A proposito di diritto al lavoro e del suo ritorno d’attualità

Tutti in piedi e sull’attenti:

L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro - La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto.

Articoli 1 e 4 della repubblicana Costituzione

Quando i Padri della Patria si accordarono su questa formulazione, avrebbero certamente espulso dalle loro sofferte meditazioni l’attuale ministro del lavoro e delle politiche sociali, Fornero, per la quale, in modo chiaro e netto, “il lavoro non è un diritto”.

E’ vero che i tempi sono cambiati: allora si guardava agli affari della Ricostruzione nazionale e si accarezzava la schiena di quanti dovevano piegarsi ai voleri del capitale, dopo aver appena chiuso l’esperienza dei “campi di lavoro forzato” per aprire quelli del “libero lavoro”. Tutti d’accordo - camicie brune, nere, rosse staliniste, celesti o verdi – a proposito del motto: “Il lavoro rende liberi”.

Oggi però si tratta piuttosto di distruggere una pletora di capitali (e di lavoro vivo) che non possono avere adeguata “remunerazione” attraverso il plusvalore estratto dalla forza-lavoro. Sempre, s’intende, rispettando i “bisogni” del capitale.

E’ dalla rivoluzione borghese del 1789 che si cominciò a parlare del dovere dello Stato di procurare lavoro (salariato – aggiungiamo noi) ai “cittadini”. Che questi poi siano divisi da interessi contrapposti, borghesi e proletari, è una faccenda che non li riguarderebbe.

Tornando ai tempi della italica Assemblea Costituente, forse i più giovani non lo sanno ma la discussione fu allora molto animata e contrastata fra i “costituenti”; si deve ad un personaggio come A. Fanfani il suggerimento di una formula che quanto meno batteva quella, addirittura meno impegnativa, avanzata da un Basso e da un Amendola: “Repubblica democratica di lavoratori”.

Leggendo alcune pagine del libretto E’ l’Europa che ce lo chiede! – Laterza, di Luciano Canfora, si rinverdisce il ricordo di come Fanfani fosse esponente del pensiero corporativo, tanto che nel 1937 aveva pubblicato con successo il manuale Il significato del corporativismo, oltre che essere un astuto esponente del pensiero sociale della Chiesa apostolica romana. E nel 1946, sempre Fanfani ma con una camicia dal rinnovato colore, così scriveva:

E’ necessario un controllo sociale della vita economica… collegi misti di capitalisti e di lavoratori_”. Ah, il succedersi di “_forme politiche e culturali più progredite...

come aveva scritto Gramsci…!

Sarà un caso, ma – come ci ricorda lo stesso Canfora – nel Manifesto di Verona della Repubblica Sociale Italiana, quella di Salò, si dichiarava (art. 9) che “Base della Repubblica Sociale e suo oggetto primario è il lavoro”; così come fra la banda mussoliniana si elogiava il discorso che, nel novembre 1943, fu tenuto da Concetto Marchesi, allora Rettore dell’Università di Padova. Riportiamone un passaggio:

Il lavoro c'è sempre stato nel mondo, anzi la fatica imposta come una fatale dannazione. Ma oggi il lavoro ha sollevato la schiena, ha liberato i suoi polsi, ha potuto alzare la testa e guardare attorno e guardare in su: e lo schiavo di una volta ha potuto anche gettare via le catene che avvincevano per secoli l'anima e l'intelligenza sua. Non solo una moltitudine di uomini, ma una moltitudine di coscienze è entrata nella storia a chiedere luce e vita e a dare luce e vita.

Finalmente – continuava l’infatuato Marchesi in pieno regime fascista – lo Stato aveva la possibilità di

poter veramente costituire e rappresentare la unità politica e sociale dei suoi liberi cittadini; all'individuo che potrà finalmente ritrovare in se stesso l'unica fonte del proprio indistruttibile valore.

Avanti, dunque, “popolo che lavori, Italia dei lavoratori”!

Quanto all’imbarazzo che, per gli stalinisti di allora (e per gli ex di oggi), sorgeva di fronte ad una “vicinanza sul piano dei principi” fra camicie di diverso colore, beh, tutto si spiegherebbe con le vicissitudini personali e le esperienze nelle quali si è “sospinti dai tornanti tumultuosi della storia”… E così sia per un Marchesi che, dopo le sue ideologiche divagazioni, finirà membro del Comitato Centrale del Pci, allorché la “esperienza” fascista fu liquidata e sostituita con quella “democratica”

Sta di fatto che sia nel Manifesto di Verona che nella successiva Costituzione repubblicana, l’inganno – consapevole o … meno – era più che evidente, anche se (apparentemente e piuttosto ipocritamente) si sostenne e si sostiene di aver allora “soppiantato la vuotezza classicamente ‘liberale’ dello Statuto albertino”… (ancora Canfora, pag.74). Sancendo – lettori, tenetevi forte! – “un diritto che è stato per oltre 60 anni il caposaldo della storia repubblicana”…

Questi ricordi affiorano anche in seguito alla lettura di un articolo su “il manifesto” del 12 dicembre (scrive A. Bevere, giudice di Cassazione di Magistratura democratica) dove fra le righe (anche se non sempre chiaramente espresso per la comprensione di noi poveri proletari) affiora il rispetto di questo “diritto al lavoro”. Una norma che – si dice – non dovrebbe avere il valore di un “mero principio generico”; quanto meno assumendo una “natura di diritto sociale” che dovrebbe spingere i pubblici poteri a interventi finalizzati ad elevare i livelli occupazionali, creando nuovi posti di lavoro e conservando almeno quelli che ci sono…

Così, oggi che ritornano tempi difficili e che il governo (dimissionario) “minaccia” di nazionalizzare l’Ilva di Taranto, con malcelata nostalgia anche l’ultimo “quotidiano comunista” (ma di quale comunismo vogliamo parlare?) rimasto in circolazione, ricorda i trascorsi anni del secondo dopoguerra, quando per ridimensionare l’esercito dei disoccupati e spingere l’industria a ristrutturare impianti e tecnologie (“per divenire competitiva sui mercati internazionali”…) i tamburi della sinistra più che mai borghese rullavano sui temi del controllo statale da esercitarsi sulla imprenditoria privata e sul libero mercato.

Questo “_menare il can per l’aia”, ovvero il mantenersi alla superficie dei problemi, politici e sociali, senza mai andare al fondo delle determinazioni economiche; questo dire e non dire, queste piccole dosi di un veleno ideologico propinato fra le righe ai lettori, con gli accenni alla possibilità di una “politica del pieno impiego” che richiederebbe la strategia di uno “Stato protagonista il quale, oltre che finanziatore degli investimenti dei privati, sia imprenditore lui stesso, nell’ambito di un nuovo rapporto tra impresa privata e prosperità collettiva” – tutto questo fa parte del menù che quotidianamente ci viene offerto per “uscire dalla crisi”.

In questa “funzione _salvifica_ dell’azione pubblica”, fra dismissioni da una parte e privatizzazioni dall’altra, si sono infranti i lontani “sogni” di un Riccardo Lombardi: “lo Stato strutturato come imprenditore che possiede e dirige un notevole settore dell’economia….».

Oggi si vuol ritornare su quei passi, seguendo il canto, stonato, di molte sirene “radical-riformiste”? E’ per questo che, nell’articolo su “il manifesto”, si recuperano i pensieri “ambiziosi” di un Eugenio Scalfari, datati 1961:

Passare ad una politica di piano, per uscire da un decennio nettamente dominato da uno sviluppo squilibrato nella produzione e nella distribuzione della ricchezza... Non si tratta di abolire il mercato, ma di farlo funzionare in presenza di condizioni diverse… La prima di queste preliminari modifiche di struttura riguarda l’industria elettrica e nucleare, di cui è indispensabile la nazionalizzazione…

Oppure di un La Malfa che chiedeva di

piantarla con questi pregiudizi ottocenteschi che una economia di mercato non debba mai usare la parola pianificazione, perché questa è una delle forme concettuali più arretrate del nostro pensiero economico e della nostra politica economica.

Grazie al “quotidiano comunista”, ecco quindi che, uscita dalla porta (se mai lo ha fatto), rientra dalla finestra la mistificata conservazione del capitalismo, rinvigorita dai rimpianti della “programmazione economica”. Con l’apporto delle nazionalizzazioni e del controllo pubblico dell’apparato produttivo. Non solo: il tutto si pretende di farlo passare per uno “spettro” che disturba i sonni di “lor signori”, per i quali invece queste proposte, da adottare sia pure quale ultima spiaggia, suonano come una dolce ninna nanna.

Ma quando si cancelleranno dai pensieri inculcati in gran parte del proletariato, questi concetti borghesi di programmazione pubblica, nazionalizzazione di imprese e Banche, costruzione di meccanismi di democrazia economica dal basso, compartecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali, socializzazione (capitalistica) della produzione in forme cooperative? (Naturalmente, silenzio assoluto sulla socializzazione della distribuzione…)

Figuratevi questi intellettuali, magari in veste di “antagonisti”, di fronte alla lettura del Primo Indirizzo al Comitato della Lega dei Comunisti, nel 1850, quando Marx scriveva: «Se i “democratici” esigono la regolazione del debito pubblico, gli operai devono esigere la bancarotta dello Stato». E non parliamo poi di un minimo accenno a quella che sarà (ma questo è chiaramente un altro comunismo rispetto a quello di “il manifesto”) – per uscire definitivamente dal baratro in cui sta sprofondando non solo il proletariato ma l’intera umanità – la negazione del lavoro salariato…

DC
Giovedì, December 13, 2012