Sul viaggio di Bush in medioriente

L’imperialismo americano vuole rafforzare la propria supremazia nell’area

I commentatori politici hanno definito il recente viaggio di Bush in Medio Oriente, lo scorso gennaio, un insuccesso, una specie di inutile passerella voluta, a fine mandato presidenziale, per congedarsi dall’opinione pubblica da pacifista, dopo avere dato al mondo per sette anni un’immagine da guerrafondaio che ha coinciso con due guerre devastanti in Afghanistan e in Iraq.

Ma il lupo perde il pelo e non il vizio.

Nel mentre parlava di pace Bush vendeva all’Arabia Saudita 900 “bombe intelligenti”, un “regalo” allettante per tentare di rimettere in riga un fedele alleato, oggi sempre più recalcitrante.

Guardando oltre i fattori contingenti, quelli che spingono un’amministrazione a muoversi in un certo modo - in questo caso la competizione tra democratici e repubblicani nella corsa alla Casa Bianca - e finanche le incongruen-ze del presidente e dei suoi collaboratori in determinate circostanze, il movimento complessivo in politica estera, come nelle faccende interne, di una superpotenza come gli Usa è dettato da ragioni economiche di fondo e dalla contraddittorietà delle dinamiche capitalistiche che indirizzano necessariamente in una direzione piuttosto che in un’altra.

In sostanza si vuole affermare che per il capitale americano è di vitale importanza tentare di ristabilire il proprio ordine nell’area petrolifera più importante del pianeta, riaffermando che il raggiungimento di questo obiettivo passa per un compromesso risolutivo della questione israeliano-palestinese, e quindi sottrarre alla borghesia integralista araba il principale pretesto ideologico per manovrare le masse diseredate e nello stesso tempo riportare i governi moderati sotto la ferrea tutela degli interessi americani.

Considerato in questa prospettiva il viaggio di Bush in Medio Oriente acquista un significato diverso e lancia un monito forte contro chiunque si frapponga alla strategia del capitale statunitense, vale a dire che indipendentemente dal momento e prescindendo da chi detta le linee-guida della politica imperialista in una determinata fase storica o dalle amministrazioni che si succederanno - siano esse democratiche o repubblicane - lo scopo da perseguire a tutti i costi senza soluzione di continuità è uno solo: preservare il primato economico e finanziario mondiale, controllando i mercati delle principali materie prime e del petrolio in particolare, il tutto imposto attraverso un gigantesco apparato militare senza confronti nella storia, dai costi talmente esorbitanti da sottrarre gran parte delle risorse del paese.

Il tour del presidente americano in Medio Oriente si è svolto in due tappe distinte: la prima a Gerusalemme in Israele e a Ramallha in Cisgiordania dove ha incontrato i rispettivi leader israeliano e palestinese, Olmert e Abbas, nell’intento di dare un seguito alla riunione del novembre dello scorso anno ad Annapolis sponsorizzata dalla Casa Bianca per trovare un accordo di pace. Naturalmente l’annoso problema resta insoluto e demandato ad un futuro non prossimo, soprattutto in considerazione della debolezza interna dei due personaggi, in particolare del presidente dell’Autorità nazionale palestinese a cui sta sfuggendo il controllo della Striscia di Gaza a tutto vantaggio del partito rivale islamico di Hamas.

La seconda tappa ha toccato cinque paesi arabi: Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Egitto. Qui sta il senso di tutto il viaggio di Bush, ossia fare propaganda intorno alla malvagità e addirittura alla pericolosità, per il mondo intero, del regime iraniano di Ahmadinejad. Il giochino è sempre lo stesso e consiste nel dare in pasto all’opinione pubblica il cattivo di turno per giustificare l’intervento militare, contemporaneamente dividere il fronte arabo tra sanniti e gli sciiti, dietro ai quali si avverte la presenza dell’Iran, finendo col dichiarare quest’ultimo stato canaglia oltrechè finanziatore del terrorismo internazionale.

L’indirizzo perseguito dalla borghesia americana è chiaro: quando le circostanze lo consentiranno e indipendentemente dalla parte politica al potere a Washington, una volta terminata la guerra, a proprio vantaggio, e normalizzata la situazione in Iraq, allora gli Usa rivolgeranno la loro attenzione all’Iran, e se nel frattempo non saranno riusciti a mettere al potere un regime con essi compiacente sarà allora che la parola passerà alle armi, anche questa volta.

La posta in palio è troppo alta: controllare Iraq e Iran significherebbe anche poter dedicare una maggiore attenzione all’Arabia Saudita ed essendo questi i tre principali paesi petroliferi del Golfo Persico, di fatto, tutto ciò si tradurrebbe nella possibilità di controllare flussi e prezzi dell’oro nero a scala mondiale e perpetuare la propria egemonia per lungo tempo.

Per l’imperialismo americano tutto questo configurerebbe lo scenario ideale, difficile però da raggiungere senza fare i conti con Tehran, e in ogni caso gravido di pericolose conseguenze. Per esempio cosa faranno le altre potenze imperialistiche? Già in passato la Russia ha messo in guardia gli Usa dall’attaccare l’Iran. Soprattutto la Cina, poi, sta mostrando in maniera sempre più chiara i suoi intenti imperialistici ponendo fattive presenze in varie aree del pianeta e anche con l’Iran si accentuano sempre più le relazioni si stringono sia economiche che militari, prospettando perfino una presenza diretta cinese sul territorio iraniano.

Questi sono solamente alcuni interrogativi che prefigurano uno scenario internazionale, come sempre più complesso, così come diventa sempre più problematico soddisfare le esigenze del processo di accumulazione capitalistico, causa prima di contraddizioni e crisi sempre più devastanti.

cg

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.