La Fiat e Marchionne: questo è il capitalismo

... e, al suo seguito, le riforme dei suoi “innovatori”

Il capitale gestito dalla famiglia Agnelli & C., nelle attività Fiat soffre l’investimento in un settore produttivo che si sta restringendo e si fa sempre più rischioso in una feroce concorrenza tra grandi gruppi industriali internazionali, dopo aver complessivamente raggiunta una capacità produttiva che il mercato mondiale non riesce ad assorbire. (Sarebbe il caso di dire: per fortuna, nella speranza di una più lunga sopravvivenza della specie umana senza il suo individualistico inscatolamento in abitacoli metallici o plastici…)

Concluso l’affare di acquisto della Chrysler (puntando al suo totale controllo e ad una fusione con la Fiat, che consentirebbe una quotazione a Wall Street una volta concluse le manovre per far salire la presenza Fiat al 51% di Crysler), Marchionne prosegue con i suoi “affondi” saggiando le reazioni (inesistenti, naturalmente) del governo, ma soprattutto quelle di sindacati e maestranze sottoposte a docce scozzesi di alterne minacce (tante) e promesse (poche e sempre condizionate da ricatti da ultima spiaggia). Quel che si evidenzia è la probabile intenzione degli Agnelli - se nel settore industriale le cose peggioreranno - di intraprendere, soprattutto attraverso la finanziaria Exor, più lucrosi business in altri settori di maggiore espansione che non quello delle auto private (con tutto il suo corollario di disastri riguardanti sia l’ambiente sia gli uomini). Al seguito delle bandiere, e delle speranze, innalzate dalla finanza creativa.

Intanto, finché la barca va e in vista di far ingoiare il rospo che si sta cucinando a fuoco lento, Marchionne si è fatto ben capire anche da ciechi e sordi: chi vuole sopravvivere col proprio magro salario deve accettare il disumano aumento dei ritmi di lavoro e dei turni sull’altare della massima produttività, in fabbriche trasformate in campi di concentramento, con i sindacati a far da kapò fingendosi difensori (o aspiranti tali) degli interessi operai.

Non cambia né cambierebbe, in ogni caso, la situazione di schiavizzazione degli operai sotto l’oppressivo sfruttamento del capitale, ma è bene rimarcare ancora una volta come la paga di Marchionne (Corsera, 9 gennaio) si aggiri attorno ai 38,8 milioni di euro l’anno, fra stipendi, stock-opzions e titoli gratuiti. Qualcosa come 1.037 volte il salario medio di un suo operaio, e pagando quasi sul tutto solo il 10% di tasse grazie alla residenza fiscale nel cantone svizzero di Zugo. I riformatori del capitalismo si scandalizzano di fronte ad una simile “etica”, e mentre impongono ovunque restrizioni salariali e condizioni di lavoro pari a quelle del lontano Ottocento per abbassare i costi del lavoro, dati FMI e Ocse ci informano che alla Fiat il costo del lavoro in realtà incide solo per il 7-8%; inoltre la quota dei salari sul Pil in Italia si è sempre più ridotta a vantaggio del capitale. Negli ultimi trent’anni i “redditi” da lavoro hanno perso l’11,8%.

Noi non siamo - come i vari sindacati e partiti di “sinistra” - fra quelli che guardano (con malcelata ammirazione) all’efficienza tedesca, la quale garantirebbe “ragionevoli profitti, alti salari e orari europei aumentando il valore prodotto per ora lavorata”. Né additiamo come “esempio” positivo la Volkswagen, dove - si dice - il lavoro costerebbe “il 30-40% in più con una settimana lavorativa di 32-35 ore”. Sia chiaro: denunciamo noi per primi le criminose redditività di cui godono gli azionisti Fiat (un bel 32,9% sul capitale rispetto a un 15,5% della Volkswagen…) e questo nonostante siano alte le perdite di mercato in confronto ai concorrenti. Ma con ciò non andiamo fra gli operai sollecitando la Fiat perché lanci sul mercato “nuovi modelli competitivi per qualità e prezzo”, investendo più alte quote di capitale e distribuendo dividendi in meno agli azionisti! Questi sono i desideri dei radical-riformatori del sistema, i quali fanno sognare ai proletari un capitalismo “più giusto e onesto”, dove un “sano sindacalismo” agiti l’illusoria pratica di rivendicazioni economicistiche rivolte ad ottenere un fantomatico "benessere" per i salariati, attraverso un'equa distribuzione dei profitti e un rilancio del mercato!

In questa ingannevole prospettiva è possibile assistere a invocazioni - proprio dall’estrema sinistra extraparlamentare - per un “ritorno”, in salsa democraticista e antifascista, ad una situazione nazionale in cui “la società italiana sia pulsante e la democrazia vivente con la partecipazione diretta dei cittadini" (ma quando mai?); a vagheggiamenti per una "opposizione politica futura, intransigente e a tutto campo per salvare lo Stato di diritto (della borghesia - aggiungiamo noi) e per riaffermare i principi di eguaglianza sociale, libertà politica e fratellanza umana…"…. Manca solo la benedizione papale e poi il gioco è fatto! (Tutto è documentabile in scritti, relazioni e volantini diffusi da gruppi e gruppuscoli, sindacati di base, circoli sociali, partiti nati dalla frantumazione di Rifondazione e che si autodefiniscono “comunisti” e “anticapitalisti”. Fra gli altri: Rete 28 aprile; Slai-Cobas, Centro Sociale autogestito Vittoria - Milano; Partito comunista dei lavoratori.) Dunque, un sindacato in cui la burocrazia, fatta uscire dalla finestra, rientrerebbe con poteri di codecisione - come in Germania - in cambio di responsabili rinunce da parte dei lavoratori e con qualche “proporzionale sacrificio” da parte dei proprietari-imprenditori, e da poter mostrare come “trofeo” di vittoria.

Ebbene, siamo davanti ad un punto politicamente cruciale per una reale ripresa del movimento proletario per il comunismo: occorre infondere e far crescere nelle lotte economiche - pur necessarie per difendersi di fronte agli attacchi del capitale - la necessità della lotta politica di classe, e per questo occorre un’organizzazione, il partito, con la sua presenza attiva e la sua guida. Ma un partito che prenda le distanze e denunci tutta una serie di pericolose illusioni che vengono diffuse tra i proletari. A cominciare dagli inganni che si nascondono dietro chi afferma che il movimento è ciò che conta, poiché il resto verrà dopo. Per ora - si dice - basterebbe denunciare e opporsi alla «arretratezza e voracità dei gruppi capitalistici italiani», colpevoli di «preferire il profitto a breve termine e la speculazione finanziaria anziché gli investimenti per affrontare le sfide imposte dai nuovi competitori mondiali, la Cina su tutti»... Il capitalismo andrebbe perciò «sfidato» con l’obiettivo di un «ribaltamento del percorso» da lui adottato al seguito di una «politica neoliberista che penalizza i lavoratori…». (Tutto documentabile, come sopra.)

L’importante sarebbe - per questi pseudo rivoluzionari … democratici - il «rilancio del conflitto». Punto e a capo, e il ricordo va ancora al famoso motto “il movimento è tutto”… Qua e là poi si annuncia qualche spezzone di un programma che più controrivoluzionario di così - viste tutte le esperienze passate - non potrebbe essere: la “maggioranza della società” (borghese…) dovrebbe tenere in mano “le leve dell’economia e della scienza sotto il controllo pubblico del mondo del lavoro” (sempre salariato, s’intende); un programma che come toccasana di tutti i mali riduce il suo conclamato anticapitalismo all’instaurazione - democratica - di una “economia pianificata” e così (magicamente?) “liberata dal dominio del profitto”. Le “nazionalizzazioni” avranno comunque un “indenizzo per i piccoli risparmiatori”; lo stesso per assicurazioni e banche. Tutto il potere economico nelle mani dello Stato (“un altro Stato e un altro governo”, di più non è dato sapere…) che si mobiliterà per la massima efficienza del sistema (capitale, merce, salario e “giusto profitto socialista”!): “eliminazione di irrazionalità e sprechi, igiene morale e liberazione dallo strozzinaggio per un’ampia parte della società”. Non solo in Italia, ma - ecco l’internazionalismo! - per tutta la “economia europea democraticamente pianificata”… E questa sarebbe la “coscienza di classe, per il comunismo” da portare fra i proletari!

DC