L’uccisione di Banazir Bhutto e le nuove tensioni in Pakistan

Anche il nuovo anno promette più guerra e più miseria

Nel delineare i possibili sviluppi della crisi dei subprime, abbiamo indicato nella ricaduta dei suoi costi su salari, stipendi e pensioni e nell’acuirsi delle tensioni inter-imperialistiche le ineluttabili conseguenze. Ma, in tutta onestà, non pensavamo che i fatti si sarebbero incaricati di darne conferma così presto.

Per quel che riguarda i costi della crisi, i dati macroeconomici del mese di dicembre indicano un’economia Usa ormai prossima alla recessione. In dicembre, infatti, è stata registrata una contrazione dei consumi di circa il 10 per cento e la richiesta di mutui da parte delle famiglie è crollata ai minimi del 2006 nonostante siano diminuiti i costi dei prestiti. È la dimostrazione, questa, che il temuto blocco del meccanismo con cui la gran parte degli americani ha finanziato per lungo tempo i propri consumi, si è verificato nonostante l’enorme quantità di liquidità messa a disposizione del credito interbancario dalle banche centrali e in particolar modo dalla Federal Reserve.

Secondo la maggioranza degli analisti, la recessione dovrebbe durare dai sei agli otto mesi, ma le dimensioni delle perdite che le maggiori banche mondiali hanno subito indica che la crisi dei subprime è qualcosa di molto più serio del semplice scoppio di una bolla di sapone: è piuttosto l’approdo ultimo di una crisi sistemica che si trascina da qualche decennio e che proprio per questo potrebbe preludere a una fase di vera e propria depressione su scala mondiale. D’altra parte è inimmaginabile una recessione negli Usa che si risolva una scala esclusivamente nazionale. Per rendere meglio l’idea della profondità della crisi basta pensare che il prezzo del petrolio, pur in presenza di una sostanziale stagnazione della domanda, ha sfondato - come avevamo previsto (vedi in Bc 11/2007 l’articolo L’equazione dollaro/petrolio traballa) - quota 100 dollari al barile. Ma il petrolio a 100 e più dollari al barile, se da un lato allevia i dolori della Federal Reserve perché le consente di mantenere bassi i tassi di interesse e tenere a bada le spinte inflattive, dall’altro mette in seria difficoltà la stragrande maggioranza dei paesi importatori a cominciare dalla Cina che ne è letteralmente assetata. La spinta al rialzo dei prezzi dei prodotti energetici, alimentata dalla politica monetaria della Federal Reserve, favorendo la speculazione finanziaria connessa al mercato del petrolio, induce inoltre le grandi compagnie petrolifere a manovrare per ulteriori rialzi dei prezzi dell’oro nero e di tutti i prodotti energetici per cui non è da escludere che anche quota 100 dollari al barile possa ben presto essere superata.

Lo scontro interimperialistico per il controllo del mercato del petrolio sta trovando così tutto il combustibile necessario per infuocarsi ancora di più.

In questo contesto è del tutto evidente che l’omicidio di Benazir Bhutto, al di là di ogni altra considerazione, è l’equivalente della classica benzina buttata sulla casa che brucia.

Come nel famoso romanzo di Gabriel Garçia Marquez, si è trattato di una morte largamente annunciata. L’ex primo ministro era rientrata in Pakistan per esplicita volontà della Casa Bianca che sperava, dopo aver costretto l’ormai impresentabile Musharraf a rinunciare alla guida dell’esercito, con la sua elezione a capo del governo di poter porre un argine alle violente convulsioni interne causate dal crescente malcontento della popolazione.

Nato nel 1947 per secessione dall’India e con il beneplacito di Londra che sperava così di mantenerne il controllo all’interno del suo impero, il Pakistan è stato sempre caratterizzato da una grande instabilità. Disegnato dividendo a ovest in due parti i territori dei pashtun afghani e a est il Punjab, laTerra dei cinque fiumi, sin dalla nascita si è caratterizzato come un groviglio di interessi contrastanti alimentati dai contenziosi per l’assegnazione delle proprietà divise dal nuovo confine e da conflitti etnici e religiosi nonché come campo di battaglia fra le diverse potenze imperialistiche e subimperialistiche regionali che si sono e si contengono tuttora il controllo dell’intera area. Con la fine dell’egemonia britannica, la cosiddetta Terra dei puri ha goduto prima dell’appoggio della Cina, preoccupata delle mire espansionistiche dell’India, a sua volta sostenuta dall’Urss; successivamente, di quello degli Usa che intendevano contrastare l’egemonia dell’ex Unione Sovietica sull’Afghanistan.

Con l’invasione russa dell’Afghanistan poi, il Pakistan è stato trasformato di fatto in una piattaforma americana da cui lanciare gli attacchi dei guerriglieri talebani e delle diverse formazioni di guerriglieri islamici, ivi compresi i militanti di Al Quaeida, contro l’armata rossa. È stato così che l’esercito, nel corso del tempo, forte dell’appoggio degli Stati Uniti che ne finanziano tuttora gli armamenti e le spese per le attività di controllo del confine con l’Afghanistan, ha accresciuto il suo potere fino a concentrare nelle sue mani anche quello politico ed economico. Oggi i militari detengono più del 60 per cento dell’intero patrimonio pakistano e controllano tutte le attività economiche e finanziarie. Ma ultimamente la macchina militare ha mostrato al suo interno non poche crepe e ha cominciato a scricchiolare. La componente pashtun dell’esercito ha accettato con molta riluttanza la repressione del movimento jihadista culminata con la distruzione, lo scorso luglio, della moschea rossa di Islamabad e con l’uccisione e l’arresto di migliaia di fondamentalisti nonché l’intensificazione, imposta dagli Usa, delle operazioni militari al confine con l’Afghanistan contro i taleban per lo più anche essi di origine pashtun. Sul versante opposto, invece, è stata la decisione di rimuovere alcuni giudici della corte suprema a provocare le manifestazioni di protesta della cosiddetta società civile e in particolar modo degli avvocati appoggiati da consistenti strati della media borghesia delle professioni e anche queste violentemente represse. Per i settori dell’esercito più sensibili ai richiami del fondamentalismo islamico, come per l’Isi, l’arrivo della Bhutto, imposto a Musharraf dalla Casa Bianca preoccupata che anche in questo paese dotato di armi atomiche potessero prevalere le correnti del fondamentalismo islamico, è suonato come un campanello d’allarme che li avvisava che il loro grande protettore aveva deciso di ridimensionare fortemente il loro potere.

È quindi molto verosimile l’ipotesi sostenuta dai membri del Partito Popolare, il partito della Bhutto, che l’omicidio di Benazir sia stato progettato e portato a compimento proprio da questi settori dell’esercito con la collaborazione attiva dell’Isi allo scopo di boicottare e rinviare sine die le elezioni legislative che, nei piani Usa, avrebbero dovuto sancire il ritorno al governo della Bhutto e l’avvio del processo di stabilizzazione politica del paese. Ma il groviglio pakistano non è fatto solo di contrasti interni. A renderlo ancora più intricato concorrono infatti numerosi altri elementi per cui non è da escludere neppure l’intervento di forze legate a qualcuno degli altri fronti imperialistici interessati al controllo dell’area eventualmente in concorso con significativi settori dell’esercito e/o della borghesia civile. Non bisogna dimenticare infatti che, oltre agli Usa, le sorti del Pakistan stanno molto a cuore anche alla Cina, che ha investito ingenti capitali nella città portuale di Gwadar situata nella provincia del Belucistan e in cui è attivo un forte movimento secessionista. E anche all’Iran che ha tutto l’interesse sia che l’esercito a stelle e strisce resti impantanato il più a lungo possibile nel fronte afghano sia che il progetto del cosiddetto gasdotto della pace, che dovrebbe congiungere Teheran, via Pakistan, con l’India e la Cina e a cui è fortemente interessata anche la Russia, possa essere realizzato. Senza dimenticare, poi, l’India anch’essa interessata al progettato viadotto della pace con in più la preoccupazione di potersi ritrovare ai suoi confini un paese governato dall’integralismo islamico.

In un contesto così contraddittorio e in cui la crisi ha reso la lotta per il controllo strategico del mercato del petrolio e delle sue vie ancora più accanita, l’omicidio della Bhutto rischia di trasformarsi in una generalizzata chiamata alle armi per una battaglia che potrebbe risultare decisiva per la ridefinizione degli attuali traballanti equilibri interimperialistici. Insomma, per dirla con i latini: mala tempora currunt! Per cui anche senza il ricorso ad aruspici e astrologi non è difficile prevedere che anche nel 2008 il capitalismo non potrà riservarci che più guerra e più miseria.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.