Contro ogni forma di nazionalismo mascherata da internazionalismo

La sinistra comunista italiana e la questione nazionale

«La distinzione economica tra le colonie e i popoli europei - almeno per la maggioranza di questi ultimi - consisteva un tempo in ciò, che le colonie erano comprese nello scambio delle merci, ma non ancora nella produzione capitalistica. L'imperialismo ha cambiato tutto questo. L'imperialismo è, tra altre cose, l'esportazione del capitale. La produzione capitalistica, sempre più rapidamente, si trapianta nelle colonie. È impossibile strappare queste alla dipendenza là dove si trovano di fronte al capitale finanziario europeo.
Dal punto di vista militare, come dal punto di vista della espansione, la separazione delle colonie dal dominio dei paesi colonialistici non è realizzabile, secondo la regola generale, che con il socialismo; sotto il regime capitalista essa non è possibile che a titolo d'eccezione, o anche a prezzo di numerose rivoluzioni tanto nella colonia che nella metropoli. In Europa le nazioni indipendenti hanno il loro capitale e delle facilità per costituirlo nelle condizioni più varie. Nelle colonie, il capitale coloniale non esiste o quasi, la colonia non può costituirlo altrimenti che nelle condizioni di subordinazione politica, in funzione del capitale finanziario.» (Lenin, 1916 - in Contre le courant)

Non sono mancate - in molti gruppi comparsi (e scomparsi) durante gli ultimi decenni - presuntuose riscoperte di un “marxismo ortodosso” a supporto di certe elaborazioni e posizioni tattico-strategiche presentate, in non pochi casi, come la continuazione di quanto sosteneva la corrente rivoluzionaria della Sinistra italiana, dalla sua nascita in poi.

Fra queste “elaborazioni”, un concetto ancora di moda è quello di “unificazione strategica del fronte di classe a scala internazionale”, con particolare riferimento allo scacchiere mediorientale, asiatico e sud-americano. Fa da etichetta ad una visione che si appoggia al richiamo di alcune affermazioni diffuse da un tardo bordighismo apparso nel secondo dopoguerra e dal quale noi prendemmo immediatamente le distanze. (Vedi nelle Edizioni Prometeo: Il processo di formazione e la nascita del Partito Comunista Internazionalista (1943) e La scissione internazionalista del 1952.)

Si fa ricorso ad alcune delle Tesi coloniali del II Congresso della Terza Internazionale, risalenti ad un periodo storico nel quale non soltanto era presente una concreta ed operante organizzazione internazionale di partiti comunisti ma, soprattutto, uno Stato operaio uscito da una rivoluzione proletaria vittoriosa, quella del 1917 in Russia. Un contesto storico nel quale tatticamente si poteva far leva su disuguaglianze e contrasti fra nazioni e Stati borghesi, “potenze coloniali” dell'epoca e paesi ancora semi-feudali, in vista di un allargamento internazionalista della rivoluzione russa. Che fosse comunque una tattica valida fino ad un certo punto ed a certe condizioni, era (o doveva essere) quantomeno scontato per dei materialisti che nulla hanno a che fare con idealistiche astrazioni strategiche. Si trattava di condizioni che al primo posto ponevano la necessaria presenza non solo di una organizzazione comunista internazionale ma anche, nei paesi sottoposti a dominio coloniale, di un partito comunista e non semplicemente di una sua idealistica quanto immaginaria “speranza”. Figuriamoci oggi, quando purtroppo tale partito non esiste ancora operativamente nelle “metropoli” più avanzate.

Già allora la tattica di Lenin e della Terza Internazionale, per una trascrescenza in senso socialista delle lotte di liberazione nazionale, si presentava tanto difficile quanto pericolosa nella sua applicazione e poteva ingenerare gravi scivolamenti opportunistici, alla lunga anche controrivoluzionari. (Vedi Imperialismo, lotte e guerre di “liberazione nazionale” - Dalla Terza Internazionale alla realtà del quadro politico internazionale degli ultimi decenni e le Tesi sulla tattica comunista nei paesi della periferia capitalistica - VI Congresso del P.C. Internazionalista, Ed. Prometeo)

Solo con la presenza della Internazionale e dello Stato dei Soviet (almeno nei primi anni post-Ottobre 1917), fu possibile il tentativo di lanciare un ponte - classista e internazionalista - fra un movimento comunista, non idealisticamente inteso ma concretamente operante, e le masse islamiche in fermento nel Medio Oriente e nell'Asia, ricevendo in buona parte l'assenso dello stesso locale proletariato. La lotta alla quale l'Internazionale chiamava era di classe, oltre quella “miseria religiosa” che ancora attanagliava le masse sfruttate; riproporre oggi “integralmente” il tutto, diventa una contraddizione a parole e nei fatti col materialismo dialettico da applicarsi nella presente condizione storica. Finendo con l’accodarsi agli interessi, addirittura proclamati, delle borghesie locali.

Manipolazioni ideologiche

Quando, aprile 1924, Bordiga scrisse Il comunismo e la questione nazionale, affrontava il problema nazionale rifacendosi ad una rigorosa riaffermazione di principi e finalità generali propri del marxismo. Sosteneva quindi che

«il principio di nazionalità non è mai stato altro che una frase per l'agitazione delle masse, e, nella ipotesi migliore, una illusione di alcuni strati intellettuali piccolo borghesi» (Prometeo n. 4 - 1924 - pag. 82)

e confermava che

«il movimento rivoluzionario è guidato da un interesse superiore, col quale quegli interessi parziali [nazionali - n.d.r.] non possono contrastare se si considera tutto lo svolgimento storico, ma la cui indicazione non sorge immediatamente dai singoli problemi concernenti gruppi del proletariato e dati momenti delle situazioni. Questo interesse generale è, in una parola, l'interesse della Rivoluzione Proletaria, ossia l'interesse del proletariato considerato come classe mondiale dotata di una unità di compito storico e tendente ad un obiettivo rivoluzionario, il rovesciamento dell'ordine borghese. Subordinatamente a questa suprema finalità noi possiamo e dobbiamo risolvere i singoli problemi.» (ibidem, pag. 83)

I fattori soggettivi indispensabili per avviare il possibile inizio di un processo rivoluzionario internazionale, tale da giustificare l'appoggio ai movimenti coloniali dell'epoca, consistevano nello

«sviluppo autonomo ed indipendente del partito comunista nelle colonie, perché sia pronto a superare i suoi momentanei alleati, con un'opera indipendente di formazione ideologica ed organizzativa [... e nella richiesta di] appoggio ai movimenti di ribellione coloniale soprattutto ai partiti comunisti delle metropoli.»

Era ciò che dichiaravano le Tesi coloniali del Secondo Congresso dell'Internazionale, specificando che

«senza tali condizioni la lotta contro l'oppressione coloniale e nazionale resta un'insegna menzognera come per la Seconda Internazionale.»

La “tesi 11 - comma e” di quel documento ribadiva che

«è necessaria una lotta recisa contro il tentativo di coprire di una veste comunista il movimento rivoluzionario irredentista, non realmente comunista, dei paesi arretrati.»

Tutta la Sinistra italiana era su queste posizioni e le riconfermerà quando lo stesso Bordiga, dagli anni Cinquanta in poi, scivolerà su altre e contrastanti posizioni. Ed era stato proprio Bordiga a considerare come un “fatto fondamentale” - per il necessario

«bilancio generale della lotta rivoluzionaria nella situazione del capitalismo mondiale e della fase imperialistica che esso attraversa [...cioè nei primi anni Venti - quello che] il proletariato mondiale possiede ormai una cittadella nel primo Stato operaio, la Russia, oltre che il suo esercito nei partiti comunisti di tutti i paesi.»

La Sinistra comunista italiana si è ben guardata, fin da allora, da una sopravvalutazione del fattore nazionale nella fase imperialista di massima internazionalizzazione dei rapporti capitalistici, respingendo un’acritica trasposizione in tempi più recenti delle Tesi terzinternazionalistiche sulla autodeterminazione dei popoli. Altrettanto chiara e precisa sarà la posizione del P.c. internazionalista dopo il secondo conflitto imperialistico:

«Il problema strategico, affidato oggi dalla storia all'avanguardia rivoluzionaria, non consiste nel futile gioco intellettualistico della discriminazione degli imperialismi in lotta, di aiutare e di tifare per le giovani forze del più recente capitalismo irrompenti sulla scena del mondo, ciò che non consentirebbe di fare un passo innanzi né alle idee né alle forze della rivoluzione, ma finirebbe, favorendo anche soltanto teoricamente uno dei contendenti, per rafforzare l'imperialismo nel suo complesso. Esso consiste bensì nel lavorare in vista di una concreta iniziativa classista e rivoluzionaria del proletariato internazionale, che convogli sul piano di classe anche le lotte dei popoli di colore, tenendo presente l'ammonimento di Lenin: “In quanto la borghesia della nazione oppressa difende il proprio nazionalismo borghese, noi siamo contro di essa”.» (dallo Schema di mozione presentato dal Comitato Esecutivo al Convegno Nazionale del P.C.Internazionalista - Battaglia comunista - 5 e 6 gennaio 1958)

Una lotta di classe… nazionalista seguendo il fantasma delle rivoluzioni democratico-borghesi

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Fra le pezze teoriche che pretenderebbero oggi di rattoppare gli atteggiamenti tattici di appoggio a un “nazionalismo anti-imperialista” caratterizzante, a parole, alcuni sopravvissuti movimenti di liberazione nazionale, figura quella secondo cui una vittoria delle locali borghesie favorirebbe una soluzione bellica contraria agli interessi del capitalismo imperialista dominante, quello Usa. Questo perché - in nome “della oggettività, della logica interna e della dinamica del processo storico”… - si risolverebbe progressivamente (altro termine di moda) la contesa sulla ripartizione di rendita e profitti ricavati nei paesi oppressi e produttori di petrolio. La bandiera innalzata sarebbe quella della rottura di uno “sviluppo economico” bloccato in periferia, per favorire lì la «costruzione di un capitalismo un po' meno anemico e storpio di quello che, come regola, la centralizzazione imperialista vi consente»… Affermazioni, queste, che testualmente riportiamo da analisi e indicazioni teorico-politiche di gruppi come l’Oci (Che fare).

Queste visioni strategiche si baserebbero sempre sulla presenza nel Medio Oriente di “rivoluzioni democratico-borghesi anti-imperialiste”, sia pure di stampo islamico e con le quali il proletariato potrebbe fare un tratto di strada in comune, per poi farsi avanti a reclamare i propri diritti. “Qualunque sia la bandiera immediata” - si è arrivati a dire - queste lotte sarebbero pur sempre una palestra attraverso la quale far passare «la presa di coscienza nel proletariato, nonché la sua combattività di classe».

Per l'indipendenza capitalistica dall'imperialismo

Ma quale sarebbe l’interesse della classe operaia nei conflitti oggi scatenatisi - guarda caso - principalmente intorno al petrolio e al controllo di zone strategicamente importanti per il suo passaggio? Attenzione alle conclusioni avanzate: se il Terzo Mondo si rafforza - capitalisticamente, s’intende - liberandosi dalla “presa imperialista degli Usa” e sviluppando il proprio “industrialismo”, allora la classe operaia avrebbe la possibilità concreta di costituirsi fisicamente e di irrobustirsi politicamente. Siffatti slanci nazionali sarebbero addirittura delle ventate di benefico ossigeno per il proletariato locale, chiamato “alle armi!” affinché “la ripartizione della rendita petrolifera sia meno squilibrata a favore dell'imperialismo”. Fra gli “esempi storici” vi sarebbe l’Iran di Mossadeq (1951/’53) dove - si racconta - le classi sfruttate arabo-islamiche non avrebbero consentito alle nuove classi proprietarie locali di confiscare per sé gli accresciuti introiti derivanti dalle nazionalizzazioni delle risorse petrolifere. Infatti, in nome del “popolo”, li ha poi incassati lo Stato iraniano a beneficio… dell'interesse nazionale.

Si arriva anche a sostenere che le masse lavoratrici medio-orientali avrebbero soltanto da perdere con un prezzo del petrolio al ribasso. Dunque, perché non approfittare del concreto vantaggio derivante dalla conquista di un controllo, sia pure “parziale”, delle quantità e dei prezzi del petrolio? Si tratterebbe di ingaggiare una doppia lotta: prima anti-imperialista (a fianco di una borghesia “povera” contro una “ricca”) e poi, successivamente, anti-borghese.

I processi di formazione della rendita

A questo punto, se si ammette l'interesse delle borghesie dominate dall'imperialismo a “non spezzare il processo di formazione della rendita” (cioè a mantenere il sistema economico capitalista), come non vedere “positivamente” anche uno scontro tra briganti oppressori e briganti oppressi sperando così di indebolire la presa dell'imperialismo d'Occidente sul Terzo Mondo? Verrebbe avanti - si dice - l’interesse della classe operaia a… costituirsi fisicamente e ad irrobustirsi politicamente “entro lo slancio nazionale del giovane industrialismo”, con le nazionalizzazioni delle risorse petrolifere e la costruzione del capitalismo di Stato. In fondo, altro non si chiederebbe che una “ripartizione meno squilibrata della rendita petrolifera” e un aumento del prezzo del petrolio quale condivisibile “successo dei paesi oppressi”…

L’interesse della borghesia e quello delle masse sfruttate - sempre secondo queste idealistiche visioni - sarebbe dunque quello di mantenere il processo di formazione della rendita.

«Una rendita -- aggiungiamo noi -- che non è fatta soltanto di estrazione del petrolio, ma dalla combinazione dei suoi prezzi con il movimento complessivo del capitale finanziario su scala internazionale.» (“Petrolio e rendita da petrolio hanno mosso la guerra del Golfo e rimescolato le carte”, in Prometeo n. 1, V serie, maggio 1991)

Appoggi incondizionati alle anime radicali del popolo…

Innanzitutto, ribadiamo che la questione delle guerre nazionali si è chiusa con il superamento delle condizioni storiche presenti a metà dell’Ottocento. Nell’attuale fase storica non esiste alcun reale spazio di possibili autonomie nazionali, illudendosi che un appoggio ai movimenti borghesi in qualche paese sottosviluppato possa poi favorire lo sviluppo della lotta di classe, come se la borghesia - ammesso che ottenga un tale obiettivo - non rafforzasse il suo potere di classe per sfruttare le masse proletarie dopo averle usate come carne da macello. Si crede, e si fa credere, che la crescita del proletariato come entità sociologica e politica sia dipendente dallo sviluppo delle forze produttive e della borghesia che le gestisce. Anzi, appoggiando tale sviluppo, il partito rivoluzionario dovrebbe spontaneamente… germogliare nella riproposizione di vecchi schemi politici.

Il dominio imperialistico rende impossibile anche la solo supposizione di una guerra di liberazione nazionale con una borghesia portatrice di un interesse autonomo il cui affermarsi danneggerebbe o indebolirebbe la potenza imperiale. Oggi i conflitti si articolano tutti attorno a blocchi di interessi, per i quali si assiste a una sostanziale aggregazione di borghesie presenti in una determinata area, E questo avviene, in un modo o nell’altro, lungo linee interne ai contrasti interimperialistici che dominano la scena mondiale. La logica politica che alimenta una “strategia di antimperialismo Usa” fa leva ancora - come agli inizi del Novecento - sulla equivoca distinzione fra popoli aggrediti e popoli aggressori, già respinta dalla Sinistra italiana fin dalla Prima Guerra mondiale (vedi “Oltre il pacifismo”, Edizioni Prometeo). La si ripropone come una giusta reazione delle masse arabo-islamiche - sotto la guida delle borghesie orientali e delle loro mire imperialistiche in contrasto con quelle americane - portandole al massacro, materialmente armate da un qualsiasi Saddam o Bin Laden di turno, laico o religioso che sia.

Il petrolio arabo al popolo arabo”; questo sarebbe uno degli obiettivi, sostituendo a definite configurazioni sociali e statali il mito del popolo ovvero quell'astratto contenitore nel quale si mischiano tra loro tutte le classi e gli strati sociali: operai, contadini, studenti, disoccupati ma anche industriali, finanzieri, commercianti, militari, poliziotti, preti, banchieri e parassiti di ogni genere. Ed è con questo “praticismo”, rivendicato e giustificato nel nome di un Lenin che invece lo ha sempre condannato risolutamente, che si insiste nel mantenere aperta la questione delle guerre nazionali nella moderna fase imperialistica.

Che dire poi della eventualità di crescita di un mercato interno, autonomo ed… equilibrato; ipotesi del tutto idealistica che dovrebbe fare da supporto teorico a queste strategie “rivoluzionarie” le quali, in piena epoca imperialista, si affidano ad uno sviluppo “autonomo” delle forze produttive e ad una loro più “razionale” gestione borghese. Tutto ciò come se l'integrazione dei mercati (nella loro specializzazione), compreso quello della forza-lavoro, non avesse assunto dimensioni mondiali al seguito di interessi legati saldamente ai capitali transnazionali e vincolati alle precise leggi operanti all’interno dei loro movimenti nella disperata ricerca di quote di plusvalore ad integrazione della caduta del saggio di profitto operante nelle economie più sviluppate.

I tentativi di agitare - in teoria e in pratica - visioni storicamente insostenibili, si trasformano così in una sclerosi politica che si appoggia agli interessi di uno o l'altro dei fronti nazionali e imperialistici, in formazione o già in aperta contesa. Siamo di nuovo ad una riproposizione degli schemi della rivoluzione democratica nei paesi arretrati, alle mobilitazioni nazional-religiose per la “liberazione” da un dominio imperialistico operante a scala mondiale; infine, alla idealizzazione di differenti percorsi per una rivoluzione proletaria dai contenuti misteriosi. Si procederebbe quindi a piccole tappe intermedie, rimandando a domani sia la presentazione del programma comunista sia il lavoro di costruzione di quel partito cui spetta il compito di portare il programma stesso nelle masse proletarie.

Questa “solidarietà nazionale”, sia sul terreno sociale sia su quello bellico, dovrebbe diventare una bandiera proletaria, senza la benché minima presenza di una organizzazione di classe, proprio nel momento in cui tra le forze rivoluzionarie per il comunismo e le forze nazionali borghesi per la conservazione del capitalismo va tracciata una netta barriera di classe, che non ammette alcuna possibile alleanza. I veri marxisti lavorano e si battono per la solidarietà con le lotte degli oppressi proletari nel mondo intero e contro la propria borghesia imperialista o aspirante tale. È in questo lavoro e in questa lotta che si determina il terreno della reale unità dei comunisti internazionalisti e della concreta solidarietà proletaria.

Solidarietà interclassiste

Alle masse oppresse e sfruttate, anziché tracciare una netta barriera di classe, si propone l’appoggio ad un fronte unico interclassista, popolare, il cui collante sarebbe la lotta all'imperialismo straniero, indipendentemente da chi ne egemonizza la direzione politica.

Conosciamo le “ragioni” degli Usa, gli interessi del dollaro e delle bande che governano il “paese della libertà”; così pure le concorrenziali brame e gli egemonici piani europei in costruzione attorno all'euro. Nulla da obiettare, anzi, su tutto questo, compresa la denuncia delle condizioni del proletariato nei paesi avanzati e in quelli arretrati, e l'appello all'unità di classe oltre ogni differenza di colore e di religione. Ma sarebbe quantomeno ingenua la pretesa - elevata a momento di strategia rivoluzionaria - di sorvolare su natura e componenti di una “resistenza” chiaramente nazionalista e aspirante imperialista, solo perché contrastante con l'attuale assetto imperialistico mediorientale capeggiato dagli Stati Uniti e da Israele. L'importante - si sostiene - sarebbe colpire gli schieramenti americano ed europeo perché “famelici” imperialismi rispetto ai “moderati” appetiti del capitale orientale; ritenendo, infine, che la futura prospettiva di una “rivoluzione d'area” passi attraverso l'appoggio a una mobilitazione (un “controterrorismo”, orientale, opposto a quello occidentale, ma grondante a sua volta sangue di proletari, donne e bambini) sempre capeggiata da forze borghesi che diffondono il veleno antiproletario dell'oscurantismo religioso e del nazionalismo reazionario, un fascismo in vesti arabe. Per noi la lotta antimperialista, oggi, non può avere conduzione e obiettivi favorevoli al proletariato senza una chiara strategia rivoluzionaria internazionale, la quale abbia il suo indispensabile punto di forza nella presenza, radicata e operante, del partito di classe. La solidarietà fattiva con le masse proletarie oppresse nel mondo intero significa per noi lavorare concretamente innanzitutto per la costruzione del partito al quale spetta il compito inderogabile di portare il programma comunista nel proletariato di ogni nazione. È questa la questione principale del nostro drammatico tempo: non può essere rimandata o risolta con avventuristiche manovre politiche.

Davide Casartellli

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.