La maschera umanitaria dell’imperialismo italiano

L’interesse economico delle maggiori potenze occidentali (quelle orientali stanno sul “chi vive”), ammantandosi di “sentimenti umanitari”, non poteva certo restare insensibile alle contese europee che si stavano sviluppando attorno alla Libia e soprattutto al suo petrolio. In corso v’era e ancora si sta giocando una partita nella quale la Francia (in particolar modo, seguita da una Inghilterra alla ricerca di un perduto… carisma imperiale) ha guardato ad un preoccupante sviluppo degli “affari” fra la borghesia facente capo a Gheddafi e quella italiana. Il presidente francese Sarkozy non ha mai visto di buon occhio lo stringersi di personali intrallazzi fra il rais locale e il Silvio italico, e da tempo valutava le possibilità di sostituire alle influenze e soprattutto ai “contratti” delle imprese italiane le proprie relazioni privilegiate con le borghesie tribali ostili a Gheddafi.

Gli “affari” da tempo in corso vedevano impegnate in primo piano banche e imprese italiane di “prestigio”, tutti azionisti della banca Ubae, la “banca del petrolio” di Libia: Unicredit, Intesa-Sanpaolo, Monte dei Paschi di Siena, ENI, Telecom, eccetera. A loro volta i libici hanno investito in Italia più di 3mila miliardi e mezzo di euro, oltre a rifornire il 23% del petrolio e il 13% del gas consumato nel Bel Paese. In cambio, la borghesia italiana è stata, fra l’altro, molto prodiga nella fornitura di armamenti: le nostre esportazioni figuravano al 1° posto in Europa sfiorando i 280 milioni di euro contro i 210 di Francia e gli 84 della Germania.

Dopo l’inizio dell’”operazione umanitaria” contro Gheddafi e le tribù a lui fedeli, persino una deputata del Pdl, M. Rizzoli, ha scritto su Libero (22 marzo):

Le guerre non sono mai combattute per motivi umanitari o ideologici, ma sempre sotto la spinta delle motivazioni economiche, Marx insegna (già, proprio così! - n.d.r.), ed hanno sempre portato morte e distruzione spesso senza risolvere i reali problemi delle popolazioni che hanno subito il conflitto”.

Sta di fatto che l’imperialismo italiano si è trovato in una situazione per lui, abituato a politiche di “rimorchio”, piuttosto complicata. Dubbi e perplessità hanno attraversato le varie fazioni borghesi, con alternanze di opportunistici atteggiamenti, dal più ipocrita pacifismo di comodo al più aggressivo bellicismo. (Per quel che riguarda il “movimento pacifista mondiale”, dopo il divampare della guerra in Iraq non si sono avute più tracce.) L’interventismo ha poi prevalso in quasi tutti (nonostante un costo giornaliero di ben 8 milioni di euro!) al seguito dei caccia che hanno cominciato a bombardare Tripoli; perfino fra le alte sfere del Vaticano si è innalzato sugli altari l’intervento umanitario, a quanto sembra sancito dallo stesso Vangelo come “dovere per salvare chi è in difficoltà” (Bagnasco, presidente della CEI). L’incolumità delle locali popolazioni innanzi tutto, con bombardamenti aerei e decine e decine di vittime civili (“errori” ammessi dalla stessa Nato). Dopo di che, persino a “sinistra” si può trovare chi (Parlato, sul Manifesto - 20 marzo) rimpiange in fondo i trascorsi “ottimi rapporti con la Libia gheddafiana”...

Fra le pagine nascoste dell’italico imperialismo, pochi sanno che il governo di Roma è stato il finanziatore - dal 2004 - della costruzione di tre dei campi di concentramento nei quali il governo libico interna i disperati che provengono dai territori dell’Africa sub-sahariana, prima di rigettarli, vivi o morti, ai confini dei loro paesi d’origine. I tre campi sono quelli di Sebha, Gharyan e Cufra, il cui funzionamento sarebbe a carico italiano, nonostante Amnesty abbia considerato e denunciato come “inumano e degradante” il trattamento riservato ai detenuti, il cui tasso di mortalità supera il 22%. Va detto che il governo italiano si è dimostrato molto sensibile a tali denunce, inviando prontamente (nel 2006) mille sacchi di plastica neri per il trasporto dei cadaveri…

A proposito di armamenti, si tratta di una delle “carta da gioco” che alla fin fine - cioè per la tanto sospirata “ripresa economica” - sarà importante calare sul tappeto verde del grande casinò capitalista. Ed anche per l’imperialismo italiano (internazionalmente fin qui noto come “straccione” ma non per questo meno attivo di altri) il business delle forniture militari è allettante. La Finmeccanica si presenta come sesta azienda mondiale con 18 miliardi di euro di fatturato nel 2010 (579 milioni di utile dichiarato). Nella graduatoria la precedono la Lochkeed con 48 milioni di dollari di fatturato, Bae Systems, Boeing, Northrop Grumman e General Dynamics. Spesso anche fra loro collegate in joint-venture. Fra la clientela (quasi tutti “paesi emergenti”) spicca l’India (in concorrenza con gli armamenti cinesi…) e il Brasile, al quale l‘Italia ha da poco venduto 10 navi da pattugliamento e fregate. In più, la “difesa civile” brasiliana (cosa non si farebbe per la “pace sociale” e, ufficialmente, per la sicurezza dei mondiali di calcio 2014 e delle Olimpiadi 2016) guardava fino a ieri a Finmeccanica per telecamere, rilevatori, eccetera. Il caso Battisti avrà qualche peso negativo su quest’altro business? Ma gli affari meritano in ultima istanza “un atteggiamento di rispetto nei confronti delle istanze giuridiche del Brasile”. Così il ministro brasiliano Patriota riferisce il parere del collega italiano Frattini dopo un incontro a Roma. Rapporti commerciali bilaterali assicurati.

È comunque evidente, tornando ai paesi della traballante Unione Europea, che senza adeguati mezzi militari e quindi senza incrementare le proprie spese militari, né gli Stati Uniti d’Europa (costruzione politica per altro piena di fragilità e lacune) né l’euro potranno a lungo resistere, da “briganti” fra briganti, specie con le instabilità che aumentano nel vicino Nord Africa e nella maggior parte degli stati arabi. Senza dimenticare, inoltre, che gli Usa si trovano in qualche difficoltà “economica” nel continuare ad assolvere a tutto campo il ruolo di “gendarmi del mondo”.

DC

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.