Rifiutiamo ogni “sacrificio”!

È arrivata la manovra finanziaria del governo Monti: tagli e tasse sul corpo martoriato dei lavoratori - Tra le misure più inique e vigliacche c’è la riforma delle pensioni

Quella delle pensioni era una riforma strutturale che tutti, dall’Europa e dal mondo imprenditoriale, richiedevano al governo italiano. C’è voluta la presidenza Monti, quella del carnefice designato, a programmare e ad attuare quanto il vecchio governo di centro destra si era ben guardato dal fare per il rischio di perdere consensi, e quanto il centro sinistra non aveva il coraggio di perseguire per le stesse ragioni, con l’aggravante di essere, almeno nel gioco delle parti, all’opposizione. Il governo Monti ha tolto le castagne dal fuoco ad entrambi, ha usato la mannaia su tutto e in modo particolare sulle pensioni, quella stessa mannaia che il ministro Dini, esponente dell’allora governo di centro sinistra, aveva iniziato a brandire per la previdenza degli anni “novanta” e per quelli a venire.

La riforma delle pensioni si basa su due pilastri giustificativi falsi quanto strumentali. Il primo riguarda le cosiddette aspettative di vita, il secondo il presunto deficit dell’Inps.

Aspettative di vita. Il ritornello recita che la durata della vita è aumentata, quindi è normale che si allunghi anche la vita lavorativa. Se prima si poteva andare in pensione a 55 anni di età e 35 di contributi, oggi si può benissimo andare in pensione dopo 41/43 anni di contributi ad un’età non inferiore ai 65 anni di età per chi ci arriva, per gli altri pazienza.

Il ragionamento puzza soltanto a sentirlo. Intanto andrebbe messo in evidenza come, in una società moderna, tecnologicamente avanzata, dove si producono più merci a costi minori e in tempi più brevi, ci dovremmo trovare di fronte ad un risparmio di tempo sociale, utile alle attività ricreative, culturali e di generico soddisfacimento dei propri interessi, in modo particolare quando si arriva ad un’età matura, nella quale energie e stimoli naturalmente si affievoliscono. Invece si impone per legge che tutto questo non accada, che il lavoratore continui a lavorare demandando ad un domani infinito, il tempo del riposo e/o del soddisfacimento dei suoi interessi extra lavorativi.

Poi, si dovrebbe denunciare come una simile politica sia socialmente devastante. Mentre si costringono gli anziani a rimanere sul posto di lavoro, magari incentivando economicamente la loro permanenza, i giovani rimangono fuori dai meccanismi produttivi, o vi entrano a fatica attraverso i penalizzanti meandri della precarietà che, oltre ai noti guasti individuali e sociali, impedisce di fatto la costruzione di una carriera pensionistica. Pur seguendo il falso problema dell’adeguamento dell’età lavorativa alle aspettative di vita, non si capisce come mai si debba passare dal regime retributivo a quello contributivo che comporta una drastica diminuzione delle pensioni sino al venticinque-trenta per cento. Se precedentemente si andava in pensione con l’ottantadue per cento dell’ultimo stipendio, in futuro si andrà, se tutto va bene, con il sessanta e meno qualcosa per cento, grazie anche alla modificazione dei coefficienti di calcolo dei fattori che contribuiscono alla confezione delle buste paga pensionistiche. Che c’entra con il vivere più a lungo? Hanno calcolato che tre anni di lavoro devono coincidere con uno di pensione.

Detto in numeri, 42 anni di contributi (giusto per fare una media)non possono produrre più di 14 anni di pensione. Detto in termini sociali, per il capitalismo ha senso erogare pensioni se le aspettative di morte siano all’interno del quattordicesimo anno di percezione delle stesse altrimenti o si allunga ulteriormente la vita lavorativa o si allunga artificiosamente l’aspettativa di vita, o si “abbattono” i pensionati longevi che non tolgono il disturbo a tempo debito. Che cosa c’entra con le aspettative di vita sterilizzare le già magre pensioni di quel minimo di recupero dell’inflazione a partire da 1400 euro lordi? E’ solo per dare un contentino ai sindacati e per preservare in qualche modo il “bene supremo” della pace sociale, altrimenti la vigliacca manovra avrebbe colpito i percettori di pensioni a 960 euro, sempre lordi. Senza contare che l’inflazione non è né quella programmata, né quella ufficiale. Entrambe sono ben al di sotto di quella reale che è superiore di una decina di punti. L’inflazione è indirettamente proporzionale al reddito. Più i salari e gli stipendi sono bassi più, proporzionalmente, l’inflazione è alta e viceversa. Il paniere statistico di un pensionato prevede solo il calcolo degli aumenti dei generi di prima necessità come alimentari, vestiario, tariffe del gas, della luce, le accise sulla benzina, sui consumi in generale e poco altro. In questo caso l’inflazione sarebbe ben oltre il10% e non al 3,4 come recitano i dati Istat.

L’altra falsa giustificazione che viene messa alla base della riforma pensionistica è che il sistema non è in grado di soddisfare le richieste di pensionamento perché l’Istituto previdenziale sarebbe in passivo. Vergognosa bugia! L’Inps è sempre stato, ed è tuttora, in attivo. L’ente pensionistico va in passivo perché con i soldi dei lavoratori, versati per la loro previdenza, lo Stato paga l’assistenza, la cassa integrazione e le laute pensioni dei dirigenti a suon di milioni di euro. In più si sappia che l’Italia eroga per la previdenza meno di tutti gli altri paesi europei. E allora perché tante bugie e mistificazioni? Semplice, fare cassa. Meno lavoratori vanno in pensione meno pensioni vengono erogate, con grande soddisfazione dello Stato.

Questa crisi sta mettendo in rilievo come i rapporti di produzione e di distribuzione della ricchezza sociale siano in drammatica sofferenza. L’economia reale è in recessione, quella virtuale legata alla speculazione brucia migliaia di miliardi di capitale fittizio ogni anno. In aggiunta, il capitale finanziario, fuggito a suo tempo dalla produzione per asfissia da profitti, rimane parcheggiato nell’area speculativa, sottraendosi volentieri ai rischi di una sua difficile valorizzazione nella produzione, deprimendo ulteriormente l’intero sistema capitalistico. Come ne escono lor signori? Tentando di rimettere in moto la macchina dello sfruttamento più selvaggio e crudele. Nel frattempo la politica dei tagli & tasse fa danni proprio sui ceti più deboli, quelli a reddito fisso.

Si sapeva che la manovra dei “tecnici” avrebbe prodotto lacrime e sangue, non si sapeva che il governo ci avrebbe messo le lacrime con gli occhi umidi di qualche suo ministro, mentre era certo che il sangue, come al solito, lo avrebbe fornito il lavoratore dipendente. E’ la solita perversa logica del capitalismo. Se si vuole salvare il capitale dai suoi insanabili problemi, se si pretende di allungare l’agonia di questa astorica forma di produzione, l’unica strada percorribile è quella lastricata dai sacrifici dei proletari, costellata qua e là da qualche irrisoria gabella sui detentori di capitali (tassa sul lusso, timidi accenni - 2% - alla tassazioni sui capitali “scudati”, peraltro definiti impropri e illegittimi) giusto quale pillola dolcificante da propinare al solito pubblico.

D’altra parte, in termini capitalistici, così come la povertà di molti è la condizione per la ricchezza di pochi, così la mannaia della tassazione e dei tagli su molti è più remunerativa di un soffice prelievo tra i ricchi, fermo restando che toccare il capitale e le rendite da capitale, già in periodi di vacche grasse è capitalisticamente un errore, nei periodi di crisi come questo è un sacrilegio. È meglio togliere mille o duemila euro all’anno a 40 milioni di italiani, che qualche decina di milioni di euro a centomila ricchi contribuenti. Per meglio dire: la manovra può essere doppia, ma quella che fa cassa è la prima, mentre la seconda è la solita fumosa ragnatela tessuta a mo’ di parvenza di equità di prelievo fiscale. Per rimanere nell’ambito delle pensioni, è infinitamente più remunerativo per le casse dello Stato rapinare milioni di piccoli pensionati già sull’orlo dell’indigenza che l’introito del 15% di tassazione sulle pensioni oltre i 200 mila euro.

Lo stesso discorso vale per l’Ici sulla prima casa, per l’Iva e per tutte le accise che sono state aumentate, non ultima quella sulla benzina. La fascia di reddito che maggiormente contribuisce a rimpinguare le casse dello Stato è sempre la stessa, non si scappa.

Detto questo, detto niente, se non si pensa ad una possibile risposta di classe. Che non è quella di uno stanco sindacalismo, arma spuntata da decenni e che, di fronte ad un simile disastro mima una serie di spezzettati scioperetti di poche ore,categoria per categoria, dividendo e indebolendo il fronte del mondo del lavoro, blaterando di maggiore equità nei sacrifici ma nell’accettazione degli stessi, quale condizione imprescindibile per la salvezza del capitalismo italiano.

La risposta deve cominciare ad articolarsi sul rifiuto di ogni sacrificio. Deve rifiutare in breccia il disegno conservatore oggi, reazionario domani, di giusti sacrifici per tutti, come se l’impossibile equanimità degli stessi risolvesse il rapporto tra capitale e lavoro salariato, o eliminasse l’essenza dalla società capitalistica che si basa sullo sfruttamento, peraltro sempre più intenso, del proletariato. Che non si limiti ad attaccare il governo Monti quale esecutore testamentario delle ultime volontà del capitale in crisi, pietendo dilazione nei tempi di applicazione dei sacrifici o pietà per la loro gravità, ma che inizi ad avvicinarsi al cuore del problema: l’anticapitalismo.

FD, 2011-12-15

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.