Primo Maggio 2013. È ora di lottare!

Contro la guerra di classe dei padroni

Siamo in piena guerra di classe, giusto, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che fa questa guerra e noi vinciamo...

spiegava Warren E. Buffet, Investmanager multimiliardario nel novembre del 2006 al New York Times. Questa affermazione è stata fatta due anni prima dello scoppio della “crisi dei subprime” che ha provocato lo scoppio della bolla finanziaria e si è portato via anche una certa consapevolezza neoliberale. Il fallimento di alcuni Istituti finanziari (chiamati con strani nomi come “Fannie Mae” o “Freddie Mac”) è stato il preludio di un grosso pasticcio. Per evitare il totale collasso del sistema finanziario sono stati varati “pacchetti di salvataggio” da miliardi con tanto di garanzie statali. Da allora i relativi “esperti in materia” hanno sempre e in vario modo spacciato la crisi per finita e superata. Previsioni che lo scorrere degli eventi ha sempre contraddetto, mentre i problemi si acutizzano. Dalla “crisi dei subprime” ha avuto origine una “crisi delle banche” e da essa una “crisi finanziaria”, trasformatasi poi in una “crisi di indebitamento degli Stati”, che rischia di far saltare l’eurozona – con incalcolabili conseguenze per l’economia mondiale. A differenza delle precedenti recessioni, la crisi non è limitata né a livello regionale né congiunturale, essa ha impregnato il sistema fino al midollo e decide delle nostre vite. Trasforma la disponibilità al lavoro in utopia, il lavoro in una ruota per criceti, l’abitare in una lotta per la sopravvivenza, il diritto alla pensione in una gara a tempo indeterminato e la ricerca del lavoro in un gioco del lotto. La crisi si è potenziata e con essa la “guerra di classe” contro i più poveri della quale parlava Warren E. Buffet. Ogni giorno la classe dominante ci fa pagare il conto dei suoi “pacchetti di salvataggio”. Un piano di tagli segue l’altro. La sua soluzione alla crisi è immaginabile e semplice ed è ovunque la stessa: tagli alle pensioni, alla scuola e ai servizi sociali, aumento dell'orario di lavoro e della fatica, paghe più basse, delocalizzazioni e lo stringere la cinghia per la nazione…

Crisi? Quale?

Crisi bancaria, crisi del debito, crisi finanziaria, crisi creditizia… esistono molti modi per denominare la miseria. Il fatto è che non siamo di fronte ad una serie di scelte aziendali sbagliate, bensì ad una crisi strutturale del sistema che si espande da decenni. Negli anni ’70, con la fine del boom economic del dopoguerra, si è consumato un ciclo di accumulazione mai visto prima. Per compensare la caduta del saggio del profitto, il capitale ha puntato allora sulla ristrutturazione dei processi produttivi (per esempio con l'introduzione del microprocessore) e su un massiccio aumento del tasso di sfruttamento. Gli impianti di produzione sono stati e vengono ancora spostati nei paesi dove i costi di produzione sono inferiori e la forza lavoro dei settori chiave dell’economia pesantemente ridotta. Attraverso la diffusione dei rapporti di lavoro flessibilizzati e precari il capitalismo ha tentato di reinventarsi come “società dei servizi”. Al contempo, il profitto estorto dal lavoro salariato è stato immesso nella sfera finanziaria, dove come per magia il denaro “lavorerebbe“ da solo (senza però creare vero valore) e dove fiorisce la speculazione. Questo tentativo del capitalismo, di contrastare la crisi tramite la creazione di valore (profitto) fittizio, ha procurato ad alcuni super-ricchi enormi guadagni, ma ha causato anche un crescente indebitamento, incredibili bolle finanziarie e una crescente instabilità. Oggi ne vediamo i risultati. Le rivalità e i conflitti interimperialistici si sono allargati. La lotta per il controllo delle zone strategiche è diventata più dura, la corsa agli armamenti e i conflitti bellici prendono forme sempre più drastiche. Sicuramente, la guerra non è la soluzione è però l’unica che il capitalismo ha da offrire per uscire da questa crisi di riciclaggio.

Paura di nessuno!

Precarizzazione, disoccupazione, povertà, fame e emarginazione diventano la quotidianità per sempre più persone. E’ la paura che domina sulla nostra vita quotidiana. Paura per il posto di lavoro, paura di restare emarginati, paura di perdere il contatto con la realtà, paura di non essere appropriati a una società che basa i rapporti tra le persone sulla concorrenza. Al posto della promessa borghese del “libertà e benessere _per tutti_”, si è fatta strada solo una disperata e vana speranza. La speranza di non essere “almeno” tra i primi a essere colpiti, la speranza che la crisi, in qualche modo, ci passi solo accanto, la speranza in soluzioni individuali, in una scappatoia anche quando si sa di essere nel torto. Questa “speranza” è irrazionale e ingannatrice, essa divide, isola e ci fa ammalare. Alcuni si rifugiano nell’alcool, nelle droghe o in uno dei molti mondi falsamente alternativi che lo spettacolo capitalista ha da proporre. Altri compensano la loro impotenza aggredendo i più deboli, seguendo in tal modo le ideologie razziste e nazionaliste di chi li governa, facendosi così difensori dell’ordine borghese. Ideologie reazionarie guadagnano terreno e tra esse il sessismo, che si manifesta quotidianamente sotto forma di violenza sulle donne, su gay e lesbiche e su tutti quelli che non si adattano alla morale sessuale dominante. Molti pensano che l’ordine borghese sia inattaccabile. Fino a questo punto la borghesia è riuscita a perfezionare i meccanismi della manipolazione, della sottomissione e dell’emarginazione! Per il mantenimento del suo dominio, la borghesia usa ogni mezzo, senza scrupoli: ha infatti molto da perdere. Noi, invece, dobbiamo imparare a superare la nostra paura, imparare ad unirci, imparare a comunicare tra di noi e a dire no!

Per l’autonomia di classe!

Il capitalismo funziona solo finché stiamo al gioco. Ma i suoi rapporti sociali sono stati creati da uomini e in quanto tali sono modificabili dalla volontà umana. Ogni lotta, ogni sciopero, anche il più limitato ed isolato, ci mostra la capacità e il potenziale che la classe proletaria nasconde, per tirare fuori dalla barbarie questa società. La borghesia lo sa fin troppo bene. Ha sviluppato un vasto repertorio di metodi per isolare, dividere e portare le lotte in vicoli ciechi, fino ad addomesticarle. Per la difesa dei nostri interessi vitali è essenziale liberarci da questa morsa, trovare modi e vie per superare le divisioni imposte, con la solidarietà e la resistenza, proprio là dove il sistema tenta di dividerci. Questo presuppone una rottura politica con il sindacato e con i partiti parlamentari, che, tutti quanti, sono integrati nella logica di questo sistema. Tutte le forze politiche che hanno detto di rappresentare i nostri diritti nei negoziati e nei compromessi con i padroni, si sono sempre dimostrati essere dei sostenitori del sistema. Noi dobbiamo cogliere la lotta dal basso, autorganizzata e contro ogni compromesso col sistema capitalista, fuori e contro la logica dei sindacale, superando le divisioni per aziende e settori produttivi, sulla base di strutture di lotta democratiche e indipendenti. Che sia in fabbrica o in ufficio, sul posto di lavoro o nel proprio quartiere, si tratta di resistere all’arroganza del capitalismo, di prendere in mano la lotta per un’altra società.

La libertà come la intendiamo noi

Nessuno dei problemi dell’umanità, dalla fame alla povertà alla distruzione dell’ecosistema sono risolvibili all’interno dell’ordine sociale borghese. Dunque, non si tratta semplicemente di rivendicare il “controllo delle banche”, “una più forte tassazione dei ricchi” o una “statalizzazione delle industrie”. Allo stesso modo, non può essere un'alternativa il capitalismo centralizzato nello stato. Le esperienze con lo stalinismo in Unione Sovietica e altrove dovrebbero averci dato dimostrazioni a sufficienza al riguardo. Senza rompere con la logica del profitto, senza privare del potere la classe dominante, senza un modo di produrre radicalmente diverso, non sarà possibile una nuova società che metta fine allo sfruttamento dell’umanità. L’unica soluzione è una società dove non si produca per il profitto, bensì per il soddisfacimento dei bisogni umani. Una società nella quale la produzione sia in armonia con l’umanità e l’ambiente. Una società nella quale i mezzi di produzione siano socializzati e non si trovino più nelle mani di capitalisti privati o statali, che si basi sull’uguaglianza sociale, dove le persone possono essere e vivere diversamente senza paura. Una tale “associazione di liberi ed eguali” non è una parata di stato. Non è una condizione o un programma che si metta in pratica per imposizione dall'alto di un partito o per decreto statale. Si può lottare per la liberazione sociale solo dal basso, con il coinvolgimento diretto di chi vuole cambiare le cose e con solidarietà, in un movimento per il cosciente ribaltamento dei rapporti di potere. Il Comunismo, come noi lo intendiamo, non è un programma di educazione sociale, bensì, nei suoi obbiettivi e sulla sua strada, una lotta per la realizzazione della libertà. Non prenderà forma da sé. Sta a noi conquistarcelo.

È tempo di organizzarsi.

Le traumatiche esperienze dello stalinismo e della socialdemocrazia hanno lasciato la loro impronta. L’amarezza e la confusione sono molto grandi. Ma coloro che vogliono superare il proprio isolamento, che si vogliono difendere dal capitalismo, devono intraprendere dei passi organizzativi, riflettere sulle debolezze individuali, imparare gli uni dagli altri. Il modello di partito monolitico stalinista, di gente che prende ordini passivamente, lo rigettiamo tanto quanto il concetto riformista di partito parlamentare, a tutti gli effetti difensore dello stato borghese. Noi siamo comunisti! Lontana da noi l’idea di nascondere il nostro modo di vedere e le nostre posizioni. Non abbiamo un modo “tattico” o strumentale nell’approccio con le persone. Rigettiamo ogni logica di delega. La T.C.I è un’organizzazione di militanti che si sono decisi a combattere a livello internazionale il capitalismo. Dibatti critici e confronti sono il nostro elemento vitale e allo stesso tempo prerogativa per raggiungere il nostro scopo. Il compito dei rivoluzionari consiste nell'avere sempre presente l’interesse generale della classe lavoratrice, nell'essere di sostegno alle sue lotte, di criticarne i limiti, nel cercare di sviluppare e rafforzare la coscienza della propria forza. Questo richiede una cornice organizzativa, strumento politico indispensabile della lotta di classe: un’organizzazione internazionalista con una struttura ed un radicamento internazionale.

Noi non diciamo di essere “il partito” e nemmeno di esserne l’unico embrione. Molto di più cerchiamo la discussione e la collaborazione con rivoluzionari seri a livello internazionale, per la costruzione di una organizzazione rivoluzionaria internazionale. Siamo coscienti che questo sarà un processo lungo e difficile. Ma è necessario per dare una risposta adeguata alla “guerra di classe” dei ricchi. È tempo di svegliarsi! È arrivata l’ora di organizzarsi! È l’ora di lottare!

Per una società senza classi ne frontiere!

Gli internazionalisti della Tendenza Comunista Internazionalista
Venerdì, April 26, 2013