbandato per socialismo la costruzione del capitalismo di stato, aprendo un’epoca di mistificazioni ideologiche tra milioni di proletari, il cui tragico epilogo ha prodotto il più grande dissesto politico mai avvenuto all’interno della storia del movimento operaio.

I novant’anni che ci separano dal primo e unico esempio di rivoluzione proletaria non sono però passati invano. Gli insegnamenti che i comunisti contemporanei devono trarre da quella esperienza sono ancora tanti e validi per un futuro rivoluzionario.

La prima cosa che la Rivoluzione d’Ottobre ci ha insegnato è che la classe operaia nel suo insieme è capace di fare la storia. A dispetto del cinismo sparso per tutto un secolo sulle capacità della classe operaia, i lavoratori russi scoprirono la forma attraverso cui una società di massa poteva essere fatta funzionare. I Soviet sorsero dalle loro lotte collettive del 1905 contro lo sfruttamento, quando si dimostrarono una soluzione pratica per coordinare i vari comitati di sciopero. Nel 1917 i Soviet o consigli operai furono riportati in vita e dimostrarono di essere un organismo capace di rappresentare la classe operaia direttamente contro la borghesia. Il “porcile del parlamentarismo borghese” (Lenin) è democrazia per quelli che se la possono permettere. I rappresentanti sono eletti una sola volta per diversi anni e possono ignorare i desideri dei loro stessi elettori, mentre si inchinano ai ricchi interessi del capitale. È stato questo il percorso che ha portato alla corruzione della social-democrazia tedesca prima della Prima Guerra Mondiale. I Soviet, come la Comune di Parigi del 1871, erano un organismo di lavoro ma anche di discussione. I loro membri non erano rappresentanti ma delegati dei loro elettori e potevano essere revocati istantaneamente se mancavano di adempiere al loro mandato. In breve, i lavoratori russi hanno dato al mondo la forma politica che può costituire la base di una società senza classi, “di produttori liberamente associati” (Marx). I Soviet cessarono di svolgere il loro ruolo nello stesso momento in cui i lavoratori rivoluzionari furono sconfitti nella guerra che stavano combattendo contro l’imperialismo mondiale.

Il secondo insegnamento è che la rivoluzione è un evento eccezionale e che per manifestarsi ha bisogno di condizioni eccezionali come si sono determinate in Russia nel lontano 1917.

La condizione necessaria, imprescindibile, che può determinare il muoversi di consistenti masse di lavoratori, come nella esperienza russa, trova fondamento nelle condizioni economiche, nella profondità delle crisi del capitalismo. Non c’è atto di volontà, non c’è folgorazione divina, non esiste nessuna forma di determinazione di chicchessia che possa sostituirsi alle capacità propulsive delle condizioni materiali. In Russia è avvenuto proprio questo. La crisi economica che ha portato al primo conflitto mondiale, le devastazioni fisiche della guerra, l’affamamento dell’intera società, sono stati alla base del muoversi di milioni di contadini e di proletari, sul terreno del rifiuto della guerra e dello scontro frontale con i responsabili della stessa. Come sottolinea Lenin, la guerra mondiale è stata il motore primo, il grande acceleratore che ha gettato sullo scenario della storia le masse russe quale primo momento di quello che sarebbe dovuto essere un processo di esplosione della lotta di classe a livello internazionale.

Ma le condizioni necessarie non sono di per sé sufficienti. Perché si determini una situazione rivoluzionaria non è sufficiente che le devastazioni delle crisi economiche, delle guerre che le accompagnano, mettano in moto le masse. Occorre la presenza di un partito che sappia coniugare la spontaneità delle masse con il programma rivoluzionario. Quando il proletariato si muove (in Russia anche milioni di contadini) lo fa su di un terreno rivendicativo, economicistico. Si può muovere istintivamente contro la guerra e le sua affamanti conseguenze, può essere attratto da una prospettiva di cambiamento sociale, può anche rovesciare un regime, ma esso ha anche bisogno di un programma politico basato sulle acquisizioni teoriche dalla sua passata esperienza storica. Il portatore di questo programma di classe è il partito politico proletario.

Non è assolutamente vero che la lotta rivendicativa, la lotta contro le crisi economiche o il rifiuto della guerra possano da sole far trascrescere il livello politico delle masse sino a farle prendere coscienza del programma politico rivoluzionario. È vero il contrario. Se quando le masse si muovono non hanno creato la loro avanguardia - il partito rivoluzionario - tutte le rivolte, le insurrezioni, anche quelle più dure e determinate, sono destinate al fallimento. Solo in Russia è avvenuta la sintesi tra le condizioni obiettive che hanno messo in moto proletari e contadini poveri e quelle soggettive rappresentate dalle masse stesse e della operante presenza del partito bolscevico che ha guidato politicamente il movimento, senza il quale nessuna rivoluzione proletaria avrebbe potuto esprimersi compiutamente.

Se viene meno uno solo dei due fattori, per l’evento rivoluzionario non ci sono prospettive. Se mancano le condizioni necessarie il proletariato non si muove; quando si muove, se manca il partito l’esito della lotta di classe è negativamente segnato. A questo insegnamento della rivoluzione d’Ottobre le nuove generazioni di comunisti non possono assolutamente rinunciare, pena il cadere nelle perdenti teorie idealiste che fanno dello spontaneismo, dell’operaismo e dell’a- partitismo il loro cavallo di battaglia.

L’internazionalismo proletario

Il terzo insegnamento che proviene dall’esperienza della rivoluzione russa è che la rivoluzione o è internazionale o è destinata a fallire all’interno dei confini nazionali che l’hanno vista nascere. Tutta la strategia del partito bolscevico, di Lenin e delle stessa Terza Internazionale, prima del suo ripiegamento politico su posizioni controrivoluzionarie della teoria del socialismo in un solo paese, era imperniata sulla necessità che altre soluzioni rivoluzionarie si dovessero esprimere internazionalmente oppure, per la stessa rivoluzione russa, si sarebbe prospettata la sconfitta. Per la Russia rivoluzionaria, l’arretratezza economica, la compressione economica e politica all’interno di una cerchia di paesi capitalisti che vedevano nell’esperienza bolscevica il nemico da combattere a tutti i costi e con tutti i mezzi, l’isolamento politico a cui le mancate rivoluzioni nell’Europa occidentale l’avevano condannata, sono stati fatali. La tragedia della rivoluzione d’Ottobre ha avuto come causa determinante il fatto che in Europa è clamorosamente venuto meno uno dei due fattori che avrebbero dovuto dare una dimensione internazionale al processo rivoluzionario iniziato in Russia. Il primo elemento, quello necessario ma non sufficiente della crisi economica e della conseguente guerra imperialista, si è espresso con ferocia inaudita ed è stato trasversale a tutti i paesi europei e non solo. Le masse proletarie si sono anche mosse, in modo particolare in Germania e in Italia, ma non si è prodotta tempestivamente la seconda condizione: l’operante presenza dei partiti comunisti. La nascita dei partiti rivoluzionari si è sì espressa, ma in ritardo rispetto al maturare degli eventi. I futuri partiti rivoluzionari hanno rotto il cordone ombelicale con i partiti riformisti della Seconda Internazionale in ritardo e in una fase di rinculo delle lotte proletarie, perdendo l’appuntamento con la fase storica favorevole, lasciando così l’esperienza bolscevica isolata e immersa in una serie di problemi irrisolvibili all’interno della sua dimensione nazionale.

Il fallimento della rivoluzione russa, quindi, dovuto all’isolamento da altre esperienze rivoluzionarie, si è consumato nel primo decennio di vita e non in tempi successivi come vogliono fare intendere gli stalinisti, i trotskisti di sempre e i maoisti di ogni risma e confessione ideologica. Quello che è avvenuto dopo, la più brutale delle reazioni politiche, le purghe staliniane all’interno dello stesso partito bolscevico, l’eliminazione fisica di tutti gli oppositori di sinistra, l’aggressione economica a quello stesso proletariato che aveva fatto la rivoluzione, sono state le conseguenza politica ed economiche di quel fallimento. E da quel fallimento è partita la costruzione del capitalismo di stato che la propaganda del regime stalinista ha contrabbandato per socialismo e che i partiti comunisti, legati alla Terza Internazionale, hanno contribuito ad inoculare all’interno delle masse proletarie mondiali.

L’alternativa rivoluzionaria quale unico mezzo di emancipazione proletaria

Il quarto irrinunciabile insegnamento che prepotentemente discende dalla esperienza dell’ottobre bolscevico è che l’unica strada che deve essere imboccata dalle masse proletarie internazionali per la loro emancipazione dalla schiavitù salariale, è, e sarà sempre, quella della soluzione rivoluzionaria. Non ci sono scorciatoie possibili, percorsi alternativi o tappe parziali. Ogni altra opzione è destinata alla sconfitta. Qualsiasi altro espediente tattico finirebbe non solo per indebolire la lotta di classe, ma ne svilirebbe il suo contenuto rivoluzionario per orientarla verso obiettivi che non le sono propri, né per la soluzione dei problemi contingenti né, tanto meno, per l’obiettivo strategico finale. Troppe volte la storia ha dimostrato come l’abbandono della via rivoluzionaria per alleanze con frange della borghesia e per obiettivi politici che non fossero la dittatura del proletariato, si siano risolte in tragiche e sanguinose sconfitte che hanno gravemente pesato sui successivi percorsi di ripresa della lotta di classe.

Il muoversi delle masse, con la necessaria presenza del partito rivoluzionario e la coscienza della strategia politica, devono avere come unico sbocco l’obiettivo della via rivoluzionaria. Ogni altra soluzione porta acqua al mulino della conservazione, macinando sconfitte politiche su sconfitte politiche senza soluzione di continuità. Il che presuppone che il punto di partenza è quello della lotta contro la propria borghesia, contro tutte le forme di manifestazione dell’imperialismo, sia quello domestico che quello internazionale. Significa rifiutare qualsiasi espressione di nazionalismo economico e politico, sia nella sua forma secolare che fondamentalista religiosa (che spesso si presenta nelle vesti di uno pseudo anti-imperialismo); significa concepire la rivoluzione di classe come unico strumento di lotta al capitalismo, allo sfruttamento e all’imbarbarimento sociale.

Mentre ai tempi di Lenin le contraddizioni del modo di produzione e di distribuzione della ricchezza sociale creavano per la prima volta le condizioni di una grave crisi internazionale, premessa della prima guerra mondiale, il capitalismo di oggi ha fatto passi da gigante, esasperando ulteriormente le sue contraddizioni e dando vita a mostri di società reali dove, a fronte di una crescente potenzialità produttiva, ha instaurato un regime economico di progressiva povertà e di perenne instabilità.

A fronte di saggi del profitto progressivamente più bassi, il capitalismo internazionale non ha potuto che accrescere il suo attacco alla forza lavoro. Lo ha fatto e lo sta facendo su tutti i fronti, su quello del salario diretto e su quello indiretto. Minore potere d’acquisto per il proletariato, minore sanità, prolungamento dell’età lavorativa e decurtazione delle pensioni. I vecchi rimangono sul posto di lavoro, i giovani hanno sempre minori occasioni lavorative. I posti di lavoro tendono ad essere precari, si lavora a singhiozzo e a singhiozzo si percepiscono salari di fame, sei mesi sì e sei mesi no, con tutte le ricadute sociali del caso. I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri diventano sempre più poveri e sempre più numerosi. Questo non in Bangladesh o nel Benin ma nelle cattedrali del capitalismo storico come in Europa e negli Usa.

Nei paesi della “periferia” - ma non solo lì - la predazione delle risorse naturali continua e si intensifica, assieme all’espropriazione forzata di milioni di contadini poveri, per lo più destinati a una miserabile vita di lotta per la sopravvivenza, mentre quelli che sono così “fortunati” da trovare impiego nelle fabbriche del “miracolo economico” rivivono drammaticamente le condizioni di lavoro “manchesteriane” del diciannovesimo secolo. Anche da questo deriva la dura competizione all’interno della forza lavoro mondiale che porta al generale livellamento verso il basso dei salari - non solo per i lavoratori scarsamente qualificati. Inoltre, l’intero pianeta è minacciato dall’incubo della catastrofe ecologica, prodotto diretto di un modo di produzione la cui unica ragione d'essere è il profitto.

Nel settore prettamente economico il capitale si esibisce in manovre speculative sempre più rischiose in cerca spasmodica di extra-profitti che è costretto ad inseguire perennemente nel tentativo di sopravvivere alle sue contraddizioni. E quando le bolle speculative esplodono, bruciando miliardi dollari di capitale fittizio nello spazio di poche ore tenta di far pagare il conto ai piccoli risparmiatori agendo sul terreno della criminalità finanziaria, vendendo per buoni quei prodotti finanziari che sono soltanto puzzolente spazzatura. Speculazione e parassitismo sono il connotato di questo capitalismo asfittico. Più le sue contraddizioni si esasperano e più il capitalismo diventa aggressivo. Non c’è mercato, da quello commerciale a quello finanziario, da quello delle divise a quello delle materie prime che non venga attraversato dalla violenza della concorrenza che, molto spesso, si esprime attraverso atti di guerra che si configurano, a tutti gli effetti, come rapine a mano armata. Parassitismo, speculazione, crisi economiche e finanziarie, maggiore sfruttamento e minori garanzie per chi lavora, nessuna garanzia per chi vorrebbe lavorare. Stato di guerra permanente e creazione di sacche sempre più larghe di povertà sono il presente e il futuro del capitalismo. Dai tempi di Lenin le leggi del capitale si sono ulteriormente sviluppate ingigantendo le proprie contraddizioni. Ecco perché l’esperienza della rivoluzione d’Ottobre, pur nella sua sconfitta, rimane la strada maestra sulla quale dovrà incamminarsi il futuro processo rivoluzionario.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.