Nubi sull'economia cinese

Passaggi di nuvole sull'economia cinese (ma forse c'è dell'altro)

È un semplice raffreddore o il sintomo di guai più seri?

Si potrebbe commentare così il dato relativo al PIL cinese nel primo quadrimestre di quest'anno, sceso al di sotto delle già negative previsioni. Infatti, mentre i moderni astrologi della borghesia, vale a dire gli analisti economico-finanziari, prevedevano che il rallentamento si fermasse all'8,3% – rispetto all'8,9% del trimestre precedente – l'indice è sceso di un altro po', cioè fino all'8,1%.

Ovviamente, come in genere i commentatori si affrettano ad aggiungere, le cosiddette economie avanzate farebbero carte false pur di raggiungere anche solo la metà di quel ritmo di crescita, ma rimane il fatto che il “Celeste Impero” forse sta covando qualcosa, se questo è il quinto trimestre consecutivo che segna una caduta, benché non drammatica, del famigerato PIL. Naturalmente, le autorità cinesi si affrettano a rassicurare, a spegnere sul nascere l'ansia di chi, non controllando la fantasia, si mette a immaginare scenari “greci”, ma delle rassicurazioni borghesi è sempre bene diffidare, a maggior ragione in un'epoca di crisi.

Non occorre un grosso sforzo di memoria per ricordare i trionfanti rapporti del FMI (per esempio) che, poco prima dello scoppio della bolla dei subprime, dipingevano il futuro di rosa, o delle agenzie di rating, che, ancora nel giorno del suo fallimento, valutavano positivamente la Lehman Brothers, assegnandole una “A”. Trattare con cautela le cifre sfornate dalle istituzioni borghesi – e lo stato cinese vi rientra a pieno titolo – è quindi doveroso, tanto più se si analizza la natura del “miracolo” economico, guardato con ammirazione da nostalgici maoisti occidentali e capitalisti di tutto il mondo.

Tutti sanno che l'impetuoso sviluppo dell'economia e, in particolare, dell'industria, si basa sullo sfruttamento “ottocentesco” di un bacino immenso di forza lavoro, alimentato dal flusso di contadini poveri, disposti – si fa per dire – a lavorare in condizioni brutali nelle fabbriche, per sfuggire a una miseria acuta.

Oggi, dopo migliaia di scioperi, rivolte ed episodi drammatici pubblicizzati dai mezzi d'informazione di massa (come i suicidi alla Foxconn), la situazione della classe operaia ha registrato qualche miglioramento, soprattutto per quanto riguarda i salari, ma questo fa storcere il naso agli investitori esteri che, qui e là, hanno cominciato a delocalizzare in VietNam, in Cambogia e in altre regioni dell'Asia che non danno ancora grossi problemi nella gestione della forza lavoro.

L'investimento proveniente dall'estero, da vent'anni almeno, è stato incoraggiato fortemente dal governo di Pechino, che non solo ha provveduto a gestire col pugno di ferro la classe operaia, ma ha messo in atto una politica economico-finanziaria tale da creare uno scenario il più favorevole possibile ai capitali stranieri. Questi hanno abbandonato alla ruggine e alla desolazione le vecchie regioni industriali dell'Occidente (a cominciare dagli USA), per cercare di risollevare massa e saggio di profitto, ormai insoddisfacenti in patria. Ma se lo sviluppo economico della Cina – in cui i capitali statunitensi giocano un ruolo di primo piano – è stato uno dei fattori che ha permesso alla crisi del ciclo di accumulazione post-seconda guerra mondiale di dilatarsi nel tempo per decenni, non è detto che le forze che lo muovono prima o poi non debbano scontrarsi con la legge del valore, fondamento dell'economia capitalista. Infatti, anche l'iperproduttivista economia cinese non sfugge ai meccanismi tossici della speculazione finanziaria che tiene in mano i fili del sistema economico mondiale, a cominciare da quello statunitense.

Nel PIL a stelle e strisce, i consumi giocano un ruolo da protagonista – benché i salari siano forme o in calo da decenni – ma sono stati resi possibili, com'è noto, dai governi e dalla banca federale centrale, nonché dalle merci a basso prezzo provenienti anche e non da ultimo dalla Cina. A sua volta, essa, grazie alla massa enorme di denaro proveniente dalle esportazioni, ha investito nel debito pubblico di Washington, rafforzando il legame, non d'amore ma di interessi, con l'ex “Tigre di carta”; così, per non essere investita dall'esplosione dei subprime, dal 2008 Pechino ha inondato di denaro (4000 miliardi di dollari: Asianews, 28-09-2011), banche, industrie e province, anche per evitare rivolte sociali originate da altrimenti non improbabili fallimenti industriali. Stando però a quello che si legge in giro, tutti quei soldi sarebbero stati investiti improduttivamente, cioè avrebbero scarse speranze di produrre profitti veri – anzi, sarebbe dubbia persino la restituzione del prestito in sé – aggravando in tal modo sia la sovraccapacità industriale che quella infrastrutturale e la bolla della speculazione immobiliare. In pratica, si tratterebbe di capitali buttati nella spazzatura. In questi anni, le amministrazioni centrale e locali hanno finanziato la costruzione forsennata di quartieri, città, ferrovie superveloci e aeroporti in maniera tale che le imprese spregiudicate dei pur rapaci politicanti italici non di rado sfigurano al confronto.

Il risultato è che moltissime abitazioni restano invendute, nuove città restano deserte, mentre aeroporti e treni risultano sovrabbondanti rispetto alle esigenze del traffico reale (intervista di C. Gubbini a J. Halevi, su manifesto.it del 10-04-2012).

La domanda che ci si pone è allora come faranno le banche a coprire quegli investimenti enormi, ma così poco redditizi, tanto più che le esportazioni, da cui provengono le riserve della banca centrale, hanno subito, negli ultimi mesi, un rallentamento. Se le esportazioni – che assieme agli investimenti costituiscono il 70% del PIL – dovessero continuare a rallentare, i problemi comincerebbero a farsi seri e non solo per la Cina, ma anche per i paesi esportatori di materie prime (tra cui Brasile, Argentina, Australia, in parte gli stessi USA, ecc.) dipendenti in maniera significativa dall'andamento dell'economia cinese.

Ma le esportazioni calano perché i principali mercati di sbocco di Pechino – Europa e USA – non tirano o tirano meno, anche in conseguenza delle politiche di austerità imposte... per superare la crisi.

Come al solito, ovviamente, c'è già chi ha il rimedio pronto, cioè aumentare i consumi interni: peccato però che i salari cinesi per quanto aumentati negli ultimi anni – a macchia di leopardo, quando va bene – siano ancora molto lontani dal poter permettere un'espansione dei consumi di massa, senza contare che la parte del salario sul reddito nazionale è in calo, esattamente come in ogni altro paese del mondo.

Insomma, la speranza che la speculazione finanziaria e l'incremento artificiale del consumo possano annullare la tara di fondo del capitalismo odierno, vale a dire l'insufficiente estorsione di plusvalore primario a livello mondiale, forse presto anche in Cina si mostrerà per quella che è: un'illusione.

CB
Domenica, May 6, 2012

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.