Guerra in Georgia - Chi controllerà petrolio e gas del bacino del Caspio?

Probabilmente le frasi che meglio descrivono la situazione attuale nel Caucaso meridionale - nonché la diversa determinazione delle forze in campo - sono quelle attribuite al colloquio privato tra Putin e Bush, avvenuto a margine dell'inaugurazione delle olimpiadi di Pechino. Il premier russo avrebbe dichiarato senza mezzi termini che “in Sud Ossezia di fatto è scoppiata una guerra”, aggiungendo peraltro che l’intervento non sarà probabilmente di breve durata, ma anzi “in Russia molti volontari intendono andare lì e indubbiamente è molto difficile mantenere la pace nella regione”. Bush si sarebbe limitato a replicare che “nessuno vuole una guerra”. (1)

Le vicende che hanno portato allo scoppio del conflitto, nella notte tra il 7 e l’8 agosto, non sono chiare. Tuttavia l’escalation - preannunciata da una serie di provocazioni reciproche, ma anche dall’evacuazione di donne e bambini dall’Ossezia del Sud, cominciata già ai primi di luglio - è apparsa subito preoccupante. Il giorno successivo il controllo di Tskhinvali, capitale della regione separatista, era ancora conteso tra forze russe e georgiane. Aerei russi avevano nel frattempo bombardato la città di Gori (che, piuttosto che per aver dato i natali a Stalin, è importante perché percorsa dalle pipeline regionali) e diversi altri obiettivi in territorio georgiano, distruggendo il porto di Poti, nei pressi del terminale petrolifero di Supsa. Aerei sarebbero stati visti provenire da territorio armeno, ed il conflitto si è presto esteso all’Abkhazia, altra regione separatista, dove sarebbe stata lanciata una offensiva contro le truppe georgiane attestate nella gola di Kodori. Nelle ultime ore, dopo il blocco navale imposto dalla flotta russa, truppe di terra pare abbiano occupato alcuni nodi nevralgici. Le vittime civili sono ancora difficili da quantificare. Fonti russe descrivono un massacro con circa 1500 morti tra i civili, ma la cifra è contestata da Tbilisi. Certo è che gli attacchi, sia in territorio osseto che georgiano, non hanno risparmiato la popolazione inerme. (2)

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Dal canto suo, in un’intervista alla Cnn, il presidente georgiano Saakashvili ha esplicitamente chiesto l’intervento degli Stati Uniti:

Non è più solo una questione georgiana. Si tratta dell’America e dei suoi valori. Noi siamo una nazione amante della libertà che ora si trova sotto attacco. (3)

Sulla presunta “democraticità” del reazionario regime di Saakashvili, fondato su nepotismo e repressione di ogni opposizione, come su quella dei suoi sponsor americani, per il momento sorvoliamo. È chiaro però che la vicenda dell’Ossezia, oltre a prevedere nell’immediato uno scontro tra Russia e Georgia, sia al contempo al centro dello scontro tra Russia e Usa sulle interferenze della Nato nell'area ex sovietica e sul controllo delle via di trasporto e di commercializzazione del gas e del petrolio caspici, che sono i veri “valori” in gioco.

Non è che l’ulteriore riprova - se ce ne fosse bisogno - che nell'epoca dell'imperialismo qualsiasi questione nazionale finisce per essere fagocitata dal processo di ricomposizione imperialistico in atto. Non poteva avvenire diversamente per l’Ossezia del Sud.

Il conflitto non cade dunque come fulmine a ciel sereno, ma era in preparazione da anni. I rapporti tra Russia e Georgia non sono mai stati distesi, fin dal crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, ma sono significativamente peggiorati dopo la Rivoluzione delle Rose che nel 2003, nella stagione delle cosiddette rivoluzioni colorate foraggiate dagli Stati Uniti, ha sostituito il debole e corrotto governo di Shevarnadze con quello dell'ultra-nazionalista Saakashvili. Già alla fine del 2006 la tensione si era fatta palpabile, sfociando nella cosiddetta “crisi delle spie”. Come scrivemmo già in quell’occasione:

Dietro tutte le tensioni che si manifestano nell'area caucasica, si nasconde in realtà una lotta senza esclusione di colpi per assicurarsi il controllo dei flussi energetici. Fino ad oggi l'unico percorso possibile, sia per il petrolio di Baku che per quello di Tengiz, era l'oleodotto CPC (Caspian Pipeline Consortium) che garantiva alla Russia il controllo quasi completo delle risorse dell'area. Ma dopo l'inaugurazione dell'oleodotto Baku-Tbilisi-Cheyan (BTC), avvenuta il 13 luglio, il petrolio potrà fluire senza attraversare i confini russi. Un gasdotto parallelo, la South Caucasus Gas Pipeline (SCP), è in via di completamento. (4)

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Da allora tuttavia si sono verificati diversi cambiamenti significativi. Le tensioni sono proseguite a riguardo dello scudo antimissile voluto dagli Usa, con radar e postazioni missilistiche da installare in Europa dell’Est, in primis in Repubblica Ceca e Polonia, ma anche sulla dislocazione di basi e nuclei militari statunitensi, la cui presenza in Caucaso e Asia Centrale, sempre più difficoltosa, continua ad infastidire l’imperialismo russo, che considera tali aree suo “giardino di casa”.

A voler individuare un evento preciso, probabilmente il livello di massima sopportazione per Mosca è stato raggiunto la scorsa primavera, quando gli accordi per le importazioni energetiche dall’Asia Centrale (Turkmenistan, Uzbekistan e Kazakistan) sono stati tutti chiusi con grossi rincari ai danni di Gazprom (pare che il prezzo pattuito per il 2009 sia vicino ai 250$ per 1000 metri cubi). Gli stati centrasiatici hanno potuto negoziare da una posizione abbastanza diversa rispetto al passato, spuntando prezzi soddisfacenti, dietro la minaccia di una diversificazione delle vie di commercializzazione. A questo riguardo, le pipeline transcaucasiche hanno giocato naturalmente un ruolo fondamentale. (5)

Ma il quadro era, ed è, in veloce mutamento. In primo luogo, la crisi finanziaria internazionale, partita dalla cosiddetta “crisi dei subprime” negli Stati Uniti, sta determinando un contesto nuovo nelle dinamiche inter-imperialiste. Secondo dichiarazioni provenienti dal Ministero degli esteri russo:

Gli Usa sono sull’orlo di una crisi di sopravvivenza, una crisi di massa [...] Gli Stati Uniti sono sulla china di cambiamenti drastici e dolorosi; tanto per cominciare devono imparare a vivere all’altezza dei loro mezzi. (6)

Da auspicare quindi “una minor interdipendenza” nelle relazioni con gli Usa, ossia maggiore indipendenza dalla svalutata moneta statunitense, ma anche dalla loro agenda politica e militare.

Infatti, inestricabilmente legata alla crisi finanziaria, sta sviluppandosi una più complessiva crisi dell’imperialismo americano, che non solo è rimasto impantanato in Afghanistan e Iraq, ma ha anche mancato l’obiettivo di approvare quest’anno un piano di adesione di Georgia e Ucraina alla Nato, che avrebbe portato i confini dell’alleanza atlantica a ridosso della Russia. Nel vertice Nato dello scorso aprile a Bucarest, invece, a seguito del deciso niet russo e della opposizione di Francia e Germania, le porte dell’alleanza sono rimaste chiuse per gli stati ex-sovietici. Dopo quel passo falso degli Usa, il governo russo pare aver acquisito piena coscienza dell’entità delle ferite dell’imperialismo statunitense, palesando ormai l’intenzione di prendere il timone della politica internazionale.

In realtà anche la Russia non è affatto immune alla crisi del ciclo di accumulazione (7). Tuttavia intravede la possibilità di sfuggire alla crisi (o subirne meno gli effetti) scaricandola all’esterno, cercando di imporre un signoraggio del rublo in contrapposizione al dollaro e di controllare il prezzo dell’energia, e quindi in certa misura la composizione organica del capitale dei concorrenti.

La Russia intende riproporsi quindi come centro imperialistico internazionale, sia sul terreno delle materie prime energetiche (è già il primo esportatore al mondo sommando petrolio e gas) sia su quello finanziario. In tal senso va letta la legge del maggio 2006, voluta da Putin, in cui si impone agli operatori russi di vendere oro e petrolio in rubli, ponendosi in diretta concorrenza con il dollaro Usa.

La rivista di geopolitica Limes (8) riporta poi l’obiettivo perseguito all’interno del Cremino di costituire una “Unione Russa”. Pur riecheggiando nel nome l’Unione Sovietica, il piano non è tuttavia da intendere come una antistorica riproposizione del vecchio impero. Il nuovo progetto, anzi, potrebbe essere ancora più ambizioso. Fondato sulla “geopolitica del gas”, ossia sul controllo semi-monopolistico delle risorse energetiche, delle loro vie di transito e soprattutto delle rendite e speculazioni legate alla loro commercializzazione, estenderebbe l’influenza russa ben oltre gli antichi confini sovietici.

Le diverse potenze imperialiste si accingono quindi a stabilire equilibri diversi, proseguendo cruentemente il percorso di concentrazione e centralizzazione del capitale a livello globale. Quel che può apparire oggi come un passo in avanti per la Russia è in realtà solo un passo verso un confronto più allargato. Ciò che si prepara per il proletariato è non solo di continuare ad essere sfruttato (sempre più) nei posti di lavoro, per mantenere in piedi un sistema produttivo ormai decadente, ma per di più di pagare con crescenti tributi di sangue gli appetiti imperialistici delle opposte potenze.

Mic

(1) rainews24.it .

(2) peacereporter.net

(3) ilsole24ore.com

(4) Battaglia Comunista 1/2007, La crisi fra Russia e Georgia si acuisce

(5) eurasianet.org

(6) Effedieffe, Mosca: Usa in crisi di vita o di morte

(7) Prometeo 14/2006 - L'imperialismo russo alla riscossa?

(8) Limes 3/2008 - “Progetto Russia”.