Crisi finanziaria, crisi bancaria e qualcosa d’altro ancora

La ripresa non decolla. Le banche sono restie e prestare capitali. Le imprese non ristrutturano. In compenso le tasse aumentano, aumenta la politica dei sacrifici e lo Stato sociale diminuisce. Più tagli alla spesa pubblica e più tasse per il mondo del lavoro.

Non passa settimana che gli analisti borghesi non tentino di fare il punto sulla crisi. Una volta si parte dalla situazione drammatica della zona euro per arrivare alle stentate condizioni di (non) ripresa degli Usa. Un'altra si sottolinea come anche nei paesi emergenti la situazione sia peggiorata. Da qualunque parte ci si volti la crisi continua a macinare le sue devastanti conseguenze, non accenna a scomparire dalla scena del mercato internazionale, né si intravede luce nel tunnel della recessione.

Partiamo dalle dichiarazioni ufficiali e dai dati, molto spesso significativi, anche se non sempre rendono giustizia alla gravità della situazione. In una recente dichiarazione il presidente della Fed, Bernanke, ha prospettato un quadro tragico per l’economia americana. La disoccupazione non diminuisce se non nelle timide statistiche preelettorali, il Pil cresce in termini irrisori e ben al di sotto delle aspettative. L’economia reale stenta a ripartire mentre il sistema bancario è sempre sotto stress, tanto che lo stesso presidente della Fed non ha escluso un nuovo, l’ennesimo, intervento per rimettere insieme i cocci di quella che dovrebbe essere il motore propulsivo di tutta l’economia, attraverso una ulteriore iniezione di liquidità finanziaria a favore delle banche. Inoltre Bernanke denuncia come la crisi europea limiti le importazione delle merci “made in Usa” ostacolando la sua ripresa economica, mentre l’area UE accusa l’economia americana di essere l’origine e la causa della crisi internazionale e di boicottare con armi, a volte illecite, la concorrenza dell’euro sul mercato monetario internazionale. I dati: dall’agosto 2007, data d’inizio della crisi ad oggi, tutte le economie internazionali hanno visto aggravarsi in progressione le rispettive basi finanziarie e produttive, mentre le misure anticrisi adottate sono risultate drammaticamente inefficaci. Per quanto riguarda il PIL mondiale, questo è cresciuto nel 2011 ad un tasso del 3,6 per cento e il commercio del 6,1 per cento, a livelli nettamente inferiori rispetto al 2010, così come quelli del 2010 erano inferiori a quelli registrati nel 2009. E il trend di rallentamento, manifestatosi nell’ultimo periodo dello scorso anno, si è riproposto anche nei primi mesi di quest’anno, costringendo le proiezioni delle previsioni di crescita dell’economia globale per il 2012 ad un modesto 3,1 per cento e quelle del commercio mondiale al 3,4 percento. Lo stesso discorso vale per i cosiddetti paesi emergenti, Cina compresa. Le condizioni economiche generali sono molto meno favorevoli a causa di un rallentamento della domanda interna e, soprattutto di una contrazione delle esportazioni mentre anche le importazioni si sono indebolite. La produzione industriale ha rallentato negli ultimi anni e il settore manifatturiero è stato colpito da una vera e propria recessione dovuta alla mancanza di domanda esterna, tanto che il governo cinese ha dovuto fissare l’obiettivo di crescita del PIL nel 2012 al 7,5 per cento, inferiore di mezzo punto percentuale rispetto all’8 per cento dello scorso anno e nettamente al di sotto degli anni precedenti.

Anche l’area dell’euro, nel corso del 2011, ha registrato un forte indebolimento del ciclo economico, sino a registrare, nell’ultimo trimestre del 2011, una variazione congiunturale significativamente negativa del prodotto interno lordo. Secondo i dati recentemente diffusi da Eurostat, la crescita del PIL nel 2011 è risultata pari all’1,5 per cento, rispetto al già basso1,9 per cento del 2010.

In particolare, nell’ultimo trimestre del 2011 il PIL dell’area euro è diminuito in termini reali, dello 0,3 per cento rispetto al trimestre precedente, e le previsioni per la fine 2012 sono ulteriormente negative. Sempre secondo gli analisti, non ci sarebbero speranze di ripresa nemmeno per tutto il 2013. Anche per gli Usa le proiezioni non sono confortevoli. La crescita del Pil al 2,4 per cento nasconde in realtà, come denuncia lo stesso Bernanke, il rischio della recessione.

Inevitabilmente questi dati vanno correlati con quelli relativi all’andamento dell’economia reale. Nel quinquennio della crisi milioni di attività produttive e distributive hanno chiuso i battenti. In Europa, Giappone, Usa e Cina il fallimento di imprese piccole e medie ha innescato il tragico fenomeno sociale della disoccupazione di massa.

In Europa la disoccupazione media è dell’11,3 per cento pari a 25 milioni di senza lavoro. In realtà il dato è errato per difetto perché non tiene conto di chi, pur disoccupato, non si iscrive più alle liste di collocamento perché ha perso ogni speranza, altrimenti la percentuale salirebbe al 15/16 per cento come minimo. In aggiunta, la crisi ha prodotto 110 milioni di persone che vivono attorno e al di sotto della soglia di povertà. Lo stesso dicasi per la realtà americana. Il dato ufficiale è fermo al 9,1 per cento, ma per il Bureau of Labor Statistic e per la Shadow Governament Statistic, il dato reale sarebbe del 23,1 per cento. La differenza come al solito sta nel metodo di analisi del campione preso in considerazione. Il campione può rappresentare la disoccupazione ristretta, cioè riferita ad una parte della popolazione attiva in cerca di lavoro, ma il campione può prendere in considerazione una fetta di popolazione più ampia che comprende gli scoraggiati a breve termine, i lavoratori a part time o, nel terzo caso, tutti gli scoraggiati di lungo periodo che non hanno più possibilità di rientrare nel meccanismo produttivo. Una forza lavoro emarginata, senza concrete speranze di impiego, nemmeno a lungo termine. Nel primo caso la disoccupazione sarebbe al 9,1 per cento. Nel secondo si salirebbe al 16,5 per cento, nel terzo al 23,1 per cento. Nella prima ipotesi saremmo già in presenza di un dato fortemente allarmante, nella seconda addirittura tragico, nella terza saremmo sull’orlo della catastrofe.

In Cina, dove l’incremento del Pil si è dimezzato rispetto a qualche anno fa, la disoccupazione veleggia a ritmi elevati. 20 milioni di lavoratori, ex contadini richiamati nelle città industriali negli ultimi due decenni, dopo essere stati sfruttati come raramente può capitare in un capitalismo moderno, sono stati espulsi dalle fabbriche (settore industriale e manifatturiero), andando ad ingrossare l’esercito dei disoccupati che è arrivato al 20 per cento della forza lavoro. Chi è rimasto in fabbrica ha visto il suo salario scendere da un già misero 240 euro al mese a 40 euro al mese, ovvero, anche per chi lavora, l’unica cosa certa è la fame e la miseria, anche se, negli ultimi mesi, in alcune fabbriche, la lotta rivendicativa ha sortito qualche effetto positivo. Nonostante le esibizioni muscolari della Merkel, nemmeno la locomotiva d’Europa se la passa bene. Nell’ultimo trimestre del 2012 la produzione industriale è diminuita del 9 per cento. Le esportazioni pur conferendo alla bilancia dei pagamenti con l’estero un saldo positivo, sono diminuite del 5 per cento. La disoccupazione ufficiale è del 6,8 per cento, dato di per sé non preoccupante, ma comunque significativo di una situazione occupazionale pesante anche se inferiore alla media europea. Ma a questo dato di circa 4 milioni di disoccupati ufficiali vanno aggiunti altri 5 milioni di precari che lavorano con contratti brevissimi, i “mini jobs” a tempo determinato con salari che non superano i 400 euro mensili e, nei casi estremi, con una paga oraria di 3/4 euro. Il tutto a “prendere o lasciare” perché chi si rifiutasse di sottostare a simili contratti uscirebbe dalle graduatorie di assunzione, perderebbe ogni diritto a essere riconvocato e verrebbe cancellato persino dalle statistiche dei disoccupati di lungo periodo. Complessivamente i precari regolarmente registrati come tali sono 7 milioni con un incremento, nel solo 2012, del 173 per cento.

Su di una popolazione di 87 milioni di abitanti, 12 milioni vivono sotto la soglia di povertà, così come un lavoratore su cinque non è in grado di arrivare con il suo salario alla fine del mese.

Per avere un quadro più completo della gravità della crisi occorrerebbe elencare i numeri relativi alla recessione paese per paese. Bisognerebbe elencare i disastri delle maggiori economie gravate dal debito pubblico, le battaglie speculative sui titoli di Stato, il rischio di fallimento di intere economie nazionali: non si pensi soltanto alla Grecia e alla Spagna, perché un terzo degli Stati federali degli Stati Uniti si trova in situazioni simili. L’elenco è lungo e merita un commento a parte. Qui vogliamo soltanto mettere in evidenza le ragioni del perdurare della crisi a partire dalla questione finanziaria per arrivare alla recessione nel mondo dell’economia reale e ritorno, anche se il percorso più corretto sarebbe l’inverso, ma di questo abbiamo già trattato in precedenti articoli.

Dal crack delle speculazioni bancarie al perdurare della crisi finanziaria

Partiamo dalla crisi delle banche, del sistema creditizio, solo perché di questo si sta trattando attualmente. La Fed come la Bce e il Fmi, ognuno per la sua sfera d’influenza, hanno letteralmente inondato con migliaia di miliardi di dollari e di euro il sistema creditizio internazionale. In soli tre anni la Fed ha erogato 7,700 mila miliardi di dollari, 2 mila miliardi di euro la Bce. Hanno imposto la nazionalizzazione delle maggiori banche nazionali (troppo grandi per lasciarle fallire), erogato prestiti a tassi d’interesse bassissimi, coperto le maggiori sofferenze dovute alla speculazione selvaggia. Il tutto per evitare che il sistema finanziario e creditizio crollasse completamente, per tamponare le falle più grandi ma, soprattutto, per rimettere in condizioni di operatività (questa la speranza) il motore primo di tutto l’impianto capitalistico, il credito di capitali all’economia reale, senza il quale le attività imprenditoriali, già pesantemente penalizzate dalla crisi dei profitti, non potrebbero rialzare la testa, riprendere a pieno ritmo il processo di sfruttamento della forza lavoro e di valorizzazione del capitale stesso. Risultato zero, o quasi.

In questa fase della congiuntura economica perdurano una serie di fattori che rendono la ripresa difficile, come rendono complesso e contraddittorio il rapporto tra banche e imprese, tra il mondo del capitale e quello della produzione.

Partiamo dal comportamento delle banche. Nell’arco di quasi cinque anni le banche (parliamo di quelle europee e americane) si sono giovate di una valanga di soldi piovuti dall’alto, dalle rispettive Banche centrali e dal Fmi. Come al solito le cifre non sono chiare e la contabilità non è trasparente, soprattutto per quanto riguarda l’esborso della Fed a favore dei maggiori istituti di credito americani. Secondo le dichiarazioni ufficiali, come abbiamo già citato, la Bce ha erogato due mila miliardi di euro, la Fed sette mila e settecento, con buona pace dei contribuenti europei e americani. Secondo i calcoli dell’economista Stigliz l’esborso sarebbe di un 30% in più. Comunque sia di questa enorme massa di liquidità le banche hanno usufruito per leccarsi le ferite procurate dalla crisi dei subprime, per sanare i loro bilanci, per uscire da una serie di sofferenze dovute al facile credito praticato nei periodi precedenti, ma si sono ben guardate dal riprendere quel ruolo di finanziatrici dell’economia che la “deontologia” del capitalismo imporrebbe. Come se nulla fosse hanno continuato ad agire prevalentemente nella sfera della speculazione finanziaria riducendo al minimo il loro ruolo di bombola d’ossigeno per l’asfittica economia reale. Crediti pochi, dati con il contagocce e a tassi d’interesse molto elevati nonostante il basso costo del denaro.

Le piccole e medie banche già “penalizzate” dalla crescente difficoltà a reperire capitali attraverso la raccolta – il risparmio infatti nei paesi a capitalismo avanzato è ormai vicino allo zero – continuano a trovarsi in difficoltà. Il consumo si è ridotto di tre, quattro punti percentuali, il mercato dei mutui rallenta a causa degli alti tassi di interesse e, per i bassi redditi, le imprese non investono e quando lo fanno le stesse banche non si fidano dei piani industriali ed erogano pochi prestiti a tassi molto alti, spesso insostenibili per le aziende. Ecco perché la vecchia e dissestata via della speculazione rimane una “possibilità” di percorso per il mondo finanziario. Fatta di necessità virtù, la crisi ha affinato le scelte di intervento della speculazione. Ieri i terreni preferenziali erano, e continuano ad essere, quelli del gioco in Borsa sui derivati, sul mercato delle divise, su quello dei metalli preziosi: oro, platino, ma non solo, sui Futures delle materie prime ed alimentari. Petrolio e gas, ma anche grano, soia, caffè, con il risultato di elevare il prezzo dei costi energetici, delle derrate alimentari e di affamare milioni di consumatori. Oggi, più di prima, si specula anche sui titoli di Stato, sui debiti sovrani, sui derivati assicurativi delle stesse operazioni speculative. Il gioco è talmente isterico e violento che non vengono risparmiati metodi poco corretti, se non addirittura delinquenziali.

Un esempio tra i tanti è fornito dal comportamento della più grossa banca inglese, la Barclays, attualmente sotto inchiesta dagli organismi di vigilanza internazionali, sul terreno dei prestiti interbancari a breve termine. Questi interessi (Libor per la versione finanziaria anglosassone, Euribor per quella europea) la cui procedura di determinazione è controllata dalla Associazione bancaria britannica e da quella europea, consentono ad una banca di ricevere prestiti da altre banche per lassi di tempo brevi senza nessuna garanzia in cambio. Il colosso bancario britannico – ma non è l’unico ad aver operato in questo senso, almeno altre dodici banche sono finite nel mirino degli inquirenti – è accusato di aver manipolato il processo di formazione del tasso di interesse interbancario, ovviamente a suo favore. Il “giochino” di manipolare il tasso, magari soltanto di un centesimo per “punto base”, su di un parco di derivati pari a 500 milioni di sterline, consentiva un guadagno netto di due milioni di sterline e questo non “una tantum” ma per anni: almeno dal 2008. Il tutto alla faccia delle banche più piccole, dei loro risparmiatori e delle regole del gioco. Una speculazione che va al di là delle normative legislative che lo stesso capitale si da, una speculazione ai limiti della pirateria finanziaria. E speculazione oggi vuol dire anche moltiplicare le operazioni allo scoperto, cioè senza avere il possesso dei titoli che si intendono vendere. Vuol dire comprare titoli di Stato a poco prezzo e ad alti tassi d’interesse, giovandosi della normativa europea in base alla quale le banche possono ricevere prestiti solo a condizione di comprare i titoli di Stato, il che consente loro di avere consistenti finanziamenti a basso costo e di poter lucrare sugli alti interessi senza che un centesimo vada verso l’economia reale.

Il delirio della speculazione non finisce qui. Questa volta è il caso della Deutsche Bank che in termini di assoluta correttezza formale ha speculato sui titoli di stato italiani. Secondo le indagini del Financial Time, l’11 giugno del 2011 il colosso tedesco ha venduto improvvisamente, e tutto di un colpo, i sette ottavi dei Btp in suo possesso, per la somma di sette miliardi di euro, con un primo risultato di far perdere sul mercato di Londra ben dieci punti al valore dei titoli italiani, e con la seconda conseguenza di elevarne i tassi d’interesse e con un corrispettivo aumento del debito pubblico da parte del paese erogatore.

Sin qui nulla di strano per le dinamiche perverse del capitalismo se non fosse che una simile operazione ha avuto come effetto collaterale quello di incrementare il valore dei Cds (derivati che assicurano contro il rischio di insolvenza da parte di chi emette titoli di Stato o di perdita di valore dei titoli stessi). Si dà il caso che la Deutsche Bank detenesse una quota parte rilevante di questi derivati e che l’operazione le abbia consentito di lucrare non poco a spese dello Stato italiano e del suo debito pubblico. L’operazione della banca tedesca nei confronti dei Btp italiani fa il paio con l’operato della di Goldman Sachs riguardo la Grecia, e più in generale dei più potenti istituti di credito internazionali nei confronti delle economie più deboli. Anche nell’ambito degli scambi interbancari, il gioco si fa sporco. Le banche di piccole dimensioni, pur di avere a disposizione un minimo di liquidità, sono costrette a subire il ricatto delle banche più forti che impongono tassi “taroccati” e l’acquisto di prodotti derivati a prezzi d’usura. Le varie tipologie speculative, tradizionali e innovative, regolari o fraudolente, hanno consentito ai colossi della finanza come Goldman Sachs di realizzare nel secondo trimestre del 2012 un utile netto di 962 milioni. La quotazione delle azioni è arrivata a 1,78 dollari, ben superiore agli 1,17 dollari che più prudentemente gli analisti si aspettavano. La stessa cosa vale per Citigroup, che ha registrato nei primi 6 mesi del 2012 un utile netto di 2,9 miliardi di dollari, cioè 2,38 miliardi di euro. Sul fronte europeo le grandi banche, pur avendo realizzato buoni utili, non sono arrivate ai livelli delle consorelle americane. I dati relativi al primo trimestre 2012 di Barclays, di Deutsche Bank, per citare le più importanti, hanno infatti registrato “soltanto” utili da 2 milioni di euro nel solo secondo trimestre del 2012, sempre senza passare dagli investimenti produttivi che, al momento non sono nel loro Odg, se non per prestiti di ordinaria amministrazione.

Mentre l’economia reale boccheggia, i giganti della finanza, dopo essersi spartiti migliaia di miliardi di dollari e di euro, a tassi d’interesse bassissimi, li hanno investiti speculativamente aggiornando o potenziando le loro attività speculative con strumenti finanziari adeguati all’evolversi della crisi. Nel bel mezzo dello sconquasso dei debiti sovrani, dove la volatilità dei tassi è molto alta e oggetto di “grandi manovre”, la speculazione si è adeguatamente attrezzata mettendo sul mercato una serie di derivati che coprono i rischi di tali “grandi manovre”. Uno è l’interest rate swap, un derivato che va a coprire le perdite o i mancati guadagni sui titoli pubblici emessi dalle Banche centrali di paesi a rischio. Più i paesi a economia debole emettono i propri titoli di Stato a tassi d’interesse fissi, ma di asta in asta sempre più elevati, più chi opera su questo mercato si tutela dai possibili mancati guadagni attraverso una sorta di assicurazione che diventa, a sua volta, un derivato del titolo emesso. Il derivato “assicurativo” svolge la sua funzione anche in senso opposto, quando, cioè, i titolo di Stato diminuiscono i loro interessi mettendo in difficoltà l’azione speculativa. Lo stesso meccanismo lo si può applicare alla volatilità del mercato dei cambi. Il derivato in questione, l’exchange rate swap, funziona come il precedente, solo che è applicato ai valori di cambio tra le divise più importanti quali il dollaro, l’euro, lo yen e lo yuan. L’exchange rate swap non è certamente nuovo, ma la sua rivalutazione e diffusione è intimamente legata alle attuali violente fluttuazioni sul mercato valutario.

In sintesi abbiamo che gli Stati si indebitano per dare liquidità alla banche. Le banche si indebitano con lo Stato per sanare le loro sofferenze e concentrano la loro attività sull’acquisto di titoli di Stato dando vita a un circolo vizioso dal quale è difficile uscire. Da un punto di vista capitalistico, pur con tutte le contraddizioni del caso, la manovra avrebbe un senso se i due indebitamenti, quello degli Stati che emettono titoli pubblici per finanziarsi, e quello delle banche che ricevono liquidità dallo Stato, avessero come primario obiettivo quello di rimettere in moto, attraverso investimenti produttivi, la macchina di estorsione del plusvalore, cioè la creazione di nuovo valore reale e non di quello fittizio che deriva dalla enorme massa di operazioni speculative. Ma se il processo del doppio indebitamento si ferma al secondo passaggio perché le banche rimangono prevalentemente sul terreno della speculazione – sul quale sono state “costrette” dalle difficoltà di ottenere remunerativi profitti prestando capitali all’economia reale – il cerchio non si chiude e l’economia mondiale rimane in una prolungata “impasse” come sta avvenendo da quasi cinque anni a questa parte. Ma chiedere al capitalismo un comportamento diverso, chiedergli di rinunciare ai momentanei vantaggi della speculazione, di non accumulare, addirittura di aumentare la produttività del lavoro tenendo conto delle necessità di consumo degli stessi lavoratori, o di perseguire la valorizzazione del capitale con meno avidità, di realizzare profitti “meno esosi” e magari di ridistribuire socialmente una parte degli stessi profitti, come qualche allocco teorizza, sarebbe come pretendere da una leone affamato di risparmiare sofferenze ad una povera antilope. Darwinismo delle savane a parte, questa è materia per il più ottuso dei riformismi che pensa di risolvere le crisi chiedendo al capitalismo un comportamento a-capitalistico. È come pretendere di agire sulle devastanti conseguenze della crisi senza intaccare i rapporti di produzione che li determinano, è come tentare di risolvere i problemi operando sugli effetti senza eliminare le cause, cioè lasciando in piedi il capitalismo stesso con tutte le sue contraddizioni. Solo una drastica distruzione di capitale fittizio e di capitale reale sotto forma di merci e di beni strumentali può ricreare le condizioni per una ripresa del ciclo di accumulazione. Distruggere per rilanciare la macchina dei profitti, con le buone o con le cattive, con un selvaggio sfruttamento della forza lavoro o con una “salvifica” guerra di devastazione generalizzata, ai fini di una ripresa dell’economica che altrimenti rischierebbe di continuare a rimanere nell’attuale stallo.

Le imprese non stanno meglio

Sul fronte dell’economia reale lo stallo è lo stesso e identiche sono le conseguenze. La macchina produttiva è ferma, i segni della ripresa sono lontani. Anche le economie più forti rallentano la loro capacità di produrre ricchezza (Cina e Brasile in testa), la Germania galleggia a ritmi bassi e gli Usa stentano a decollare mentre per il resto del mondo capitalistico è la tragedia. Pur avendolo noi ripetuto ossessivamente come un mantra, vale la pena ricordare che la crisi, scoppiata nel settore finanziario, ha avuto le sue origini proprio all’interno dei meccanismi di valorizzazione del capitale. Le sempre crescenti difficoltà a realizzare saggi del profitto sufficientemente remunerativi per i capitali investiti nell’economia reale, hanno costretto quota parte degli stessi a rincorrere il miraggio della finanziarizzazione delle crisi, della speculazione, dando vita a enormi volumi di capitale fittizio che, una volta esplosi sotto la forma di bolle finanziarie, sono ricaduti su quella economia reale che li aveva partoriti, deprimendo ulteriormente le capacità di valorizzazione del capitale produttivo stesso. Negli anni che hanno immediatamente preceduto lo scoppio della crisi, le imprese (salvo rare eccezioni, e il discorso vale soprattutto per le grandi major americane, giapponesi ed europee), per contrastare una linea di tendenza che vedeva i loro saggi del profitto decrescere progressivamente, sono ricorse alla finanziarizzazione della loro crisi. Invece che investire produttivamente, di stanziare fondi nella ricerca, di aumentare e migliorare il loro livello di competitività sul mercato internazionale, hanno partecipato sempre più alle attività speculative affiancandosi ai tradizionali Istituti finanziari che della speculazione hanno sempre fatto il loro privilegiato terreno d’intervento economico. Non solo, molte di queste major, nei settori più disparati dell’economia reale, dal manifatturiero al siderurgico, dalla cantieristica al settore automobilistico, si sono dotate di proprie finanziarie o, se già le avevano le hanno potenziate, stornando capitali dal settore produttivo a favore di quello speculativo nell’illusione di superare con le plusvalenze la crisi dei profitti. Oggi le cose non sono cambiate se non in peggio. Gli istituti di credito continuano nella loro politica di “non intervento” nell’economia, se non con il contagocce e a tassi di interessi insostenibili per le imprese nonostante il basso costo del danaro all’origine. Poi ci sono le imprese. Ad esempio in Italia, ma non soltanto, perché il fenomeno si sta riproponendo in Grecia, Spagna e più in generale nei paesi a maggiore sofferenza economica, le uniche richieste di danaro da parte delle piccole imprese verso le banche riguardano la necessità delle prime di sostenere l’elevato livello dell’aumentata tassazione. Poco o nulla va agli investimenti, il Pil crolla e la disoccupazione aumenta. Le grandi e medie imprese non investono, o investono poco, anche perché sono strette nella morsa rappresentata dalla necessità di pagare i fornitori e di non ricevere i pagamenti da parte dei clienti che, molto spesso, sono le amministrazioni pubbliche, se non lo Stato stesso.

Travolte dalla crisi che loro stesse hanno contribuito a generare, le imprese continuano a proporsi più sul terreno della speculazione che su quello del rilancio produttivo. I loro quartieri generali e i loro consigli di amministrazione spingono, e sono contemporaneamente sollecitati dagli organismi dei rispettivi Stati, dalla Bce per il caso europeo, ad acquistare titoli di Stato. La stessa situazione si verifica anche negli Usa, inibendo così la ripresa e favorendo l’inasprimento di quella recessione economica, che per altri versi paventano, e dalla quale vorrebbero uscire invocando gli aiuti statali sotto forma di sgravi fiscali, di finanziamenti a basso costo e di maggiore mano libera sulla ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro. Vie d’uscita? Poche. Mentre i cosiddetti mercati continuano a stazionare sul terreno della speculazione, l’economia reale a latitare e, contemporaneamente, a fare la sua parte sullo stesso binario, in campo borghese ci si arrovella su come sia stato possibile un evento così catastrofico. Le analisi con relative profilassi oscillano tra i due soliti poli: crisi da sovrapproduzione e crisi da sottoconsumo. Nel primo caso, oltrepassando a piè pari le cause e il significato economico dell’aspetto finanziario della crisi, si recita la solita litania secondo la quale si sarebbe prodotto troppo sia in termini di merci che in termini di capitali, provocando sul mercato l’inevitabile ingorgo tra domanda e offerta. Nel secondo, sempre lasciando stare le recondite ragioni che hanno posto in essere la crisi finanziaria, se non per denunciare la malefatte di un pugno di finanzierei che sarebbero responsabili dell’enorme crisi, si è ritenuto di individuare nello scarso consumo di beni e servizi l’ostacolo da superare per rimettere in equilibrio l’intero sistema. Posizioni trite e ritrite anche nel campo di quella sedicente sinistra che, citando a sproposito Marx, confonde gli effetti con le cause, contribuendo a rendere opaco qualsiasi approccio alla chiarezza analitica di questo devastante fenomeno. Sovrapproduzione e sottoconsumo, che altro non sarebbero nella testa di questi analisti, le cause su cui intervenire per eliminarne gli effetti, in realtà sono le due facce della stessa medaglia. Non è che si sia prodotto troppo in termini assoluti, ma si è prodotto troppo in termini capitalistici, ovvero troppe merci e servizi a prezzi troppo alti per garantire una adeguata remunerazione per il capitale investito, ma incompatibili con le sempre più deboli possibilità economiche della domanda. Così, anche se in termini rovesciati, è il significato di sottoconsumo. Non è che la domanda non si sia proposta sul mercato perché ha nascosto parte dei suoi redditi sotto il materasso, penalizzando così l’offerta, ma semplicemente perché il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi della stragrande maggioranza delle masse è così diminuito da non poter accedere ai consumi con l’intensità precedente. Sfugge completamente alla loro attenzione che la crisi da basso saggio del profitto, vera e propria struttura portante delle attuali devastazioni economiche e finanziarie, non solo ha favorito la speculazione sino a farla esplodere, ma ha anche ingigantito le “tradizionali” crisi di mercato conferendo loro, però, una intensità e una profondità che “tradizionali” non sono.

Alla domanda che oggi frequentemente si pone – chi paga la crisi? – la ovvia risposta è, come sempre, il mondo del lavoro. Le variegate politiche del T&T, ovvero dei tagli e delle tasse, attraversano l’intera economia internazionale. Tagli allo Stato sociale ossia meno servizi a prezzi più alti che, tradotto in termini semplici, rappresentano una decurtazione del salario indiretto e differito. Tagli ai salari reali, quelli che si percepiscono in busta paga quando si ha la “fortuna” di avere un posto di lavoro. Più sfruttamento per chi lavora e meno sussidi per chi è disoccupato. Tasse sempre più insostenibili sulla produzione, sui salari e sulle pensioni. Tasse sui servizi e sui beni di consumo che inducono una miseria sociale ai limiti della sopravvivenza. Qualcuno ha persino proposto l’introduzione di tasse sulle transazioni finanziarie, la Tobin Tax, più per calmare le acque che per penalizzare la speculazione o fare cassa. Ma anche se la norma dovesse entrare in funzione (si prevede un insignificante 0,03% di tassazione) saremmo sempre molto lontani dall’aumento della tassazione che subisce il mondo del lavoro e, mai e poi mai, si applicherebbe agli atti di compra- vendita dei titoli di Stato. Il che starebbe a significare soltanto che la speculazione continuerebbe imperterrita il suo cammino, perché appena sfiorata dall’ipotetica manovra, e che, al massimo, si sposterebbe in parte dal mercato dei derivati per intasare ulteriormente quello obbligazionario dei Bond. Nell’ambito del vetusto riformismo e di quello radicale si confezionano ricette sul come e sul chi la crisi la deve pagare. Il riformismo vetusto, tutto intento a salvare la sconquassata baracca del capitalismo, conscio della necessità di operare all’interno delle ristrette compatibilità del sistema, dichiara che a tutti tocca rimboccarsi le maniche, compreso il mondo del lavoro che farà sino in fondo la sua parte, ma che anche le altre componenti sociali devono fare la loro. Sacrifici sì, ma “equamente” distribuiti, perché la barca è la stessa e tutti devono contribuire al suo galleggiamento, pena il soccombere assieme nelle acque tempestose della crisi. Quello radicale che, a parole, si colloca al di là delle compatibilità, ma sempre dentro il sistema, vagheggia in difesa dei più deboli strategie di intervento dello Stato nell’economia, lancia anatemi contro il capitale e le sue contraddizioni, ma non muove un dito per un'alternativa economica e sociale al capitalismo.

Al fondo della questione c’è la solita, atavica, alternativa: o si lavora politicamente per salvare il capitalismo dalla sua crisi, facendola pagare al proletariato, perché altre alternative, guerra a parte, non ci sono. E allora ci si colloca all’interno delle improrogabili necessità del capitale per consentirgli di ritornare ad essere la mostruosa macchina che produce sfruttamento e plusvalore, fame e miseria, fingendo magari di salvaguardare ciò che in realtà salvaguardabile non è, cioè un minimo di difesa degli interessi dei lavoratori. O si lavora contro il capitalismo, affinché la sua crisi, con i suoi corollari di miseria e sfruttamento, sia anche il suo epitaffio e non la condizione per una sua ripresa economica a costi di macelleria sociale, come sta già avvenendo tra i paesi più deboli dello schieramento capitalistico europeo e non solo.

Il capitalismo non si estingue da solo, occorre dargli una mano perché il processo che porta alla sua eliminazione sia una realtà. In caso contrario troverebbe le sue via d’uscita: sia con l’attacco a 360 gradi nei confronti del proletariato, sia con la distruzione di beni capitali, la quale non può che passare attraverso l’unico mezzo che la ferocia dei mezzi produzione capitalistici conosce: la guerra. Ciò non sta necessariamente a significare che siamo alle soglie di un terzo conflitto mondiale, ma che l’opzione guerra, feroce e generalizzata, non è così lontana. La stessa crisi del 1929-33, che sembrava essere superata dal New Deal, dall’intervento dello Stato nell’economia per sorreggerla e portarla con mano sicura fuori dalle secche della recessione, in realtà ha portato allo sfracello materiale e umano della seconda guerra mondiale. Se non vogliamo che la storia si ripeta, pur nelle debite differenze di maturazione delle contraddizioni del moderno capitalismo, occorre che il dilemma di chi paga la crisi si trasformi nell’univoca convinzione che la crisi non si paga, ma che deve diventare il trampolino di lancio della ripresa della lotta di classe contro il capitalismo e le sue devastanti conseguenze.

Fabio Damen
Martedì, November 20, 2012

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.