L’Italia piange ma la Germania, se ride, lo fa a denti stretti

Rinnovare il debito già esistente – oltre a contenere il deficit corrente di bilancio statale – man mano che le diverse emissioni di titoli vanno in scadenza, è un problema inquietante per il “comitato d’affari” che si appresta a governare l’Italia. Sia con abiti tecnici che politici. L’Italia è oltretutto il paese ad avere una altissima percentuale di rinnovi dei titoli di Stato, più di Grecia, Portogallo e Spagna. E nei balletti delle cifre, comunque da… brivido, non è mai stato chiarito con la precisione di dati ufficiali il reale rapporto fra detentori italiani e detentori stranieri dei nostri titoli pubblici.

Alla fine del 2011 i titoli dello Stato italiano in mano a stranieri erano stimati (Eurostat) attorno a circa il 38-40% dei 1.580 miliardi di euro in titoli allora in circolazione. In seguito, anche da altre fonti, si è appreso che su 1.648 miliardi di euro di debito pubblico circolante, le banche estere (francesi, tedesche e inglesi) ne detenevano 161 miliardi. Altre istituzioni finanziarie e singoli privati possedevano 330 miliardi. Dunque, in totale all’estero si troverebbero quasi 500 miliardi di euro di debito pubblico italiano, con una tendenza però calante. Quanto alla BCE, sarebbe stata in possesso, fino a un anno fa, di 110 miliardi di euro, pari al 7% delle circolanti obbligazioni italiche.

La Banca d’Italia ha ultimamente fornito la cifra di 666,1 miliardi di euro (sul totale dei titoli emessi a breve, medio e lungo termine, cioè il 40,3% di circa 1.651,4 miliardi) comprendendo anche i titoli di Stato italiani già detenuti o appena acquistati dalla BCE.

Infine Unicredit ha stimato poco tempo fa in 500 miliardi la somma dei titoli effettivamente nelle mani degli investitori stranieri, cioè il 30% del totale se si escludono quelli che si trovano presso la BCE o sono acquistati all’estero per conto di investitori italiani. La percentuale si sarebbe notevolmente abbassata negli ultimi mesi, facendo salire il quantitativo dei titoli nei bilanci delle finanziarie italiane: 1046 miliardi, pari al 63% del totale del debito pubblico italiano presente sui mercati finanziari.. Da notare che tale percentuale era al 45% alla fine del 2011. Si spera in ulteriori acquisti da parte della BCE, sotto la guida di M. Draghi, di titoli italiani sul mercato secondario.

Ultimamente si è avuto un calo dello spread, cioè della differenza tra i tassi di interesse che sono richiesti per l’acquisto dei titoli di Stato italiani in riferimento a quelli tedeschi. La differenza, sempre notevole. sarebbe dovuta alla presenza di un rischio d’insolvenza, per l’Italia, secondo gli “umori” del mercato.

Calando il rendimento dei Btp a dieci anni, le banche italiane si trovano in sofferenza a causa degli acquisti fatti in titoli governativi. Acquisti favoriti dai rifinanziamenti a lungo termine (Long-Term refinancing operation – LITRO) elargiti dalla BCE. La linea di credito triennale ha consentito alle banche italiane di comprare BTP, sia per “sostenere” la Patria che per lucrare alti interessi ovvero rendimenti al momento più che allettanti. Ma così facendo hanno ulteriormente indebolito il loro patrimonio (in un certo senso… “nazionalizzato”) riempiendo i bilanci (sia banche che istituti di credito) di preoccupanti quantitativi di mine vaganti.

Se si aggiunge al tutto il perdurare di una scarsa redditività nelle gestioni bancarie (ma qui i dubbi sui dati forniti sono tanti!) e i “crediti deteriorati” che ammonterebbero in 108 miliardi di euro su oltre 1.800 miliardi di finanziamenti (dati al 2011), con in più un rapporto prestiti-depositi al 140% (le banche tedesche sono al 70%), ecco che il futuro si fa ancora più cupo. Aggiungiamo che i crediti in condizioni di dubbia esigibilità sarebbero in Italia stimati in una media del 10%, mentre in Europa la media si aggira al 4% (Germania 2%).

Parlando del nostro Bel Paese, ne approfittiamo per rilevare come la “riduzione del capitale a rischio” sia un fatto empirico di rilievo per Piazza Affari (Borsa di Milano) che ha visto il totale della capitalizzazione scendere da 790 miliardi di euro del 2000 a 327 miliardi nel 2004. Fra entrate e uscite in Borsa vi è stato un deflusso di ben 270 miliardi di euro. Ovvero, da una capitalizzazione che quattro anni fa risultava pari al 49% del Pil, si scende all’inizio di quest’anno all’incirca al 20%. Questo regresso costante dura per il capitalismo italiano dal 1999: da allora sono stati emessi nuovi titoli pubblici raccogliendo 140 miliardi di euro e sono stati pagati 285 miliardi di dividendi. Le offerte pubbliche di acquisto sono state pari a 135 miliardi di euro.

Tornando allo scarso finanziamento delle aziende (colpevole – a detta degli “esperti” – di una tendenza negativa ad un “necessario” potenziamento della produttività per innovazioni tecniche), risulterebbe che per circa l’80% i fabbisogni finanziari delle imprese industriali sarebbero stati fin qui coperti dal ricorso al credito. Oggi quello che dovrebbe essere un “equilibrio necessario per la società” si è spezzato assieme ad un prosciugamento di quella liquidità che le banche hanno indirizzato verso altri usi e consumi, molto più redditizi – almeno nelle prospettive offerte – di quanto lo fossero gli “investimenti a lungo termine” in processi produttivi di merci in evidente difficoltà.

D’altra parte, se vi sono stati alcuni aumenti di capitale negli ultimi anni (50 miliardi di euro dal 2008) essi sono serviti a tappare i buchi delle banche e delle assicurazioni. E sempre a proposito di capitalizzazione delle Borse, l’Italia (con 445 miliardi di dollari al 1 luglio 2012) figura al di sotto dei principali Paesi europei e mondiali, persino della Spagna e della Russia, oltre che (via via a più forte distanza, da due volte fino a quasi otto volte) da Brasile, India, Germania, Francia, Cina, Regno Unito, Giappone e Usa.

Quando sale lo spread

Quando lo spread va all’insù, lo Stato è costretto a pagare in più miliardi di interessi; chi invece compra Bund tedeschi (Obbligazioni federali) perde addirittura soldi al netto dell’inflazione (con tassi di interesse sotto il 2%) ma punta sulla sicurezza dell’investimento.

Gran parte dei titoli di debito dei paesi europei in difficoltà sono in mano ad investitori di altri paesi, con conseguenze sulle manovre speculative da parte dei grandi investitori, che incoraggiano il calo di valore dei titoli stessi. Si gioca quindi sul loro ribasso e su quello dell’euro, e si scommette sulle varie operazioni di vendita e di acquisto. I guadagni possono essere grandi (poiché le masse totali in movimento sono enormi) ma anche le perdite possono essere disastrose. Comunque ad un guadagno degli uni corrisponde una perdita degli altri, poiché tutte le operazioni speculative, di qualunque genere, sono a somma zero.

Anche la Germania comincia a preoccuparsi

Ufficialmente la Germania si presenta sul palcoscenico europeo alzando il vessillo della “finanza sana” e dei conti pubblici in ordine. A parte le attività finanziarie delle banche tedesche, sulle quali gravano non pochi sospetti (e qualche certezza negativa…), va rilevato che il debito pubblico supera l’80% del Pil, quindi oltre la media europea. Siamo ad un accumulo di debiti che superano i 2.100 miliardi di euro (25mila euro per abitante).

La Deutsche Bank nel luglio 2011 decise di vendere l’88% dei titoli italiani in portafoglio, 7 miliardi di euro, speculando allo stesso tempo sui Credit defualt swap legati al debito italiano. In sintesi: vendite di titoli (Bot e Btp) e acquisti di assicurazioni a tutela di un possibile “fallimento” del debito sovrano di Roma. La Deutsche Bank avrebbe all’incirca un patrimonio di asset di 2,2 trilioni di euro; è seconda al mondo dopo Bnp Paribas, ed inoltre nel sistema bancario tedesco vi è una notevole presenza di debiti sovrani e bancari europei. La Germania sarebbe impegnata nel sistema finanziario europeo per circa 600 miliardi di euro; le banche tedesche e francesi sono pure in possesso di ingenti quantità di derivati tossici, i cui valori nominali sono in realtà da tempo crollati ai minimi. (Secondo Il Sole24Ore la Deutsche Bank aveva in bilancio – a metà 2012 – ancora 45 miliardi di titoli tossici.)

Molti sono di provenienza americana, al punto che la Germania ha ricevuto assistenza dalla stessa Fed essendo state alcune banche tedesche coinvolte come emittenti e distributrici di assicurazioni su titoli ipotecari, all’epoca della bolla immobiliare. In totale gli Usa avrebbero dato in prestito alle banche tedesche, e francesi, più di 275 miliardi di dollari.

Nonostante che il termine “debito” (Schulden) sia semanticamente vicino a “colpa” (Schuld), la Germania sembra preoccuparsi delle entità debitorie degli altri paesi piuttosto che delle sue. Altra questione che sta a cuore al Governo tedesco è quella degli squilibri europei della bilancia commerciale fra un paese rispetto ad un altro, con acquisti superiori alle vendite di merci. A questo proposito un ricordo va alle idealistiche esternazioni di un Keynes il quale ai suoi tempi indicava una geniale (sic) soluzione, consistente nell’invitare un paese a comperare di meno e l’altro a spendere di più! Più o meno come oggi il FMI, che invita la Cina ad aumentare la domanda interna e gli Usa a ridurla…

Questo aggiustamento reciproco fu, prima dell’euro, in parte tentato con la svalutazione monetaria di un paese, quello in deficit, rispetto ad altri. Una sorta di “meccanismo di adattamento”. Ma la svalutazione competitiva risulta alla fine del tutto fittizia, tenendo conto dell’aumento di prezzo delle importazioni con effetti di nuovo negativi sia sulla bilancia dei pagamenti sia sulla inflazione. Dunque, vantaggi che al momento possono essere presentati come positivi ma che poi comportano presto un seguito di effetti negativi. E, da parte sua, Berlino ha un avanzo di 297 miliardi di euro nella propria bilancia commerciale.

Quelle che hanno continuato a manifestarsi, anche dopo l’introduzione dell’euro, sono state e sono a tutt’oggi forti diversità sia nei livelli di crescita (oggi si può dire di… calo) che di inflazione delle diverse economie nazionali. Gli squilibri strutturali hanno avuto conseguenze sulla competitività delle merci prodotte, con evidenti ripercussioni sempre peggiorative e in primis sui salari e sulla mobilità della forza-lavoro. Gli interessi delle banche e delle bande di investitori preoccupati esclusivamente di racimolare ad ogni costo quanto più possibile di profitti, hanno drasticamente sottomesso, agli imperativi del mercato finanziario in particolare, le ipocrisie politiche in salsa democraticistica e liberale, tanto care agli incensatori dello Stato di diritto.

In questo contesto, e con la introduzione dell’euro, la Germania quale paese dominante sul mercato cercò di salvaguardare la propria posizione egemone spingendo gli altri paesi europei alla rinuncia della sovranità monetaria. La Francia, da parte sua, mirava a far saltare l’egemonia del marco e della Bundesbank. Ma la Germania pose non pochi vincoli, con l’obbligo del rispetto di una serie di parametri riguardanti l’inflazione, i tassi di interesse, i conti statali, i disavanzi e i debiti, e quindi l’impegno costituzionale di pareggio del bilancio pubblico.

Dunque, fine delle svalutazioni competitive in Europa (fu certamente uno degli obiettivi di Berlino) ma non certo fine degli squilibri strutturali presenti fra i paesi continentali e nonostante i quali si pretendeva la costruzione dell’Europa unita. Non fu possibile avviare un rafforzamento generale dell’apparato produttivo dei paesi minori, come qualche capitalista sognava in casa propria. E neppure, come da molti altri sperato, si concretizzò una protezione dagli attacchi ribassisti dei mercati finanziari contro l’euro, e neppure una maggiore stabilità monetaria.

Mancava una struttura politica comune – lapalissiano – e su questa assenza tutti oggi recriminano e versano qualche lacrima, sempre di coccodrillo. Qualcuno non nasconde la nostalgia di un ritorno a manovre svalutative (oggi per altro impossibili) o ad una deflazione interna dei costi (salari innanzitutto, prezzi e tariffe) cioè riducendo il potere d’acquisto e rendendo più competitive le merci prodotte. Quest’ultima è la manovra in atto, inevitabile per il capitale, ma col pericolo di un impoverimento nazionale che rischia di mettere in forte allarme la già traballante pace sociale. E quella della tenuta del “patto sociale democratico” è una questione niente affatto trascurabile per la classe borghese alle prese con un tessuto civile già alquanto destabilizzato.

Rimane un fatto certo: la Germania ha ottenuto i vantaggi, sia pure momentanei, di una sottovalutazione dell’euro per sé e di una sopravalutazione per gli altri paesi, buona parte dei quali in deficit commerciale. E così, mentre i paesi europei economicamente più fragili hanno dovuto rapportare la loro moneta debole con un euro più forte, la Germania si è trovata invece con un euro più debole del marco. E’ stata quindi ulteriormente favorita nella esportazione di merci, almeno in un primo periodo.

L’Italia, da parte sua, è fra i paesi che con l’avvento dell’euro hanno subito forti perdite di competitività con la Germania: dati Ocse in proposito dichiarano una diminuzione del 30%. E sulle esportazioni Berlino fonda ancora la sua posizione leader, molto più che sui consumi interni piuttosto stagnanti negli ultimi anni. Il suo surplus con l’Eurozona é di circa il 52% e raggiunge il 65% con i paesi dell’Unione. Squilibri che, a suo favore, Berlino ha visto crescere (a suon di miliardi di euro) grazie ai deficit degli altri paesi europei. “Eccedenze commerciali” di cui si vanta Berlino qualificandosi boriosamente quale prima della classe.

Per quanto sia stata… moderata, la Germania si è avvantaggiata di una tendenziale deflazione che fu però fino a ieri favorita da una situazione di relativa crescita economica, ben diversa dalla attuale fase di crisi (ufficialmente “recessione”). E per di più in presenza, nel passato, di una estensione globale del commercio quando invece oggi, persino da Pechino, arrivano voci allarmanti di “forti pressioni negative sulla economia cinese”…

La Germania si trova avvantaggiata dai bassi interessi pagati a chi acquista i suoi titoli di Stato (i Bund). Al punto che mentre le imprese tedesche si finanziano, a 10 anni, con un tasso al di sotto dell’1,3% (ben al di sotto dell’inflazione che viene data al 2,2%), le imprese italiane sborsano il 5,8%.

Come sempre, nel capitalismo, c’è chi sale e c’è chi scende… almeno fino a quando i rapporti fra gli Stati raggiungeranno punti di squilibrio tali da portare a rotture. In tal senso, è evidente come la strategia economica di Berlino, basata sulle esportazioni di merci, potrebbe essere in grave pericolo. Gli aumenti dell’export tedesco, se fosse continuata la presenza di valute nazionali in Europa, avrebbe portato a un forte apprezzamento di quella tedesca contro le altre valute europee. Tale apprezzamento avrebbe da un lato scoraggiato le esportazioni tedesche verso i paesi concorrenti e dall’altro, grazie alla svalutazione delle valute europee nei confronti della divisa tedesca, avrebbe incoraggiato le importazioni della stessa Germania. Con la moneta unica questo meccanismo è stato annullato.

Come se non bastasse, dal 2000 a oggi i salari reali tedeschi sono sostanzialmente rimasti invariati nonostante vi sia stato un rilevante aumento di produttività. Dati ILO ci informano che nel corso degli ultimi vent’anni la produttività del lavoro in Germania è cresciuta di circa un quarto mentre i salari sono rimasti stabili.

Quindi, diversamente dai concorrenti europei, il costo unitario del lavoro tedesco è progressivamente diminuito, aumentando il vantaggio competitivo di Berlino e aiutando la crescita economica del capitalismo tedesco. Il minor costo unitario del lavoro in Germania ha operato una redistribuzione della ricchezza dai salari ai profitti, ma ha reso la crescita tedesca dipendente dal raggiungimento di un elevato export commerciale. Molti economisti concordano nel valutare che i salari tedeschi non sono cresciuti negli ultimi anni a causa delle riforme del mercato del lavoro (come il taglio ai sussidi di disoccupazione) realizzate nel 2010 con l’Agenda di riforme nazionali e, negli anni precedenti, per le misure della coalizione rosso-verde guidata da Gerard Schröder. Tuttavia in un’unione economica e monetaria dove l’export di una nazione rappresenta l’import di un'altra, le politiche neo-mercantiliste operate dalla Germania si sono rivelate estremamente dannose per le economie più deboli della stessa area valutaria comune, configurandosi come una vera e propria mancata domanda aggregata nell’area europea.

Non mancano le critiche dei neo-keynesiani e i consigli, idealisticamente avanzati, per nuovi meccanismi di compensazione degli squilibri commerciali europei, sulla scia delle proposte (International Clearing Union) avanzate a suo tempo da un Keynes alla conferenza di Bretton Woods e nel tentativo di organizzare il commercio internazionale nel secondo dopoguerra. Basti dire che i suggerimenti attuali sarebbero quelli di una imposizione di “multe” proporzionali agli accumuli eccessivi di avanzi commerciali, finanziando così un fondo per il mantenimento degli equilibri commerciali e contemporaneamente invitando gli Stati ad aumentare la domanda aggregata nazionale e così correggere gli squilibri commerciali. La Germania guadagnerebbe – si dice – “stima e fiducia tra i partner europei”, e l’Europa farebbe onore al Premio Nobel assegnatole per la Pace 2012….

E sempre a proposito di esportazioni, non tutti sanno che il “modello” tedesco si avvale di uno sfruttamento della forza-lavoro basato su salari che possono arrivare fino a soli 2 euro l’ora e in alcuni casi anche a 0,55 euro l’ora. Sono dati pubblicati da The Guardian del 15/2/2012, che riporta la frase con cui, a Davos, l’ex cancelliere Schröder si è vantato di aver creato “il miglior settore a basso reddito d’Europa” (circa il 20% dei lavoratori a tempo pieno). Si aggiunga che le agenzie interinali occupano circa un milione di persone. Nel complesso una situazione, per una buona parte del proletariato tedesco, da Corea del Sud.

Se qualcuno fosse dubbioso sui dati sopra riferiti, ne riportiamo altri da un articolo reperibile in Der Spiegfel n.12 in data 22 marzo 2010. In esso si dichiarava che nel 2008 i lavoratori occupati in Germania per poche decine di ore al mese (gli “occasionali”) erano 9,8 milioni. Di questi, ben 2,6 milioni erano occupati nei “minijobs”, lavoretti a tempo parziale da 400 euro mensili.

Come sempre accade, le informazioni ufficiali di cui disponiamo a proposito di cifre salariali sono alquanto… ballerine: secondo IAQ (Institut Arbeit und Qualifikation) nel 2010 sarebbero stati circa 8 milioni i lavoratori tedeschi con salari al di sotto di 9,15 euro all’ora. Non solo, ma la paga oraria media per le basse retribuzioni sarebbe all’incirca di 6,60 euro (altra cifra media fra salari all’Ovest e all’Est della Germania). Sotto i 5 euro all’ora, lo stesso Istituto segnalava 1,4 milioni di lavoratori

Da altre fonti si apprende che i lavoratori poveri, nel 2009 con una paga inferiore al 60% della paga ritenuta “mediana”, erano il 22,7% degli occupati, pari a 6,5 milioni di uomini e donne, con un salario medio di 6 euro lordi all’ora (circa 800 euro al mese). Questo “tipo” di salariati risultava essere, nel confronto internazionale, il 25% del totale degli occupati negli Usa e il 21% in Inghilterra. In Italia si trattava del 14%, ma al sud la percentuale saliva in alto… Dati, ripetiamo, del 2009. Altri dati, questi recentissimi e diffusi in uno studio dell’Ufficio Federale di Statistica di Berlino, confermano che un quinto dei lavoratori tedeschi percepisce un salario inferiore a 10,36 euro lordi l’ora.

Un fatto è più che certo: dal 1 Gennaio 2003, con il pacchetto Hartz, si sono accelerate le tendenze di allungamento degli orari lavorativi, in periodi di tempo alterni, e di riduzione del salario sia in termini diretti che indiretti, tagli al welfare e ai sussidi di disoccupazione sia in durata che in remunerazione.

Informazioni più recenti denunciano “lavori da 1-Euro” l’ora (1-Euro Jobs), e se il disoccupato non accetta perde il sussidio. E la precarizzazione dilaga; cosi per i contratti flessibili per milioni di lavoratori e con la Volkswagen (da molti citata ad esempio positivo) che, uscita dalla Confindustria tedesca e con un contratto aziendale, cogestisce col Sindacato dei metalmeccanici lo sfruttamento (intensivo) in fabbrica. Quando i “bisogni” del capitale lo esigono, gli orari di lavoro aumentano, altrimenti si riducono le ore e naturalmente si tagliano i salari. Coi Contratti di solidarietà che suddividono le riduzioni salariali fra tutti gli operai.

Il quadro della situazione in Germania è dunque chiaro: quella che fino a poco tempo fa era considerata la “locomotiva d’Europa” rallenta la sua marcia. I tempi delle vacche grasse stanno quindi per finire anche per le esportazioni tedesche di merci?

Il quadro attuale comincia a farsi più grigio del precedente, il quale vantava – dal 2002 al 2011 – un saldo commerciale positivo di oltre 1.300 miliardi di euro con i 26 Paesi UE. Ma non solo: il surplus in miliardi di dollari della Germania superava quello cinese.

Tornando ai rapporti commerciali con l’Eurozona recentemente il volume degli scambi ha registrato un calo, notevole soprattutto verso il Sud Europa; secondo dati Istat 2012, le esportazioni tedesche verso l’Italia sono crollate del 17% tra il marzo 2011 e il marzo 2012.

L’intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro (con esuberi di mano d’opera in crescendo) è inevitabile per questo modo di produzione (capitalismo) nel tentativo di mantenere una competitività a livello internazionale e un alto livello del saggio medio di profitto. Le misure di controtendenza messe in atto dal capitale, alla lunga gli si ritorcono contro: la disoccupazione cresce a vista d’occhio e poiché sempre meno lavoro vivo entra nei processi produttivi (1), inevitabilmente non si riesce ad aumentare più di tanto il plusvalore che unicamente proviene proprio dall’uso del lavoro vivo in rapporto al capitale (impianti, macchine, ricerche e commercializzazione). Un plusvalore necessario in quantità sempre maggiore non solo per l’accumulazione allargata del capitale ma anche per il mantenimento di questa società sempre più corrotta con tutti i suoi apparati repressivi, burocratico amministrativi e militari.

Nel complesso, quanto sopra esposto rientrerebbe in quella che molti definiscono come una “condotta miope” del capitalismo tedesco, al quale si suggerirebbe una politica salariale “espansiva” per sostenere la domanda e – magari con l’aiuto della Divina Provvidenza – per ridurre le “iniquità sociali” oltre che risanare gli squilibri nelle partite correnti. Ma non basta: occorrerebbe che la BCE si ponesse come obiettivo quello di un tasso di inflazione più alto, contando sugli effetti inflazionistici positivi quale sollievo per i soggetti privati e pubblici carichi di debiti. Poco importa se a fare le spese di una simile “tendenza” sarebbe soprattutto la classe operaia e il proletariato intero a livello continentale. E di conseguenza quello mondiale.

In realtà nessun gruppo dirigente borghese (di destra o di “sinistra”) è in grado di indicare quali possano essere realisticamente le alternative per la sopravvivenza del capitalismo. Quelle di un rilancio di politiche macroeconomiche espansive, diventano barzellette da avanspettacolo di quart’ordine. I destini sembrano segnati in un cammino che volge al peggio, e non c’è “guida politica” in grado di raddrizzarlo o quantomeno deviarlo sia pure momentaneamente su una… giusta via. Questo per quanto “saggio e lungimirante” possa essere stato il pensiero dei padri fondatori della Unione Europea riguardo alla strada che si sarebbe dovuto percorrere. A cominciare – qualcuno ricorda con nostalgia gli “strumenti ideali e politici” delle democrazie europee – dai primi passi compiuti, nel 1951, con la Comunità del carbone e dell’acciaio (Ceca) che avrebbe gettato l’idea di una Unione europea che riconosceva l’autorità superiore di istituzioni sopranazionali. (B. Spinelli, Repubblica 19 settembre 2012)

E con questi idealistici fantasmi del passato, oggi non si possono che trascorrere notti insonni nelle stanze dei poteri dominanti che, nonostante tutto, accennano globalmente a profonde spaccature.

La crisi affonda le sue radici nella finanza

E ad una “gestione sconsiderata delle risorse finanziarie pubbliche nazionali” (solo la Germania avrebbe saputo farne un “uso virtuoso”…) si addebiterebbero tutti gli effetti disastrosi abbattutisi sulla economia dei Paesi europei. Si aggiungano gli squilibri commerciali e il costo del lavoro, e troverete queste affermazioni quasi quotidianamente “distribuite” alla pubblica opinione.

Axel Troost, economista e deputato della Linke nel Bundestag di Berlino, avrebbe avuto una di quelle luminose idee che, da sole, bastano a dimostrare in quale pantano si agitino i pensieri borghesi dei gestori del capitale in crisi. Si tratterebbe della proposta di un nuovo meccanismo europeo di compensazione degli squilibri commerciali, sulla falsariga delle idee che a suo tempo uscirono dalle meningi di John Maynard Keynes, sempre alla conferenza di Bretton Woods. Una specie di International Clearing Union trasferito alla attuale situazione europea.

Secondo Troost si tratterebbe nel lungo periodo di imporre delle sanzioni, seppur minime poiché non bisogna esagerare!, che colpiscano proporzionalmente gli accumuli eccessivi di avanzi commerciali. I soldi così raccolti dovrebbero finanziare un fondo per il mantenimento degli equilibri commerciali senza tuttavia configurarsi come un sistema repressivo o penalizzante. Le nazioni con surplus dovrebbero inoltre presentare entro un tempo massimo, al Consiglio e al Parlamento europeo, il programma di policy che intendono attuare per aumentare la domanda aggregata nazionale e correggere gli squilibri commerciali. Questo è oggi il caso della Germania. Per difendere gli interessi dell’area comunitaria, la Repubblica federale – Troost conclude – dovrebbe riorientare la propria strategia di sviluppo passando da quella basata sulle esportazioni a un diverso modello di crescita impostato sulla domanda interna, abbandonando l’idea dell’austerità e riguadagnando così stima e fiducia tra i partner europei. Oggi la politica monetaria non è più uno strumento di politica economica efficace; soltanto un maggior coordinamento delle politiche fiscali europee si potrà salvare il progetto della moneta unica, dell’Europa comune e del messaggio di pace che rappresenta, come riconosciuto dall’assegnazione del Premio Nobel per la Pace 2012. Questa la “sostanza” di uno fra i pensieri dominanti nel bel mondo capitalistico. Starebbe quindi alla Germania riconoscere il proprio ruolo nella crisi europea e lanciare l’iniziativa per quelle riforme che possano dare, con questo progetto, un nuovo futuro al sconquassato dominio imperialistico europeo a direzione teutonica.

Appendice - Il bilancio durante il fascismo

A conferma che passato, presente e futuro della economia capitalistica e della società borghese seguono un obbligato percorso, diamo uno sguardo alla trascorsa fase storica, precisamente quella intercorsa fra il primo dopoguerra e la preparazione del secondo conflitto mondiale imperialistico (con nel mezzo la Grande Crisi del 1929). In proposito è interessante rivedere quali furono in Italia gli interventi dello Stato in veste non “democratica” ma “autoritaria”. Il fascismo entrò in campo con pieni poteri, immediatamente dopo la sua salita al potere, per applicare interventi fiscali quali l’abolizione della nominatività dei titoli e dell’imposta di successione all’interno del nucleo familiare, e l’istituzione dell’imposta complementare personale progressiva.

Negli anni tra il 1922 e il 1925, la diminuzione delle spese per consumi pubblici, dovuta a una politica di ridimensionamento dell’intervento dello Stato nell’economia, portò ad un avanzo di bilancio. Il risanamento era la conseguenza dell’esaurirsi delle spese di guerra oltre ad espedienti di vario tipo fra cui il ricorso a prestiti straordinari. Quanto ai Buoni del Tesoro la loro collocazione era piuttosto difficoltosa e nonostante un aumento dei tassi sui buoni ordinari, prima al 5% e poi al 6%, ci fu una forte spinta nelle richieste di rimborso.

Fu portata avanti una politica di sgravi tributari e si cercò il consolidamento del debito fluttuante e la sistemazione dei prestiti esteri di guerra, per avere una ripresa degli investimenti stranieri in Italia.

La lira fu poi rivalutata, dopo che nel maggio del 1926 fu concentrato il diritto di emissione nelle mani della Banca d’Italia. Ma la svalutazione della moneta rendeva difficoltose le importazioni di materie prime, di grano e di combustibili; fra ondeggiamenti di svalutazione e rivalutazione della lira, a cui si accompagnò la totale subordinazione del lavoro al capitale, la situazione non migliorava, anzi, tendeva a peggiorare specie nel periodo dal 1927 al 1932.

Nel 1927 la lira aveva cessato il suo corso forzoso ed era convertibile al cambio di 19 lire per un dollaro e di 92,46 lire per una sterlina. Solo per tre anni fu possibile registrare un avanzo di bilancio, ma la circolazione dei Buoni Ordinari del Tesoro cominciò la sua pressione sulla cassa. Quindi, nel novembre 1926 fu imposto il consolidamento del debito a breve termine con l’emissione di un prestito nazionale consolidato al 5%, denominato “Prestito Littorio”; si convertivano obbligatoriamente i Buoni Ordinari del Tesoro quinquennali e settennali, con scadenza 11 novembre 1926, oltre a quelli già scaduti e non ancora presentati per l’incasso. La “manovra” faceva seguito ad una politica di deflazione, mentre i salari furono tagliati del12%. I destino della Patria lo esigevano.

Quella che in pratica fu considerata una “confisca”, costrinse lo Stato a non varare Buoni Ordinari del Tesoro per circa dieci anni, per poi mettere mano sui conti correnti del Tesoro verso la Cassa Depositi e Prestiti, verso gli Istituti di Previdenza da essa gestiti, e verso il Banco di Napoli. L’incidenza sul debito pubblico del conto corrente del Tesoro con la Cassa Depositi e Prestiti passò da meno dell’1% nel 1913 ad un massimo del 14,9% nel 1939. La percentuale della raccolta della Cassa Depositi e Prestiti aumentò dal 2% nel 1913 a più del 50% nel 1939. Il debito fluttuante crebbe in modo preoccupante. Aumentando i disavanzi nei bilanci pubblici, si arrivò a cifre negative fino ad oltre sei miliardi di lire.

Nel 1927, fu istituita la “Cassa autonoma per l’ammortamento del debito pubblico” sempre in aumento: al 1939 risultavano annullati titoli di Stato per un valore nominale di 1.850 milioni di lire.

Nel 1936 si ritornò alla richiesta presso la Banca d’Italia di anticipazioni straordinarie, garantite da speciali Buoni Ordinari del Tesoro. I possessori di beni immobili dovettero sottoscrivere una somma stabilita al 5% del valore degli immobili stessi, secondo la valutazione fiscale, naturalmente inferiore ai valori effettivi…

La Banca d’Italia concesse al Tesoro, quale istituto di emissione, anticipazioni temporanee per un importo di 360 milioni di lire nel 1927, poi di 450 milioni nel 1928. E nel 1937 si arrivò a un miliardo con decreto ministeriale del 31 dicembre 1936.

E a proposito di “politiche industriali espansive”, circolano anche oggi, da destra a sinistra e viceversa, i fantasmi – con lenzuola stracciate – di “sollecitazioni o condizionalità espansive” per stabilizzare il rapporto debiti pubblici-Pil. Ed oltre a chiamare Keynes nelle sedute spiritiche per avallare richieste di bassi tassi di interesse e politiche di deficit spending, c’è chi per avere una maggiore presenza pubblica nell’industria non vede di cattivo occhio un qualche intervento tipo IRI.. Esattamente seguendo le orme di ciò che costituì Mussolini, in qualità di Duce degli italiani tutti (bando alle divisioni in classi!): il famoso Istituto per la Ricerca Industriale, salvando allora dal fallimento i maggiori istituti di credito italiano (Banca Commerciale, Credito Italiano e Banca di Roma). E poiché la Storia (lettera maiuscola) è scuola di vita, questa sarebbe la strada segnata…

DC

(1) Secondo sia la Confindustria tedesca che quella italiana, “il settore industriale ammonta al 35% della forza lavoro in Europa. Ogni posto di lavoro nel settore industriale è collegato ad almeno due posti di lavoro di alta qualità nel settore dei servizi”. (il Sole24Ore – 4-7-2012). Poiché la concreta e reale aggiunta di valore – il plusvalore estorto alla forza-lavoro quale unico motore dell’economia capitalistica – proviene dall’impresa industriale manifatturiera, rimane da spiegare (ma è inutile aspettarsi questo dagli economisti borghesi) come si regga il Pil europeo con una percentuale del solo 15% dovuta proprio e soltanto all’industria manifatturiera. In una condizione strutturale che non riguarda solo l’Europa, poiché il modo di produzione capitalistico è dominante in ogni parte del mondo. Fino a quando reggerà questa ingannevole rappresentazione di un quadro che, nonostante l’abbondante consumo di droghe finanziarie, mostra chiaramente l’approfondirsi di incrinature devastanti e non più facilmente mistificabili?

Domenica, April 21, 2013