L’Italia unita e la condanna del Sud

Note sulla questione meridionale

Altro che Italia! Questa è Africa, i beduini a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile.

Lettera di Farini a Cavour, 27 ottobre 1860

Un anniversario poco esaltante

Nel 2011 l’Italia unita compirà centocinquant’anni e si prevedono grandi celebrazioni. Già da alcuni mesi tv e giornali - soprattutto “La Stampa” e “Il corriere della sera” - stanno dando molto rilievo a questo evento e non c’è da stupirsene, visto che il Risorgimento rappresenta, da destra a sinistra, il mito unificante della borghesia italiana. E oggi, forse, ancor più di ieri, se si considera che al governo c’è anche un partito - la Lega - che fino a poco tempo fa avrebbe voluto bruciare il tricolore e inneggiava apertamente alla secessione. Ma adesso è il momento della responsabilità, di rassicurare gli alleati e di trarre tutti i vantaggi possibili dalle poltrone di “Roma ladrona”, a cominciare dal federalismo fiscale che trova un ampio sostegno in tutti gli schieramenti. Ciò non toglie che un domani, se dovesse servire ai giochi del teatrino politico, Bossi o chi per lui potrebbe ritirare fuori le camicie verdi e la Padania nazione.

Ma la Lega, la sua avanzata e i principi nazistoidi che proclama sono un’altra storia, anche se di sfuggita non possiamo fare a meno di notare quanto sia paradossale - e al contempo degno di questo mondo alla rovescia - il fatto che si sviluppi un movimento secessionista proprio nella parte del paese che dall’Unità ha tratto maggiori vantaggi… ma, si sa, l’amor di patria segue la pagnotta, altro che “nazione eterna” e roba del genere, buona solo per benedire i massacri nelle trincee.

La domanda a cui invece vogliamo cercare di rispondere in questo articolo è: perché il Sud Italia è così allo sbando? Perché, in tutti questi centocinquant’anni, è sempre stata terra di miseria, emigrazione e criminalità organizzata?

Inoltre, il divario fra Sud e Nord continua ad aumentare senza sosta. Nel 2008 il tasso di occupazione del Mezzogiorno (46,1%) risulta molto più basso di quello del Centro (62,8%) e del Nord (66,9%), e ancora più diseguale è il dato sull’occupazione femminile, pari al 31,3%, a fronte di un 52,7% al Centro e un 57,5% al Nord, mentre i giovani registrano un tasso di occupazione pari al 17% (30% al Centro Nord) e un tasso di disoccupazione del 34% (15% nel resto dell’Italia). I lavoro nero impegna il 19,2% degli occupati (9,1% nel resto del Paese) (1).

Come ci dice il rapporto Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) del 2009, è una

situazione al limite del collasso, che non lascia spazio a sogni e speranze, costringendo ogni anno migliaia di persone a emigrare. I treni della speranza continuano a partire dal Sud: «Tra il 1997 e il 2008 - si legge nel rapporto - circa 700mila persone hanno abbandonato la propria terra. Nel solo 2008 sono stati oltre 122mila i residenti delle regioni del Sud partiti verso il Centro-nord, a fronte di un rientro di circa 60mila persone. La maggior parte proviene dalla Campania (25mila persone) ma anche dalla Puglia (12.200) e dalla Sicilia (11.600). Sono per lo più giovani con un livello di studio medio-alto, il 24% è laureato». Molti rimangono pendolari (173mila), residenti cioè nel Mezzogiorno ma con un posto di lavoro altrove. Rientrano a casa solo nel weekend o un paio di volte al mese. Sono “cittadini a termine”, con la necessità di partire e la speranza di tornare (2).

Insomma, come si è arrivati a questo divario che, a centocinquant’anni dall’Unità, costringe ancora schiere e schiere di giovani, proletari e non, ad abbandonare la propria terra che, sul piano del lavoro e della vivibilità, ha sempre meno da offrire?

Bisogna andare indietro. La questione meridionale nasce proprio con l’Unità d’Italia. Ovviamente questo è un dato che la storia ufficiale rifiuta, anzi, secondo il mito risorgimentale Garibaldi e re Vittorio Emanuele sono stati coloro che hanno salvato il meridione dall’arretratezza e dall’oppressione borbonica. E quindi come mai il Sud è ridotto in queste condizioni? Com’è che i meridionali sono rimasti dei “terroni”? Sono inferiori e briganti di natura, diceva Cesare Lombroso, lo psichiatra inviato a studiare questa razza selvaggia. No, è che hanno un quoziente intellettivo più basso dei settentrionali, ci dice invece uno psicologo irlandese contemporaneo (3).

Se si ha una visione razzista della storia, il gioco è fatto. Altrimenti bisogna iniziare a sfatare qualche intoccabile mito bipartisan, come quello da cui prendono il nome tante vie e tante piazze delle nostre città.

Sud preunitario arretrato: i conti non tornano

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Il primo mito che vogliamo colpire ci parla di un Regno delle Due Sicilie ancora feudale e di uno stato sabaudo all’avanguardia. E iniziamo a farlo con Bordiga:

In pochi paesi come nel reame delle Due Sicilie, se guardiamo alla storia delle lotte politiche, il feudalesimo come influenza dell’aristocrazia fondiaria fu combattuto, fronteggiato e debellato dai poteri dell’amministrazione centrale dello Stato, sia sotto il regno dei Borboni e la dominazione spagnola, che sotto le precedenti monarchie, e si possono prendere le mosse fin da Federico di Svevia. La lotta fu a molte riprese appoggiata dai moti delle masse contadine ed urbane, e ben presto arbitri della situazione del regno furono gli intendenti e i governatori dei solidi e accentrati poteri di Palermo e di Napoli. I risultati della lotta si tradussero in una legislazione anticipata di molto rispetto a quella degli altri staterelli italiani, compreso l’arretratissimo Piemonte (4).

Insomma, come ribadivamo sulla nostra stampa più di recente, bisogna andare

alla metà del Settecento per veder già soppiantato il feudalesimo da una situazione obiettiva già chiaramente capitalistica. Che fosse ancora una economia arretrata e prevalentemente agricola è indiscusso, ma è interessante notare come si stessero instaurando rapporti avanzati anche se, è ovvio, vanno necessariamente riferiti all’epoca specifica in cui si sono sviluppati. (…) L’equazione del capitalismo (D-M-D’) e cioè l’investimento per il profitto si veniva a realizzare divenendo il fulcro dei nuovi rapporti di produzione. Alle tre categorie economiche del capitalismo agrario (rendita, profitto, salario) corrispondono le tre figure giuridiche sociali (classi) dell’agricoltura meridionale dell’epoca: quella del nobile (proprietario), del neo-borghese (affittuario-imprenditore), del bracciante o proletario agricolo (salariato) (5).

Al momento dell’Unità, infatti, lo squilibrio fra Sud e Nord è minimo, e anzi, in alcuni settori strategici - come quello cantieristico navale - il regno dei Borboni risulta più sviluppato. Sia detto per inciso che, sfatato il mito di un Sud semi-feudale rispetto a un Nord capitalistico, crolla inevitabilmente anche la lettura gramsciana della questione meridionale, secondo la quale la classe operaia del Nord avrebbe dovuto formare un “blocco storico” con le forze progressive del Sud per sconfiggere i latifondisti. Dare insomma vita a un’alleanza tra borghesi illuminati, contadini e proletari, che sapesse finalmente innescare la mai effettuata rivoluzione democratico-borghese nel Meridione. L’opportunismo del PCI togliattiano troverà dunque la porta spalancata.

Il Sacco del Sud e "la guerra cafona"

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Immediatamente dopo l’Unità, la politica fiscale consentì un vero e proprio drenaggio di capitali dal Sud al Nord. E così

la pressione fiscale, già notevole al tempo dei Borboni, sotto i Piemontesi venne ad accentuarsi in maniera sperequata rispetto al Nord. Mentre prima dell’Unità si pagavano 50 milioni di imposta fondiaria, se ne pagheranno 70 nel 1866 contro i 52 del Centro e del Nord uniti (6).

Molto significative le cifre dei lavori ferroviari:

dal 1863 al 1898, si spesero 1.400.000.000 nell’Italia centro-settentrionale; solo 750 milioni in quella meridionale e insulare (7).

Inoltre, dopo il drastico ridimensionamento del polo siderurgico di Pietrarsa (quando vennero licenziati 440 operai su 800 scoppiarono violenti tumulti: i bersaglieri caricarono i dimostranti e fecero quattro morti), la strada dei licenziamenti al Sud era spianata:

1000 operai armieri all’arsenale di Napoli e Torre del Greco; altre centinaia nei cantieri di Castellamare e nella società concessionaria delle ferrovie. Lo stabilimento di Salvatore Sava, che aveva l’appalto esclusivo per la fornitura di divise alle truppe borboniche, fallì. (…) L’ex capitale era piombata in piena crisi economica (8).

Anche il sistema bancario meridionale subì un attacco poderoso. Il governo unitario

consentì alla Banca nazionale del Regno d’Italia, che aveva sede in Piemonte, di aprire filiali nel Sud, mentre negò al Banco di Napoli di allargarsi al Nord. (…) E la Banca nazionale studiò una speculazione in grande: vendeva al Sud titoli di credito pubblici, ricevendo in cambio moneta del Banco di Napoli che poi convertiva in oro agli sportelli dell’Istituto di credito meridionale. In questo modo cominciarono a diminuire le riserve auree del Banco: da 78 milioni nel 1863 a 41 milioni nel 1866. (…) Nel 1898 si mise fine alla pluralità delle banche che potevano emettere moneta. Nacque la Banca d’Italia: al Mezzogiorno ne furono concesse 20.000 azioni contro le 280.000 del Centro Nord (9).

Il sacco del Banco di Napoli era compiuto.

Nel disegno complessivo della borghesia unitaria, dunque, al Sud sarebbero aspettati i seguenti compiti: fornire capitali al Nord, fornire mano d’opera a basso prezzo, fornire prodotti agricoli contro i manufatti del settentrione. Un disegno di marca coloniale.

La conquista del Sud da parte del regno sabaudo fu un processo di annessione anche sul piano militare. Altro che guerra di indipendenza. Se è vero che l’esercito borbonico si sfaldò molto velocemente di fronte all’avanzata delle camicie rosse - supportate tanto dai borghesi quanto dai baroni, timorosi che la rivolta contadina potesse trasformarsi in una rivoluzione sociale - subito dopo scoppiò “la guerra cafona”, quella dei contadini, dei pastori, degli ex garibaldini e soldati sbandati, alla testa dei quali vi erano spesso ex ufficiali borbonici.

E così, nel mondo preindustriale delle campagne meridionali, lotta di classe e insorgenze reazionarie si mescolarono, dando vita al cosiddetto fenomeno del brigantaggio contro cui l’esercito piemontese scatenò una ferocissima repressione. I numeri sono da guerra civile: secondo i dati dell’ufficio storico dell’esercito, tra il 1861 e il 1863 ci furono 5212 uccisi, 5044 arrestati e 3597 consegnati (10). Solo nei primi venti mesi di guerra i fucilati furono 1038 e i briganti uccisi in combattimento 2413, mentre fra i militari i morti erano stati 412 (11).

Colonialismo all’italiana

Tirando le somme, risulta evidente che, al di là degli obiettivi che si poneva l’ala più democratica del Risorgimento - ma si pensi innanzitutto al comunista idealista Carlo Pisacane, che alla vigilia della spedizione a Sapri disse:

per me, non farei il minimo sacrificio per cangiare un ministro, per ottenere una costituzione, nemmeno per cacciare gli austriaci dalla Lombardia e accrescere il regno sardo; per dominio di casa Savoia o dominio di casa d’Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all’Italia che la tirannide di Francesco II (12).

… le “guerre di indipendenza” per l’unità d’Italia sono state in realtà guerre di annessione attraverso cui il regno sabaudo ha conquistato l’intera penisola.

E tale conquista ha avuto poi numerosi caratteri che sono tipici del colonialismo: allargamento del mercato nazionale a disposizione delle industrie del Nord, rapina delle risorse finanziarie, trasformazione del paese assoggettato in un bacino di manodopera a basso costo, feroce repressione militare della resistenza autoctona, a cui si può aggiungere il tentativo lombrosiano di dimostrare scientificamente l’inferiorità razziale dei popoli conquistati.

Vi è però un elemento molto importante del processo unitario italiano che non è assimilabile al colonialismo in senso stretto, e che non permette dunque di mettere sullo stesso piano l’Italia meridionale con la Corsica, i Baschi o l’Irlanda del Nord, tanto per rimanere in Europa. Questo elemento è la natura profondamente gattopardesca, parassitaria e opportunista della borghesia meridionale; una borghesia che non ha esitato un istante a scaricare i Borbone e il proprio stato nazionale, pur di riuscire riciclarsi e a reinserirsi al meglio nel nuovo quadro unitario. Una borghesia che, lungi da affiancare “la guerra cafona”, ha reso tutti i servigi possibili al nuovo stato di marca sabauda, diventando immediatamente cinghia di trasmissione del nuovo ordine in ogni angolo del Sud.

E a questa borghesia legale si è da subito affiancata una borghesia criminale (i picciotti che favorirono l’avanzata di Garibaldi, i camorristi coinvolti a Napoli nel mantenimento dell’ordine pubblico, ecc.) (13) che ha giocato - e ancora gioca - ruoli indispensabili per la tenuta del sistema nel Meridione. Un ruolo, in una terra condannata alla disoccupazione e alla povertà diffusa, è quello di ammortizzatore sociale: lo stato delega implicitamente alle mafie la distribuzione di redditi che tamponano situazioni sociali al limite del collasso. Un altro ruolo è quello di gendarme: è lungo l’elenco di braccianti, operai, sindacalisti, giornalisti e militanti di base uccisi dalle mafie nel corso di tutto il Novecento - soprattutto in Sicilia - perché in vario modo hanno cercato di mettere i bastoni fra le ruote al sistema mafioso che nel Sud è tutt’uno con lo stato borghese.

Potremmo aggiungere anche il ruolo di “sostituto dello stato”. Nel Sud il potere statale è sempre stato percepito come qualcosa di estraneo e distante, ma per mantenere a lungo un ordine classista c’è bisogno di un potere che abbia autorità, autorevolezza e radicamento territoriale. Qualcuno che “tenga le fila”, che detti legge. Ancora oggi, in tanti paesi del Sud, lo fa più il mafioso che il carabiniere. Ma l’obiettivo è comune: lo status quo del regime capitalista.

Lupo non mangia lupo

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Lico den troghi lico, che in grecanico calabrese - lingua ormai parlata solo in un paio di centri semi-abbandonati nell’estremo Sud Italia - significa appunto lupo non mangia lupo. Evidentemente la saggezza popolare ha una visione più lucida della realtà rispetto a chi, ancora oggi, per risolvere gli incancreniti problemi del Meridione non sa proporre di meglio che il separatismo, a cui si aggiunge l’aggettivo “rivoluzionario” per renderlo forse attraente agli occhi dei più arrabbiati. Il separatismo rivoluzionario è infatti una sorta di leghismo alla rovescia con velleità socialistoidi, che di rivoluzionario ha davvero poco. Anzi, nulla.

Il fondatore del separatismo rivoluzionario è Nicola Zitara, teorico apprezzato da tutta l’area “duosiciliana” che va dai nostalgici dei Borbone al più moderno Partito del Sud. Zitara espose la sua analisi meridionalista già nella raccolta di articoli intitolata Il proletariato esterno del 1972, in cui scrive:

le masse lavoratrici del Nord e del Sud possono, sì, avere un traguardo finale comune, ma debbono percorrere strade diverse ed autonome, perché autonomi e spesso contrastanti sono gli interessi rispettivi (14).

Da cui si potrebbe coniare un nuovo motto: proletari di tutti i paesi, dividetevi! E i padroni ringraziano.

Secondo Zitara, infatti, le lotte dei popoli ex-coloniali

suggeriscono che è spesso ragionevole, e qualche volta del tutto necessario, posporre la soluzione dei problemi sociali al problema nazionale e all’edificazione del capitale. In vista di tale risultato, le classi lavoratrici di questi paesi non hanno respinto l’alleanza con la borghesia più avanzata (15).

Manca solo la ciliegina sulla torta, che in questo caso è di mussoliniana memoria:

La contrapposizione tra ‘nazioni proletarie’ e ‘nazioni plutocratiche’ è un fatto politico evidente (16).

Peccato che nelle cosiddette “nazioni proletarie” al comando vi sia sempre la borghesia, e che nelle cosiddette “nazioni plutocratiche” a tirare la carretta ci sia sempre la classe operaia…

Negli ultimi scritti - cambiato il vento - i distorti riferimenti alla lotta di classe cedono definitivamente il campo al nazionalismo meridionale, che chiama il popolo del Sud alla lotta per la

Megale Hellas, lo Stato della Grande Grecia. Uno stato autarchico in funzione della piena occupazione (17).

Padania contro Megale Hellas. Celti contro Greci. Il regionalismo del Nord e del Sud, contro l'internazionalismo proletario.

Tornando quindi alla saggezza popolare con cui abbiamo aperto il paragrafo, l’analisi del processo annessionistico attraverso cui il regno sabaudo ha conquistato la penisola italiana dimostra in modo esemplare come le borghesie delle diverse regioni d’Italia abbiano evitato fin da subito di farsi la guerra fra loro e si siano presto costituite in un'unica classe dominante nazionale, per dare così vita a un regime capitalistico unitario che sapesse spartirsi lo sfruttamento della classe lavoratrice italiana, del Nord e del Sud - nel modo più conveniente.

È tempo allora che gli sfruttati rialzino la testa, e per farlo c’è solo una strada: l’unità di classe. L’unione di tutti i proletari, del Sud e del Nord, italiani e immigrati, precari e disoccupati, contro il regime della borghesia, nella sua veste legale e criminale.

Giacomo Scalfari

(1) Dati tratti dal sito centrostudifolder.it .

(2) Giuliano Rosciarelli, da terranews.it .

(3) Secondo Richard Lynn, docente emerito di psicologia all’università dell’Ulster, i meridionali sarebbero meno intelligenti dei settentrionali a causa della mescolanza genetica con popolazioni del Medio Oriente e del nord Africa, oltre al fatto che nel sud Italia la qualità del cibo è più scadente, si studia meno, ci si prende meno cura dei figli. Un genetista del III Reich non avrebbe saputo parlare meglio.

(4) Amadeo Bordiga, da Il preteso feudalismo nell’Italia Meridionale, Prometeo n. 12, prima serie, gennaio-marzo 1949.

(5) Franco Migliaccio, da Questione meridionale e industrializzazione del Mezzogiorno, Prometeo n. 26/27, terza serie, pp. 17-18, settembre 1976.

(6) Franco Migliaccio, op. cit., p. 22.

(7) Gigi di Fiore, Controstoria dell’Unità d’Italia, Rizzoli 2008, p. 187.

(8) Gigi di Fiore, ibidem.

(9) Gigi di Fiore, op. cit., pp.188-189.

(10) Gigi di Fiore, op. cit., p. 20.

(11) Gigi di Fiore, op. cit., p. 244.

(12) Stralcio di una lettera datata 24 giugno 1857 e riportata in: Amadeo Bordiga, Il rancido problema del Sud italiano, Prometeo n.1, seconda serie, novembre 1950.

(13) Gigi di Fiore, op. cit., pp. 123-131.

(14) Nicola Zitara, da Il proletariato esterno, Jaca Book 1972, p. 34.

(15) Nicola Zitara, op. cit., p. 35.

(16) Nicola Zitara, op. cit., p. 73.

(17) Nicola Zitara, Negare la negazione. Introduzione al separatismo rivoluzionario, Città del Sole 2001, p. 61.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.

Prometeo #3

Maggio 2010 - Serie VII

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  • Nazionalismo borghese e internazionalismo proletario
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