Crisi libica: l'imperialismo appronta nuove bombe “democratiche”

La crisi mondiale del capitalismo sta attraversando le economie periferiche del Medio oriente e quelle strategiche legate alla produzione di gas e petrolio, mettendo in lotta la varie fazioni tribali, ponendo in agitazione immense masse di diseredati e scatenando la concorrenza tra gli schieramenti imperialistici internazionali. Francia, Inghilterra e Stati Uniti hanno già dimostrato di essere in grado d’intervenire in qualsiasi luogo della Libia e in qualsiasi momento, mentre il piccolo imperialismo italiano si dichiara disposto a concedere le forze aeree e navali necessarie.

È ancora presto per avere una chiara e definitiva visione sugli avvenimenti libici perché le operazioni belliche sono solo all’inizio. La situazione è in movimento e di definitivo non c’è ancora assolutamente nulla, se non la certezza operativa di un’escalation militare dell’imperialismo occidentale camuffato da operazione umanitaria. Il colonnello potrebbe avere le ore contate, ma la sua strenua difesa, caratterizzata dalla necessità di riconquista dei territori perduti, quelli petroliferi innanzitutto, continua nonostante la comunità capitalistica internazionale abbia messo in campo tutto l’armamento giuridico (tribunale penale internazionale) ed economico: embargo, sanzioni economiche e congelamento dei fondi all’estero e, buon ultima la risoluzione Onu N° 1973 che impone la “no fly zone” su tutta la Libia, premessa per qualsiasi intervento bellico, sia aereo che marittimo, o a tutto campo, a seconda delle necessità tattiche del Centro operativo militare.

Ciò non di meno tre osservazioni si possono essere fatte da subito.

  1. La prima è che la rivolta di Bengasi e di altre città della Cirenaica, come di alcune località a sud di Tripoli, ha rotto l’equilibrio forzato tra Gheddafi, la sua tribù d’origine, e le altre tribù libiche che per quarant’anni sono state costrette a subire la dittatura politica ed economica del colonnello. Alla base di questo le mai sopite istanze di autonomia delle borghesie tribali della Cirenaica e del Fezzan e, non da ultima, la ghiotta occasione di gestire autonomamente la rendita petrolifera che, sino a poche settimane fa, era appannaggio del dittatore “verde”. Non a caso i primi moti di protesta si sono avuti nell’est del paese, dove è sorto un governo provvisorio, che ha il compito di controllare i giacimenti petroliferi e di garantirne l’uso e la fruibilità per i clienti occidentali.
    Il precedente equilibrio era basato sulla forza. Gheddafi e i suoi figli disponevano l’assoluto controllo dell’esercito, della polizia e dell’aviazione, nonché il controllo - possesso dei pozzi petroliferi attraverso la gestione privatistica delle imprese nazionali del gas e del petrolio, dando ai capi tribù alleati o sottomessi, le briciole della suddetta rendita a seconda della loro valenza politica e della loro eventuale pericolosità in termini di (non) allineamento nei confronti della gestione del potere del “rais” medesimo. Rottosi lo schema, le maggiori tribù come i Warfalla, che controllano un vasto territorio a sud di Tripoli, si sono mobilitate contro. Già nel 1993, in pieno embargo internazionale contro il governo di Tripoli dopo l’attentato di Lockerbie, i Warfalla hanno tentato un colpo di stato che Gheddafi ha duramente represso con una decina di impiccagioni sulla pubblica piazza e più di duemila arresti. Gli Zuwayya, che vivono nella zona centrale fra Tripoli e Bengasi, i Misurata e gli Abu Llail, che controllano l’area degli oleodotti nella parte est della Cirenaica, hanno preso l’iniziativa di cavalcare la tigre della protesta popolare per tentare di chiudere una partita lunga quarant’anni. Tutte le maggiori tribù posseggono piccoli eserciti, hanno un discreto arsenale di armi leggere e, nella fase iniziale della rivolta, hanno assaltato caserme e depositi di armi. Allo stato attuale delle cose la crisi libica appare per essere una guerra civile tra tribù, in altre parole tra fazioni borghesi, per il dominio politico ed economico del paese, secondo esportatore di petrolio di tutto il continente africano, dietro la sola alla Nigeria, e dodicesimo al mondo.
  2. La seconda osservazione riguarda la possibile frattura degli attuali equilibri sul fronte energetico medio orientale, con tutte le conseguenze del caso. Non per niente gli Usa, con il corollario di Francia e Inghilterra, hanno proposto la risoluzione Onu affinché la vicenda libica non fosse lasciata a se stessa, con tutti i pericoli del caso. Le preoccupazioni imperialistiche non riguardano solo i futuri destini del petrolio e del gas libici, importanti ma non determinanti negli equilibri energetici internazionali, quanto la possibile estensione della crisi nella penisola arabica. Il vento delle rivolte soffia anche nello Yemen, in Oman, nel Bahrein che contornano da sud-ovest a sud-est l’Arabia Saudita, ovvero il primo produttore al mondo di petrolio e primo fornitore degli Usa. Se anche Riad entrasse nell’occhio del ciclone assisteremmo a ben altre prese di posizione, a ben altre manovre militari, non più impostate sulla deterrenza psicologica, sulla pressione politica o sulla creazione di una “no fly zone” che, per il momento, prevede raid aerei di disturbo contro le milizie di Gheddafi per convincerlo a più miti consigli. Con le necessità di approvvigionamento delle fonti energetiche medio orientali non si scherza. L’imperialismo USA ha già prodotto due guerre non ancora concluse, sta combattendo strenuamente sulle vie di trasporto e di commercializzazione dell’oro nero dal Centro-Asia alle coste del Mediterraneo, e una simile situazione di criticità alle porte dell’Arabia sta già mettendo in fibrillazione i suoi arsenali bellici. Per ora, gli Stati Uniti stanno a vigilare poi sì vedrà… Anche la Cina, già presente in Niger, Nigeria, Sudan e Ciad, non starebbe certo a guardare. Il tutto alla faccia di centinaia di migliaia di profughi - vittime della crisi economica, delle beghe borghesi interne e dei giochi imperialistici internazionali - vittime sulle quali si cantano le solite piagnucolose litanie, ma finora, senza nulla di concreto sul piano del mero aiuto umanitario.
  3. La terza osservazione riguarda il ritardo e la non omogeneità nel varo della risoluzione 1973. Accanto al voto positivo di 10 membri su 15 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, si registrano le cinque astensioni di Cina, Russia, India, Brasile e Germania. Non a caso. In gioco non ci sono soltanto il milione e mezzo di barili di petrolio al giorno erogati dalla Libia, il ruolo di Francia e Italia nel bacino del Mediterraneo, le ambizioni dell’imperialismo anglo sassone di giocare un ruolo di controllo e dominio, ma l’intera area medio orientale legata alla questione energetica. In Bahrein, piccolo paese ma ricchissimo di petrolio, la guerra civile è tra i sunniti (30% della popolazione che sono al potere a godono della rendita petrolifera) e sciiti (70%) che della suddetta rendita non vedono un centesimo. Sunniti e sciiti che in realtà andrebbero chiamati con il loro vero nome: una borghesia di confessione sunnita e una di confessione sciita che si scontrano per il potere politico, condizione primaria di quello economico basato sulla solita rendita petrolifera. Dietro gli schieramenti borghesi i due imperialismi d’area, l’Iran sciita e l’Arabia saudita del Wahabbismo sunnita che, nell’assordante silenzio internazionale, è intervenuta militarmente inscenando una vera e propria invasione dell’Emirato, pur di sostenere e di garantirsi nel Bahrein un potere politico allineato e affidabile in chiave anti Iran. Anche in Qatar si ripropone lo stesso schema, solo che gli interpreti imperialistici sono la Turchia e l’Iran. A contorno ci sono altre situazioni di tensione nello Yemen dove il potere di Saleh non ha esitato a sparare sulla folla facendo decine di morti, e continuano anche le tensioni in Oman. Nella stessa Arabia Saudita le spinte anti Saud sono forti e insistenti. In questo scenario è normale che i fronti dell’imperialismo si muovano secondo le rispettive linee di difesa dei propri interessi immediati e futuri. Usa, Inghilterra e Francia da una parte. Russia, Cina, India, Germania e Brasile dall’altra, in mezzo lo sfruttamento energetico che copre il 65% del fabbisogno mondiale.
2011-03-21-libya-02.jpg

Va in ogni modo sottolineato come la questione libica sia una sorta di problema di seconda fascia, anche se, come sembra, nella rivolta di Bengasi ci sia lo zampino dei sevizi segreti francesi in collaborazione con elementi militari e politici precedentemente legati allo stesso Gheddafi e poi contro di lui per la leadership politica. Il che spiegherebbe la tempestività con la quale Sarkozy ha riconosciuto la legittimità del governo degli insorti, la fretta di iniziare l’azione militare contro il regime del colonnello e i dissidi con Italia e Usa per il comando Nato nelle operazioni di guerra. Dietro il tutto, come è ovvio, il petrolio libico e il tentativo dell’imperialismo francese di ritornare ad essere egemone nel Mediterraneo a scapito dell’imperialismo italiano che in Libia aveva messo due piedi, ben piantati da decenni e rafforzati dagli ultimi accordi tra lo stesso Gheddafi e Berlusconi. Ma per l’imperialismo americano, e non solo, la maggiore preoccupazione è Riad, la sua capacità di resistenza, il suo petrolio e gli equilibri energetici mondiali. Il progetto di Washington è quello di concedere alla Nato, pur sempre sotto la sua supervisione, al fronte europeo, con Francia, Inghilterra e Italia in prima linea, il compito di cogestire la “tenuta a bada” di Gheddafi, mentre le sue preoccupate attenzioni le riserva per l’eventuale fronte arabico, qualora la situazione dovesse precipitare verso oriente.

Per le masse lavoratrici libiche sono nulle le possibilità di emancipazione se continueranno ad essere fagocitate all’interno degli schemi tribali, se faranno proprie le strumentali richieste di libertà e democrazia avanzate dalle opposizioni borghesi contro il tiranno. Libertà e democrazia che al massimo saranno i nuovi migliori involucri politici e ideologici per continuare quel processo di sudditanza e sfruttamento che c’era prima, senza mai mettere in discussione il motore primo di questa crisi, i regolamenti di conti all’interno delle faide tribal-borghesi che ne sono scaturiti, l’allarmato agitarsi del sempre più vorace imperialismo. In altre parole se non si mette in discussione quel sistema economico che va sotto il nome di capitalismo la giostra degli interessi interni ed internazionali continua a girare con il suo macabro fardello di crisi, guerre civili e arroganze imperialistiche. Lo stesso vale per gli altri fermenti di tutta la zona. Fermarsi alla “conquista” della democrazia sarebbe la tomba di ogni ulteriore sviluppo delle lotte in senso anti capitalistico, con la vittoria di quella o quell’altro schieramento borghese al traino di uno dei fronti dell’imperialismo internazionale. O irrompe sulla scena medio orientale il segnale della ripresa della lotta di classe, la presenza di avanguardie politiche rivoluzionarie, oppure tutto è destinato a tornare come prima. O quasi, in un bagno di sangue come dal solito copione imperialistico.

FD, 2011-03-24

Comments

Vorrei sapere la soluzione a tutto qs caos, l'alternativa al sistema capitalistico e da dove si parte per affrontarlo...se esiste.

Grazie

Ciao Ilaria, per noi l'alternativa è la rivoluzione proletaria, cioè la conquista del potere politico da parte di chi da questo sistema non ha nulla da guadagnare... ossia la stragrande maggioranza delle persone, in ogni angolo del pianeta!

Non siamo dei pazzi visionari, sappiamo perfettamente che questa soluzione non è certo dietro l'angolo, il cammino è lungo, difficile, incerto. Ma è l'unica strada, l'unico modo per riuscire a disfarsi una volta per tutte di un sistema mondiale fondato sullo sfruttamento e sulla guerra.

Aiutaci anche tu : )

Cosa fare nell'immediato?

Non pensate che l'eventuale nuovo involucro politico che scaturirebbe dalla vittoria delle fazioni borghesi attualmente in rivolta possa lasciare più spazio allo sviluppo di una coscienza di classe proletaria tra i lavoratori libici? Che l'attuale fame di libertà borghesi possa far venire voglia ai Libici di ulteriori progressi sociali?

Secondo me, se l'attuale rivolta (di carattere borghese, sono d'accordo) avrà successo, potrebbe essere un primo passettino per il proletariato libico per poter intravedere la possibilità di autodeterminarsi. Solo dopo aver dato il loro Paese in mano ai nuovi padroni che stanno cavalcando il malcontento, e dopo che questi nuovi padroni tradiranno le aspettative dei rivoltosi, questi ultimi potranno prendere coscienza della necessità di ulteriori lotte e passi in avanti.

E' un ragionamento sbagliato, questo?

No, il ragionamento è giusto. Il motto "tanto peggio, tanto meglio" non è mai vero.

Dai "nuovi padroni" della Libia, ovviamente, non mi aspetto nulla di buono, ma la democrazia borghese dà senz'altro più spazio alle mobilitazioni proletarie di un regime dittatoriale. Bisogna poi vedere se lo sbocco sarà una democrazia borghese... in Egitto al posto di Mubarak ora c'è l'esercito che, tanto per cominciare, ha tolto il diritto di sciopero e di manifestazione.

In ogni caso i "vuoti di potere" nei regimi borghesi sono sempre una buona occasione per rompere l'apatia e l'immobilismo in cui le masse proletarie sono solitamente relegate. Uscire nelle strade, discutere, organizzarsi... il protagonismo di classe non è condizione sufficiente, me senz'altro necessaria per una ripresa della lotta anticapitalista.

L'altra condizione è la presenza e il radicamento di un'avanguardia comunista. Che è tutta da costruire, in Libia come qui.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.