Sempre più sotto tiro la supremazia del dollaro

Il governatore della banca centrale cinese propone una nuova moneta internazionale

Il governatore della banca centrale cinese Zhou Xiaochuan da tempo va sostenendo la necessità di una riforma del sistema monetario internazionale. La Cina in qualità di maggiore paese detentore di valuta e titoli di stato americani, circa 2 mila miliardi di dollari, è molto preoccupata di poterci rimettere le penne nel caso l’amministrazione statunitense decidesse di svalutare la propria moneta per ridurre il debito contratto con i vari stati. Cosa, peraltro, già avvenuta in maniera non eclatante negli anni passati.

La proposta è di demandare al Fondo monetario internazionale la gestione di una moneta di riserva basata sui Diritti speciali di prelievo, una moneta-paniere già in uso da quarant’anni dal Fmi come unità di conto, oggi basata sul dollaro americano, l’Euro, lo yen giapponese e la sterlina britannica. A cui, secondo Pechino, dovrebbe aggiungersi lo yuan. Tutto questo allo scopo di dare maggiore stabilità al sistema finanziario mondiale, sottraendo il controllo della moneta alle insufficienze dei singoli stati nazionali. Naturalmente l’idea non piace per niente a Washington ed è stata rispedita al mittente, mentre maggiore attenzione ha suscitato nei paesi dell’Unione europea, in Russia, nei paesi emergenti come l’India, e altrove ancora.

Traducendo le varie reazioni, oltre alle preoccupazioni generali per un dollaro sempre più inaffidabile come moneta per la regolamentazione dei pagamenti degli scambi internazionali e come valuta di riserva delle banche centrali, più ancora si sta giocando una partita interimperialista per sottrarre allo squalo principale la rendita finanziaria dovutagli dal signoraggio del dollaro. Sollecitazioni ancora più pressanti messe in atto dalla crisi economica e finanziaria che sta mettendo a dura prova l’egemonia degli Stati Uniti e favorendo l’emergere di più centrali di potere a scala mondiale.

D’altra parte i numeri parlano chiaro, a fronte di una economia produttiva in crescente difficoltà, soprattutto le gigantesche multinazionali, e di un sistema finanziario disastrato che, almeno per il momento, non riesce più a drenare nelle dovute quantità plusvalore ai quattro angoli del pianeta, restano i debiti che si sommano a nuovi debiti. Solo sei mesi fa il debito pubblico Usa era pari al 350% del Pil, oggi è arrivato al 500%, equivalente al valore dell’intero Pil mondiale.

Sulla base di un quadro così disastrato è ovvio che la Cina si pone il problema di tentare di uscire da questo circolo vizioso. Cosa non semplice, visto che il boom degli ultimi quindici anni si è basato su un peccato originario: nel gennaio 1994 la valuta cinese fu svalutata del 55%. Il capitale occidentale, soprattutto americano, si buttò a capofitto nell’investire in Cina, un paese dove la forza lavoro vive ancora oggi in condizioni di semi schiavitù, senza diritti e con salari al limite della sopravvivenza. L’80% degli investimenti di quegli anni proveniva dal mondo avanzato, e determinò il boom economico della Cina.

Le linee di produzione furono massicciamente trasferite, trasformando la Cina nella fabbrica del mondo e al contempo causandone la dipendenza dalle esportazioni per il mercato estero, in primo luogo di quello statunitense, stabilendosi uno stretto e inscindibile connubio tra produzione cinese e consumo americano, tra surplus commerciale dei primi costretti necessariamente a sostenere la domanda dei secondi pagandone il deficit attraverso la sottoscrizione dei titoli di stato.

Questo gioco tra un debitore che continua a pagare stampando carta, denaro e titoli del debito, e un creditore che la riceve dando in controparte merci concrete e rischiando, se le cose dovessero andare male, di restare con un pugno di mosche in mano, non poteva durare all’infinito.

I presupposti dell’attuale situazione vengono da lontano, da quando nel 1971 il presidente degli Stati Uniti Nixon dichiarò l’inconvertibilità del dollaro con l’oro, dato che già allora il mondo era stato inondato di dollari, rompendo quel sistema di cambi fissi stipulati nell’agosto del 1944 a Bretton Woods. Dalla stabilità internazionale del sistema dei pagamenti si passò ad un assetto di cambi fluttuanti, in cui il valore del dollaro agganciato ai prezzi delle principali materie prime, petrolio in particolare, permetteva all’imperialismo americano di manovrare per mantenere un dollaro alto indipendentemente dalla capacità competitiva del proprio sistema industriale. Il dollaro affrancato dal doversi confrontare con l’equivalente generale aureo, poteva rispondere solo a se stesso sulla base dell’influenza e dell’enorme capacità militare degli Stati Uniti d’America.

Contemporaneamente si evidenziavano i segnali di inversione del ciclo economico che rendevano meno profittevoli gli investimenti nella produzione rispetto all’attività finanziaria-speculativa.

Col progredire, nel corso del tempo, del fenomeno crisi e attività speculative, si rendevano attuabili cose impensabili precedentemente, la produzione su larga scala di strumenti finanziari derivati, i cosiddetti titoli tossici che hanno letteralmente inquinato la finanza internazionale. Il tutto veniva condito ideologicamente dal neoliberismo, alla produzione di merci e servizi si sostituiva la finanza creativa capace magicamente di creare ricchezza dal nulla, era l’apoteosi del capitale fittizio.

Oggi tutti stanno correndo ai ripari e tentando contraddittoriamente di prendere le distanze dagli Stati Uniti. L’euro da tempo ha corroso il dominio del dollaro come moneta di pagamento e di riserva, oggi la Cina e molto attiva nel cercare di creare la propria area di influenza. Recentemente è stata siglata un’intesa nell’interscambio commerciale tra Cina e Argentina, la quale prevede che a regolare le transizioni tra i due paesi sarà lo yuan e non più il dollaro, come avveniva prima. Stessa cosa avverrà nell’import-export tra Cina e Biellorussia e in estremo oriente con Corea del Sud, Indonesia, Malesia e Hong Kong. Senza contare che anche altri paesi stanno rivedendo il proprio riferimento rispetto al dollaro.

Cosa significa tutto ciò? Che il capitalismo ristabilendo nuove regole può invertire la rotta declinante del ciclo economico?

Certamente no! Malgrado i malanni del dollaro e dell’economia americana nessun concorrente può auspicare l’affondamento degli Usa, pena il crollo del capitalismo. Tutti sono legati al doppio filo, non a caso né il crack finanziario né la recessione ha depresso il biglietto verde. Al contrario si intensificherà lo scontro interimperialistico e col maturare della crisi la guerra generalizzata, sempre che il proletariato non alzi la testa e risponda alla barbarie a cui il capitalismo ci sta conducendo.

cg

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.