You are here
Home ›Sulla fine dell'economia della carta e le sue possibili conseguenze
Dopo la crisi dei subprime esplosa nell'agosto dello scorso anno, anche fra gli economisti più pessimisti era prevalente la convinzione che quella tempesta finanziaria non avrebbe avuto effetti drammatici sull'economia reale.
L'economista statunitense Alen Sinai prevedeva, per esempio, un periodo di semi-recessione dai sei ai nove mesi e poi una ripresa della crescita a un tasso dell' 1 per cento annuo perché secondo lui, benché la crisi dei mercati finanziari fosse molto grave, i fondamentali dell'economia reale erano solidi. (1)
In un articolo scritto nel pieno della tempesta finanziaria che si è scatenata negli ultimi mesi, il ministro del tesoro statunitense, Henry M. Paulson, pur essendo costretto ad ammettere che:
“Ci ritroviamo nel mezzo di una crisi più grave e imprevedibile di quelle che abbiamo fin qui vissuto”
descrive ancora la crisi come una crisi essenzialmente finanziaria. Nel prosieguo dell'articolo si legge infatti:
“A settembre il governo si è trovato davanti a un'incombente crisi totale di sistema: dopo esserci avvalsi per mesi dell'autorità di cui godevamo, abbiamo chiesto al congresso un piano di salvataggio omnicomprensivo e dettagliato, così da stabilizzare il nostro sistema finanziario e ridurre al minimo gli eventuali danni alla nostra economia. Quando il 3 ottobre è stata approvata tale legge, la crisi dei mercati globali era ormai così grave che abbiamo dovuto muoverci con grande rapidità e prendere provvedimenti molto incisivi per stabilizzare il nostro sistema finanziario e rimettere in moto il flusso del credito. Il nostro intento in origine era quello di rafforzare il sistema bancario acquisendo ipoteche non liquide e titoli legati alle ipoteche [i famigerati cod - ndr]. Ma la gravità e la portata della situazione erano peggiorate a tal punto che un semplice programma di acquisti di asset non sarebbe stato più abbastanza efficace. Pertanto abbiamo rapidamente varato un programma di iniezione di capitali per 250 miliardi di dollari premettendo che a ciò avrebbe fatto seguito un programma per l'acquisto di asset tossici.” (2)
Per Paulson, come si evince anche dal titolo dell'articolo riportato in nota, l'immissione di liquidità nel sistema del credito resta ancora la migliore arma per fronteggiare quella che si annuncia come la più devastante crisi che abbia mai colpito il sistema capitalistico.
D'altra parte, Paulson è un banchiere (per molti anni è stato uno dei più importanti dirigenti della banca d'affari Goldman e Sachs che, fra le banche d'affari statunitensi, è una di quelle che ha maggiormente beneficiato dalla manovra di Paulson) e, dal punto di vista del banchiere, la produzione di denaro e/o dei suoi titoli rappresentativi è un'autentica produzione di valore per cui l'immissione sul mercato di altro denaro compenserebbe i titoli del debito come se essa fosse l'equivalente di una produzione supplementare di merci e non un'ulteriore anticipazione di una futura produzione reale di valore ovvero un nuovo debito.
In realtà l'estinzione di un debito con un altro debito è tale soltanto dal punto di vista del banchiere per il quale il ciclo di riproduzione del capitale consiste nel solo movimento D-D' e non, com'è realmente, nel movimento D-M-D' che presuppone che prima di giungere a D' abbia necessariamente avuto luogo la trasformazione di D in M e l'estorsione alla forza-lavoro impiegata di una quantità di plusvalore pari, in termini di valore, alla differenza fra D' e D. Per questa ragione al banchiere sfugge completamente la contraddizione implicita nella funzione del denaro come misura astratta di valore in quanto mezzo di circolazione delle merci e merce universale in cui il valore effettivamente si incarna.
“La funzione del denaro -- scrive Marx nel Primo Libro del Capitale -- come mezzo di pagamento implica una contraddizione immediata. Finché i pagamenti si compensano, il denaro funziona solo idealmente, come denaro di conto ossia misura dei valori. Appena si debbono compiere pagamenti reali, il denaro non si presenta come mezzo di circolazione, come forma del ricambio organico destinata solo a far da mediatrice e a scomparire, ma si presenta come incarnazione individuale del lavoro sociale, esistenza autonoma del valore di scambio, merce assoluta.” (3)
Nel capitalismo moderno, e in particolar modo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, è accaduto quel che ai tempi di Marx non sarebbe stato possibile - ma che Marx, come potremo verificare fra poco, ha anticipato con grande puntualità - e cioè che a un certo stadio dello sviluppo capitalistico e del sistema del credito anche la carta moneta, benché priva di un qualsiasi valore intrinseco, potesse assommare in sé sia la funzione di denaro come semplice mezzo di circolazione sia come “incarnazione individuale di valore” e pertanto utilizzabile a pieno titolo anche “nei pagamenti reali”.
È stato un lungo processo che ha presupposto la nascita del monopolio pubblico dell'emissione di carta moneta, cioè che fosse lo Stato a garantire in un primo momento che a una determinata quantità di carta-moneta in circolazione corrispondesse una determinata quantità di moneta-merce (oro o argento) accumulata nei forzieri dell' Istituto autorizzato a emetterla (Banca Centrale) e in cui la carta-moneta poteva in qualsiasi momento essere convertita e, successivamente, con l'emissione di biglietti inconvertibili, che essi fossero comunque titoli rappresentativi delle reali capacità del paese di produrre, in termini di valore, una corrispondente quantità di merci e servizi (Pil). In tal modo la rappresentazione ideale di valore, la carta-moneta, nel corso del tempo, ha assunto anche la funzione di merce assoluta e in quanto tale accettata anche nei pagamenti reali. A partire dal luglio del 1971, cioè da quando gli Usa denunciarono gli accordi di Bretton Woods e il dollaro non fu più convertibile in oro, questa metamorfosi, dal sistema di circolazione interna, si è estesa al sistema dei pagamenti internazionali. Da allora, per la prima volta nella storia del capitalismo, un biglietto inconvertibile (il dollaro) è stato utilizzato sia come denaro di conto per le operazioni di compensazione degli scambi internazionali sia per pagamenti diretti di merci e servizi importati. È sembrato così che, potendosi scambiare merci contro biglietti di carta, allo stesso modo si potesse estinguere qualsiasi titolo di debito. Pertanto agli occhi interessati del banchiere è sembrato che il sogno dell'antico alchimista di trasformare le pietre in oro si fosse realizzato con la carta-moneta e quindi che fosse la produzione della rappresentazione ideale del valore, e non quella delle merci il vero motore del processo di produzione della ricchezza e così ha esclamato: ecco il dollaro, ecco l'oro! Ed ebbro di questo suo nuovo magico potere ne ha stampati così tanti che non solo è divenuto impossibile quantificarli ma è divenuto umanamente impossibile fargli corrispondere, in un tempo ragionevole, una corrispondente e concreta produzione di ricchezza reale.
Un'idea, seppure approssimativa, del fenomeno, la danno i dati relativi alle dimensioni dei volumi di scambio sui mercati commerciali e finanziari. A fronte di un volume di scambi giornaliero di beni e servizi pari a circa 100 miliardi di dollari ne corrisponde uno sui mercati dei cambi e dei derivati finanziari pari a 5.500 miliardi di dollari (4). È stato calcolato che per riassorbire questa produzione di valori fittizi sarebbe necessaria tutta la produzione mondiale di merci e servizi di 250 anni. Ora, si può credere in dio, nella moltiplicazione dei pani e dei pesci, alla manna dal cielo e perfino agli asini che volano, ma da che mondo è mondo la carta non ha sfamato mai nessuno tanto più se per poterla trasformare in pane bisogna aspettare 250 anni. Alla lunga quindi la carta è tornata a essere solo carta e l'arcano della ricchezza che si produce dal nulla si è svelato per quel che realmente era: un imbroglio.
“Questa contraddizione [quella implicita nella duplice funzione del denaro - ndr] -- scrive ancora Marx -- erompe in quel momento delle crisi di produzione e delle crisi commerciali che si chiama crisi monetaria. Essa avviene soltanto dove si sono sviluppati pienamente il processo a catena continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione. Quando si verificano turbamenti generali di questo meccanismo, quale che sia l'origine di essi, il denaro si cambia improvvisamente e senza transizioni: da figura solo ideale della moneta di conto, eccolo denaro contante.
Non è più sostituibile con merci profane [nel nostro caso leggi: biglietti inconvertibili denominati in dollari, cod, futures, swaps e quanto altro la cosiddetta finanza creativa ci ha regalato nel corso degli ultimi trenta anni - ndr]. Il valore d'uso della merce è senza valore e il suo valore scompare dinanzi alla propria forma di valore. Il borghese aveva appena finito di dichiarare, con la presunzione illuministica derivata dall'ebbrezza della prosperità, che il denaro è vuota illusione. Solo la merce è denaro. E ora sul mercato mondiale rintrona il grido: “Solo il denaro è merce!” Come il cervo mugghia in cerca d'acqua corrente, così la sua anima invoca denaro, l'unica ricchezza. Nella crisi, l'opposizione fra la merce e la sua figura di valore, il denaro, viene fatta salire fino alla contraddizione assoluta. Perciò qui è indifferente anche la forma fenomenica del denaro. La carestia di denaro rimane la stessa, sia che i pagamenti debbano essere fatti in oro o moneta di credito, per es. banconote”. (5)
Poiché, come abbiamo visto, per il banchiere moderno, il denaro come rappresentazione ideale del valore e il denaro come merce universale sono la stessa cosa, per scongiurare le conseguenze della carestia di quest'ultimo nella convinzione che l'unica forma di denaro fittizio sia quella costituita dai titoli di debito derivati dalla carta-moneta (obbligazioni, azioni, futures, cambiali, carte di credito ecc.) e non anche la carta-moneta stessa, egli sta inondando il mondo di un'altra montagna di biglietti inconvertibili. Secondo lui basterà dare a questa nuova produzione di denaro il tempo di riassorbire quelli che per lui sono le uniche merci profane, i titoli tossici, e tutto tornerà come prima. Non è dunque un caso che anche le previsioni più pessimistiche collochino alla fine del 2009 l'inizio della prossima ripresa economica mondiale. Se si guarda alla realtà delle cose, però, risulta evidente che il denaro con cui si pensa di eliminare dal mercato i titoli tossici perché inesigibili, è a sua volta denaro fittizio per cui l'operazione in corso altro non è che una semplice partita di giro, una sostituzione di merci profane con altre merci profane. In sostanza si sta procedendo alla sostituzione di un debitore con un altro, nella fattispecie, dello Stato con le grandi banche d'affari. In questo senso, ha davvero ragione Paulson a ritenersi:
“...molto orgoglioso dell'intervento decisivo del Dipartimento del Tesoro, della Fedc e della Fdic [Federal Deposit Insurance Corporation - ndr] mirante a stabilizzare il nostro sistema finanziario.” (6)
In nome dell'interesse generale della società è riuscito infatti a trasferire le perdite delle grandi banche d'affari allo Stato che è poi il modo più elegante per trasferirle sugli ignari e innocenti pagatori di ultima istanza: i lavoratori. Da qui però a ritenere questa operazione una buona ricetta per uscire dalla crisi corre la stessa incommensurabile distanza che separa il dire dal fare.
Una crisi che viene da lontano
Di fronte al rischio che la crisi si trasformi in una catastrofe di dimensioni incalcolabili, anche quegli uomini di stato, economisti, banchieri, opinionisti e giornalisti , che fino a ieri trascorrevano la gran parte del loro tempo a innalzare peana al cielo per esaltare l'opera salvifica della famosa mano invisibile del mercato, mentre elogiano lo Stato che si fa carico delle perdite delle banche producendo denaro fittizio, non esitano a invocare nuove regole che limitino la produzione di questa forma di denaro e una nuova Bretton Woods per ridefinire il sistema di pagamenti internazionali. Di fronte a questo ritorno di fiamma per il rispetto delle regole, viene il sospetto che, con l'approssimarsi dell'autunno, deve essersi selezionato un particolare virus influenzale che attacca, come un tempo la gotta gli arti dei nobili, la mente dei borghesi provocando una forma di amnesia degenerativa. Come spiegare altrimenti il fatto che nessuno di loro ricordi che gli accordi di Bretton Woods furono denunciati nel luglio del 1971 dall'allora presidente degli Usa Nixon? E che la liberalizzazione dei mercati finanziari fu imposta, a partire dai primi anni '80 del secolo scorso, dagli Stati Uniti e della Gran Bretagna? E che nel 1999 negli Stati Uniti è stato abolito il Glass Steagal Act introdotto da Roosvelt nel 1933 proprio perché, oltre che separare le attività delle banche d'affari da quelle delle banche commerciali, vietava a queste ultime l'emissione di titoli di debito garantito dai depositi dei risparmiatori limitando così fortemente la produzione incontrollata di denaro fittizio? In realtà, se si va più in profondità nell'analisi dell'attuale crisi ci si rende conto che essa è solo in apparenza conseguenza degli eccessi della finanza speculativa e del conseguente blocco del credito interbancario, ma è piuttosto la conseguenza del riemergere, ulteriormente ingigantita e dilatata nello spazio, di quella medesima contraddizione, immanente al processo di accumulazione reale del capitale, che si è manifestata già a partire dai primi anni Settanta con una significativa riduzione del saggio medio del profitto industriale soprattutto negli Stati Uniti. La malattia di oggi è cioè causata da quello stesso insopprimibile agente patogeno che ha dato linfa a questo infernale meccanismo di appropriazione parassitaria di plusvalore incentrato sulla produzione incontrollata di denaro fittizio. E si è inceppato non perché come dice il banchiere moderno c'è carenza di liquidità, ma al contrario perché ne è stata prodotta troppa in relazione alle effettive capacità del sistema di generare un corrispondente flusso di ricchezza reale.
Che fine ha fatto, per esempio, la liquidità denominata in euro immessa dalla Bce nel sistema del credito nel periodo compreso tra lo scorso settembre e la fine del mese di ottobre?
“È finita -- ci informa E. Scalfari su La repubblica del 9/11/2008 -- nelle casse della Bce.... Era stata data nella speranza che il credito interbancario, cioè quello che le banche si prestano reciprocamente, riprendesse a scorrere fluentemente. Invece le banche hanno ridepositato la liquidità presso la Banca centrale. Ci lucrano la differenza ma intanto tagliano i crediti ai clienti. Le cifre sono queste: il 10 settembre i depositi delle banche alla Bce di Francoforte ammontavano a 48 milioni di euro; al 31 ottobre ammontano a 280 milioni.”
Altrettanto stanno facendo i paesi che registrano significativi surplus nelle loro bilance dei pagamenti. Anche a voler prendere in considerazione solo alcuni di essi (i produttori di petrolio 946 miliardi di euro, la Cina 464 miliardi, la Germania 324 e il Gia6pone 225) si raggiunge l'astronomica cifra ci circa duemila miliardi di dollari che non vengono però reinvestiti, perché? La ragione è semplice. Poiché i capitalisti investono soltanto se c'è una ragionevole prospettiva di realizzare congrui profitti e oggi questa prospettiva non c'è in nessun settore, chi ha capitali se li tiene nel cassetto. E se andiamo a vedere un po' più da vicino quel che è accaduto negli ultimi trent'anni ne abbiamo la conferma. Alla liberalizzazione dei mercati finanziari e all'introduzione della microelettronica nei processi produttivi, ha fatto seguito una nuova divisione internazionale del lavoro con la delocalizzazione dei processi produttivi ad alto contenuto di manodopera in aree dove era possibile sfruttare milioni di uomini, donne e bambini come e più delle bestie e dunque con ottime prospettive di poter realizzare abbondanti profitti e sui malcapitati indonesiani si è riversato un fiume di denaro. Per esempio, riferendosi all'Indonesia, che come è noto è stato uno dei paesi più bagnati da questo fiume di denaro, John Perkins, ex -- come egli stesso si definisce -- sicario dell'economia per conto delle più importanti imprese transnazionali statunitensi ed ora, per suo stesso dire, pentito, scrive:
“A prima vista le statistiche ufficiali indicavano che il nostro lavoro in Indonesia negli anni Settanta aveva prodotto dei risultati economici ragguardevoli, almeno fino al 1997 [l'anno in cui si verificò il crollo delle cosiddette Tigri asiatiche - ndr]. Quelle statistiche proclamavano un basso tasso di inflazione, riserve valutarie per oltre venti miliardi di dollari [ovviamente tutti rigorosamente inconvertibili - ndr], un avanzo commerciale di oltre 900 milioni di dollari e un solido settore bancario. La crescita economica dell'Indonesia (misurata in termini di prodotto interno lordo o Pil) era stata di quasi il 9% ... fino al 1997 ... Gli economisti della Banca Mondiale, l'FMI, le imprese di consulenza, le istituzioni accademiche usavano queste statistiche per sostenere che le politiche di sviluppo promosse da noi sicari dell'economia si erano dimostrate efficaci. Constatai ben presto che le statistiche non tenevano conto del prezzo estremamente alto che il popolo indonesiano aveva pagato per quello che gli economisti definivano “miracolo economico”. I benefici erano limitati ai vertici della scala sociale. I rapidi progressi del reddito nazionale erano stati ottenuto sfruttando manodopera abbondante e a buon mercato in fabbriche dove gli operai lavoravano per ore e ore in condizioni proibitive, e con politiche che autorizzavano le corporation straniere a distruggere l'ambiente e condurre attività che sarebbero state illegali in Nord America e nel resto del “primo mondo”. Sebbene il salario minimo fosse salito a circa tre dollari al giorno, spesso veniva ignorato. Nel 2002 si stimava che il 52% della popolazione indonesiana vivesse con nemmeno di due dollari al giorno, una condizione paragonabile per molti versi a una moderna schiavitù. Nemmeno tre dollari al giorno erano sufficienti a soddisfare i bisogni elementari quotidiani degli operai e delle loro famiglie...Forse in nessun altro posto il nesso fra povertà, abusi delle corporazione consumatori statunitensi più evidente che nelle fabbriche sfruttatrici dell'Indonesia( che sono rappresentative di quelli di altri paesi).” (7)
E alla Nike, ci informa sempre Perkins, il salario giornaliero era di circa 1, 25 dollari al giorno.
Se si tiene conto di tutto questo appare chiara qual è stata la vera ragione per la quale la produzione di denaro fittizio, il re Mida dei nostri tempi, ha avuto successo per così tanto tempo. Se poi si tiene anche conto che la stessa cosa è accaduta in Cina, in India, nell'America Latina e in quasi tutti i paesi dell'ex blocco sovietico, risulta ancora più evidente quanto sia stata grande, per chi aveva il potere di produrre ed esportare denaro o capitale fittizio che dir si voglia a proprio piacimento, la possibilità di realizzare enormi profitti ovvero di trasformare con successo quelli che erano solo simboli di valore in - per dirla con Marx - concreta incarnazione individuale del lavoro sociale, esistenza autonoma del valore di scambio, merce assoluta.
Il fiume, allettato dai facili guadagni, si è ingrossato fino al punto che anche se i lavoratori della Nike avessero rinunciato al loro miserabile dollaro al giorno, il plusvalore loro estorto non sarebbe stato sufficiente a remunerarlo; allora esso ha cambiato direzione lasciando l'Indonesia letteralmente in braghe di tela. Si è passati così dall'abbondanza di capitali alla carestia a conferma che la loro eccedenza o scarsità non è data dalla grandezza assoluta dei loro volumi, ma dal loro volume in relazione alla massa dei profitti che investendoli in questo o quel settore, in questo o quell'angolo del mondo si può realizzare.
Se si vuole comprendere la vera causa della crisi bisogna distogliere lo sguardo da Wall Street dove è esplosa e rivolgerlo verso quell'insanabile contraddizione interna al processo di accumulazione del capitale per cui periodicamente si determina un'incapacità del sistema di generare una massa di profitto sufficientemente remunerativa dei capitali investiti.
È possibile una nuova Bretton Wood?
Per i borghesi, ammettere che questa è la principale causa di questa crisi significa dover riconoscere non solo la storicità e la transitorietà del sistema capitalistico perché le sue contraddizioni sono insanabili, ma anche che per la gran parte dell'umanità liberarsi il più in fretta possibile di questo sistema è divenuta ormai una improrogabile necessità. Per questa ragione essi sono indotti a considerare la crisi come un evento accidentale e a volte perfino banale e quel che fino a qualche giorno prima appariva come il toccasana di tutti i mali appare ora come il male assoluto. Occorre una nuova Bretton Woods e un altro New Deal, ripetono con ossessionante insistenza politici, economisti, sindacalisti e perfino le soubrette negli spettacoli di varietà. Ma è davvero possibile una nuova Bretton Woods? Come si ricorderà Bretton Woods è il nome della cittadina americana dove nel 1944 i rappresentanti dei maggiori paesi del blocco occidentale si riunirono per ridisegnare un nuovo sistema di pagamenti internazionali in sostituzione di quello precedente, denominato Gold Standard perché utilizzava l'oro come moneta-merce di riferimento e ritenuto non più idoneo a garantire la stabilità dei cambi e il regolare fluire degli scambi internazionali. Fu sostituito con un sistema denominato dollar exchange standard perché utilizzava come moneta di riferimento non più direttamente l'oro, ma il dollaro, la cui emissione era comunque garantita dalla sua convertibilità con l'oro e dall'obbligo per la Federal di accumulare riserve auree in ragione di un rapporto di 34 dollari per oncia. Il riconoscimento del dollaro come unico mezzo di pagamento internazionale era di fatto il tributo dei vinti al vincitore. Ma, paradossalmente, ad abbandonare questo nuovo sistema furono proprio gli Stati Uniti. Si scoprì, infatti, che per fronteggiare la crisi dei profitti industriali, essi stavano stampando più dollari di quanti avrebbero potuto stamparne in' base agli accordi di Bretton Woods e così per evitare di dichiarare bancarotta, nell'estate del 1971, denunciarono quegli accordi e decretarono l'inconvertibilità della loro moneta. Di fatto imposero al mondo intero un nuovo sistema di pagamenti internazionali basato però su un biglietto inconvertibile che potevano stampare a loro piacimento. Si calcola che all'epoca, in tal modo, si assicurarono una rendita finanziaria pari a circa 550 miliardi di dollari l'anno. E poiché l'appetito vien mangiando hanno stampato in quantità industriale non solo dollari, ma anche ogni sorta possibile di titoli di debito denominati in dollari. Dagli operatori di borsa al funzionario di banca, tutti hanno potuto emettere titoli denominati in dollari alimentando così una gigantesca domanda di beni e servizi provenienti da ogni angolo del mondo.
Il circolo si è chiuso quando quel che è accaduto nei primi anni 1990 in Indonesia si è riproposto su scala mondiale. Nel tentativo di contenere la produzione di capitale fittizio, sono stati alzati i tassi di interessi con la conseguenza che un numero crescenti di debitori non è stato più in grado di onorare i propri impegni e a questo punto il meccanismo si è rotto.
Torniamo ora alla nostra domanda iniziale: è possibile una nuova Bretton Woods? In via del tutto astratta niente lo vieterebbe, ma è evidente che ciò implicherebbe che le lancette della storia tornassero indietro, a prima del 1971. E in verità sono i media a parlarne mentre nelle segrete stanze si sta discutendo sulla possibilità di dar vita a un sistema basato su una nuova moneta di conto espressione delle valute dei paesi Ocse e di quelli cosiddetti emergenti, Cina e India. Ma anche così facendo al centro del sistema rimarrebbe sempre solo del denaro virtuale. Vista la profondità e vastità della crisi e i contrastanti interessi in campo non crediamo di correre molti rischi prevedendo che più che a un nuovo accordo assisteremo a un inasprimento dello scontro interi mperialistico e all'intensificazione all'ampliamento delle guerre in corso.
Dal New Deal al... new dream
Come è noto il New Deal è stato il piano varato da Roosvelt negli 1930 negli Usa e con nomi diversi un po' in tutti paesi industrializzati dell'epoca. Esso faceva leva sul finanziamento in deficit della spesa pubblica per la realizzazione di opere civili ( autostrade, acquedotti, sistemi fognari, edilizia scolastica, ospedali ecc.) e per il sostegno ai settori produttivi di interesse strategico quali il settore siderurgico, quello metalmeccanico, quello chimico e il nascente settore automobilistico. Nello schema, ispirato dall'economista Keynes, il finanziamento in deficit della spesa pubblica doveva operare da stimolo alla domanda aggregata interna e come moltiplicatore degli investimenti privati in modo da favorire il riassorbimento della disoccupazione sia della forza-lavoro sia dei mezzi di produzione e, per questa via, della domanda aggregata e della produzione industriale, soprattutto del nascente settore dell'automobile e del suo indotto. Nello schema di Keynes ciò avrebbe dovuto attivare un circuito virtuoso in cui domanda e offerta si alimentavano reciprocamente, ma in realtà questa politica diede i maggiori frutti solo a guerra conclusa.
Ha funzionato, dunque, solo in un contesto radicalmente diverso da quello odierno. Da allora tutto è cambiato. Forse potrebbe funzionare in Cina, un po' meno in Europa, ma certamente non negli Usa. Nello schema di Keynes infatti è centrale la presenza di un diffuso e robusto settore industriale nonché la possibilità di realizzare, investendo nel settore, adeguati profitti. Ora, entrambe queste condizioni mancano negli Usa già da circa 40 anni. Il settore manifatturiero è letteralmente scomparso ed è stato progressivamente soppiantato da quello finanziario. Nel 1980 esso costituiva ancora il 21 per cento del Pil, nel 2005 soltanto il 12 e non è difficile immaginare che nel corso di questi ultimi tre anni il suo peso si sia ulteriormente ridotto. In questo stesso periodo quello dei servizi legati alla sfera finanziaria è passato dal 15 al 21 per cento e se si approfondisce l'analisi dei bilanci delle grandi imprese che nominalmente fanno parte del settore manifatturiero, si scopre che il peso delle attività finanziarie è ancora maggiore di quel che dicono le statistiche. La General Motor, per esempio, pur essendo dopo la Toyota, la seconda impresa del settore automobilistico del mondo, in realtà è un agglomerato in cui gli asset finanziari costituiscono l'80 per cento del suo bilancio aggregato. Né le cose stanno diversamente in casa Ford e Chrysler. Non occorre una grande fantasia per immaginare quindi che per esempio i 36 miliardi di dollari che lo Stato si accinge a versare nelle loro casse, più che a creare nuovi posti di lavoro serviranno per tamponare le falle aperte nei loro bilanci dal crollo dei mercati finanziari tant'è che la Chrysler ha già annunciato che se non fallirà “lascerà liberi” già entro la fine dell'anno 35.000 dipendenti. In caso di fallimento si calcola che rimarrebbe “libero” circa un milione di dipendenti sparsi in tutto il mondo. In campagna elettorale Barack Obama ha promesso la creazione di cinque milioni di nuovi posti di lavoro:
“Investiremo -- ha dichiarato in un discorso -- nell'energia solare, nell'eolico, nella prossima generazione dei biocarburanti, cercheremo di sviluppare tecnologie per avere carbone pulito e di sfruttare l'energia nucleare lavorando per renderla sicura. Questi investimenti non solo serviranno a ridurre la nostra dipendenza dal petrolio straniero, non solo ci aiuteranno a salvare il pianeta ma trasformeranno le nostre industrie e ci tireranno fuori dalla crisi economica creando cinque milioni di nuovi posti di lavoro che saranno ben pagati e non potranno essere dati in outsourcing.” (8)
Intanto, ci informa il Manifesto del 4 dicembre scorso:
“Si perdono quasi mezzo milioni di posti ogni settimana (il 50% in più rispetto alle medie storiche), ma se ne creano molti meno. Per fine anno si calcola che ne saranno andati persi un milione e mezzo, almeno.” (9)
E purtroppo le centrali a carbone pulito, quelle a energie solare, le nuove fabbriche ecc. non nascono come i funghi nel bosco o come i dollari in tipografia: per metterle in piedi ci vogliono degli anni. Basta farsi due conti e quest'altro New Deal è svanito ancor prima di vedere la luce.
Questa crisi, checché ne dica Berlusconi, è davvero globale e perciò per molti versi incontrollabile. Sul meccanismo dei finanziamento del debito mediante la produzione di altro debito si è strutturata, insieme a quella statunitense, l'economia di tutto il mondo. Sui debiti sono cresciuti i consumi interni americani, ma anche le esportazioni cinesi piuttosto che quelle indiane, brasiliane e in parte anche europee. In linea teorica il collasso potrebbe essere evitato incrementando la domanda interna di questi paesi. Ma ciò implicherebbe che in essi si verifichi un forte innalzamento dei salari e una più equa distribuzione della ricchezza, implicherebbe cioè il venir meno delle ragioni fondamentali per le quali in essi è stata delocalizzata la gran parte della produzione manifatturiera mondiale. In India, ci dice l'economista Aseem Srivasta, “il 77% della popolazione può spendere non più di 20 rupie al giorno” (10), circa 50 centesimi di euro e con 50 centesimi sia in Europa sia negli Stati uniti non si compra neppure un panino.
Al dunque, un forte e duraturo rallentamento se non del tutto il blocco dell'economia mondiale è una prospettiva tutt'altro che peregrina. Né tutto potrà mai tornare come prima. Se nell'evolversi della crisi non si modificheranno gli attuali rapporti di forza fra la borghesia e il proletariato, sarà la prima a imporre un mondo a misura dei suoi interessi. E non sarà un mondo di tutti ricchi, ma un mondo con pochissimi ricchi e tantissimi poveri e che vedrà la luce solo dopo un lungo calvario.
Giorgio Paolucci(1) Vedi l'articolo “Sulla crisi dei subprime rileggendo Marx”, Prometeo n. 16/2007, pag. 6-7.
(2) Henry M. Paulson, “Lasciamo ad Obama le armi contro la crisi”, La Repubblica del 19/11/ 2008.
(3) K. Marx, “Il Capitale”, Libro primo, capitolo terzo, pag. 166. Ed. Einaudi.
(4) Vedi Philip S. Golub, “Quello che ieri si risolveva con le armi”, Le Monde Diplomatique novembre 2008.
(5) Ibid. pag. 166-167.
(6) Articolo citato.
(7) J. Perkins, “La storia segreta dell'impero americano”, pag. 49, 50 e 51. Edizioni Minimum Fax, 2007.
(8) Dal discorso di ringraziamento per l'elezione a presidente degli Usa, La repubblica del 19/11/2008.
(9) F. Piccioni, “Tre Big Carmaker quasi fuori strada”, il Manifesto del 4 dicembre 2008.
(10) Intervista rilasciata a il Manifesto del 25.
Prometeo
Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
Inizia da qui...
ICT sections
Fondamenti
- Bourgeois revolution
- Competition and monopoly
- Core and peripheral countries
- Crisis
- Decadence
- Democracy and dictatorship
- Exploitation and accumulation
- Factory and territory groups
- Financialization
- Globalization
- Historical materialism
- Imperialism
- Our Intervention
- Party and class
- Proletarian revolution
- Seigniorage
- Social classes
- Socialism and communism
- State
- State capitalism
- War economics
Fatti
- Activities
- Arms
- Automotive industry
- Books, art and culture
- Commerce
- Communications
- Conflicts
- Contracts and wages
- Corporate trends
- Criminal activities
- Disasters
- Discriminations
- Discussions
- Drugs and dependencies
- Economic policies
- Education and youth
- Elections and polls
- Energy, oil and fuels
- Environment and resources
- Financial market
- Food
- Health and social assistance
- Housing
- Information and media
- International relations
- Law
- Migrations
- Pensions and benefits
- Philosophy and religion
- Repression and control
- Science and technics
- Social unrest
- Terrorist outrages
- Transports
- Unemployment and precarity
- Workers' conditions and struggles
Storia
- 01. Prehistory
- 02. Ancient History
- 03. Middle Ages
- 04. Modern History
- 1800: Industrial Revolution
- 1900s
- 1910s
- 1911-12: Turko-Italian War for Libya
- 1912: Intransigent Revolutionary Fraction of the PSI
- 1912: Republic of China
- 1913: Fordism (assembly line)
- 1914-18: World War I
- 1917: Russian Revolution
- 1918: Abstentionist Communist Fraction of the PSI
- 1918: German Revolution
- 1919-20: Biennio Rosso in Italy
- 1919-43: Third International
- 1919: Hungarian Revolution
- 1930s
- 1931: Japan occupies Manchuria
- 1933-43: New Deal
- 1933-45: Nazism
- 1934: Long March of Chinese communists
- 1934: Miners' uprising in Asturias
- 1934: Workers' uprising in "Red Vienna"
- 1935-36: Italian Army Invades Ethiopia
- 1936-38: Great Purge
- 1936-39: Spanish Civil War
- 1937: International Bureau of Fractions of the Communist Left
- 1938: Fourth International
- 1940s
- 1960s
- 1980s
- 1979-89: Soviet war in Afghanistan
- 1980-88: Iran-Iraq War
- 1982: First Lebanon War
- 1982: Sabra and Chatila
- 1986: Chernobyl disaster
- 1987-93: First Intifada
- 1989: Fall of the Berlin Wall
- 1979-90: Thatcher Government
- 1980: Strikes in Poland
- 1982: Falklands War
- 1983: Foundation of IBRP
- 1984-85: UK Miners' Strike
- 1987: Perestroika
- 1989: Tiananmen Square Protests
- 1990s
- 1991: Breakup of Yugoslavia
- 1991: Dissolution of Soviet Union
- 1991: First Gulf War
- 1992-95: UN intervention in Somalia
- 1994-96: First Chechen War
- 1994: Genocide in Rwanda
- 1999-2000: Second Chechen War
- 1999: Introduction of euro
- 1999: Kosovo War
- 1999: WTO conference in Seattle
- 1995: NATO Bombing in Bosnia
- 2000s
- 2000: Second intifada
- 2001: September 11 attacks
- 2001: Piqueteros Movement in Argentina
- 2001: War in Afghanistan
- 2001: G8 Summit in Genoa
- 2003: Second Gulf War
- 2004: Asian Tsunami
- 2004: Madrid train bombings
- 2005: Banlieue riots in France
- 2005: Hurricane Katrina
- 2005: London bombings
- 2006: Anti-CPE movement in France
- 2006: Comuna de Oaxaca
- 2006: Second Lebanon War
- 2007: Subprime Crisis
- 2008: Onda movement in Italy
- 2008: War in Georgia
- 2008: Riots in Greece
- 2008: Pomigliano Struggle
- 2008: Global Crisis
- 2008: Automotive Crisis
- 2009: Post-election crisis in Iran
- 2009: Israel-Gaza conflict
- 2020s
- 1920s
- 1921-28: New Economic Policy
- 1921: Communist Party of Italy
- 1921: Kronstadt Rebellion
- 1922-45: Fascism
- 1922-52: Stalin is General Secretary of PCUS
- 1925-27: Canton and Shanghai revolt
- 1925: Comitato d'Intesa
- 1926: General strike in Britain
- 1926: Lyons Congress of PCd’I
- 1927: Vienna revolt
- 1928: First five-year plan
- 1928: Left Fraction of the PCd'I
- 1929: Great Depression
- 1950s
- 1970s
- 1969-80: Anni di piombo in Italy
- 1971: End of the Bretton Woods System
- 1971: Microprocessor
- 1973: Pinochet's military junta in Chile
- 1975: Toyotism (just-in-time)
- 1977-81: International Conferences Convoked by PCInt
- 1977: '77 movement
- 1978: Economic Reforms in China
- 1978: Islamic Revolution in Iran
- 1978: South Lebanon conflict
- 2010s
- 2010: Greek debt crisis
- 2011: War in Libya
- 2011: Indignados and Occupy movements
- 2011: Sovereign debt crisis
- 2011: Tsunami and Nuclear Disaster in Japan
- 2011: Uprising in Maghreb
- 2014: Euromaidan
- 2016: Brexit Referendum
- 2017: Catalan Referendum
- 2019: Maquiladoras Struggle
- 2010: Student Protests in UK and Italy
- 2011: War in Syria
- 2013: Black Lives Matter Movement
- 2014: Military Intervention Against ISIS
- 2015: Refugee Crisis
- 2018: Haft Tappeh Struggle
- 2018: Climate Movement
Persone
- Amadeo Bordiga
- Anton Pannekoek
- Antonio Gramsci
- Arrigo Cervetto
- Bruno Fortichiari
- Bruno Maffi
- Celso Beltrami
- Davide Casartelli
- Errico Malatesta
- Fabio Damen
- Fausto Atti
- Franco Migliaccio
- Franz Mehring
- Friedrich Engels
- Giorgio Paolucci
- Guido Torricelli
- Heinz Langerhans
- Helmut Wagner
- Henryk Grossmann
- Karl Korsch
- Karl Liebknecht
- Karl Marx
- Leon Trotsky
- Lorenzo Procopio
- Mario Acquaviva
- Mauro jr. Stefanini
- Michail Bakunin
- Onorato Damen
- Ottorino Perrone (Vercesi)
- Paul Mattick
- Rosa Luxemburg
- Vladimir Lenin
Politica
- Anarchism
- Anti-Americanism
- Anti-Globalization Movement
- Antifascism and United Front
- Antiracism
- Armed Struggle
- Autonomism and Workerism
- Base Unionism
- Bordigism
- Communist Left Inspired
- Cooperativism and autogestion
- DeLeonism
- Environmentalism
- Fascism
- Feminism
- German-Dutch Communist Left
- Gramscism
- ICC and French Communist Left
- Islamism
- Italian Communist Left
- Leninism
- Liberism
- Luxemburgism
- Maoism
- Marxism
- National Liberation Movements
- Nationalism
- No War But The Class War
- PCInt-ICT
- Pacifism
- Parliamentary Center-Right
- Parliamentary Left and Reformism
- Peasant movement
- Revolutionary Unionism
- Russian Communist Left
- Situationism
- Stalinism
- Statism and Keynesism
- Student Movement
- Titoism
- Trotskyism
- Unionism
Regioni
Login utente
This work is licensed under a Creative Commons Attribution 3.0 Unported License.