Piccola borghesia in crisi - Tra declassamento sociale, “marcette” su Roma e presidi “santi”

La “marcetta” su Roma di Piazza del Popolo del 18 dicembre e il presidio di Piazza S. Pietro del 22 segnano – al di là degli intendimenti degli organizzatori, delle diverse opzioni e “varianti tattiche” da questi proposte – la parabola del “movimento dei forconi”, iniziato il 9 dicembre avendo come epicentro quella giornata la città di Torino. Se mettiamo a confronto i proclami iniziali con i risultati ottenuti, non possiamo non rilevare che l’esito di questo movimento è stato oggettivamente fallimentare. L’intento infatti era di dare una prospettiva alla protesta, ovvero far pesare gli interessi degli strati di piccola borghesia che si erano messi in movimento, fornendo una cornice organizzativa.

Il divario tra intenti iniziali ed esito finale è da ricondursi ad una molteplicità di ragioni. La principale è la debolezza, e insieme la “velleità”, del contenuto della protesta, del suo “programma”, se di programma si può parlare. Questa protesta ha espresso l'insofferenza degli strati sociali di piccola borghesia colpiti dalla crisi. I diversi settori della piccola borghesia che hanno animato la protesta hanno trovato il collante nella critica al governo e alle “politiche dell'Europa”, proponendo la “difesa dell’interesse nazionale” quale risposta ai propri problemi. Cosa ciò significhi in realtà lo vedremo più avanti (1).

La crisi capitalistica ha macinato anche nel corpo della piccola borghesia. Tra il primo trimestre 2009 e il terzo trimestre 2013 hanno chiuso 16 mila imprese nel settore dell'autotrasporto (-14,7%), i lavoratori autonomi sono calati di ben il 7% (-345mila unità tra commercio, agricoltura e artigianato), la peggio l’hanno avuta gli artigiani con un -9,6%. Le partite IVA sono calate complessivamente di 565mila unità (2), l'accesso al credito bancario è praticamente bloccato e il peso fiscale si aggira intorno al 50% (3).

Una piccola borghesia, numericamente consistente nel nostro paese (fattore questo legato alle caratteristiche del tessuto produttivo italiano), aveva trovato nel tempo la corrispondenza dei propri interessi con quelli della grande borghesia, costituendo fra l'altro un bacino elettorale estremamente appetibile per chiunque si ponesse nell'agone politico borghese. Con l'esplodere della crisi capitalistica l’equilibrio tra gli interessi economici piccolo borghesi e quelli del grande capitale si è rotto ed anche sul piano della rappresentanza politica istituzionale gli strati sociali piccolo borghesi hanno gradualmente visto calare il proprio peso effettivo nel quadro decisionale; che comunque non è mai stato determinante, ma subordinato a quello della grande borghesia.

Sono due le dinamiche che si sono intrecciate. La prima: i processi di ristrutturazione e di delocalizzazione produttiva della grande impresa hanno determinato negli ultimi anni una progressiva restrizione della base produttiva destinata all'indotto e ai servizi di supporto, scompaginando gli assetti produttivi precedenti con conseguenze sugli strati sociali piccolo borghesi cresciuti all'ombra dei grandi agglomerati produttivi presenti nelle aree industriali del paese (4). C’è da dire che questi settori economici, che fanno capo alla piccola borghesia, avevano invece supportato la prima fase della ristrutturazione industriale, accompagnando il processo di segmentazione ed esternalizzazione di momenti del ciclo produttivo afferenti alla grande impresa. Per diversi strati della piccola borghesia quindi la crisi ha comportato il misurarsi con una nuova condizione: restrizione della base produttiva e un innalzamento dei livelli di concorrenza. La dimensione di micro o piccola impresa non si è dimostrata in grado di reggere la competizione, scomparendo nei flutti inesorabili del fiume della crisi.

La seconda è rappresentata dalla difficoltà incontrata da parte della piccola borghesia a ridefinire i propri interessi intorno a quelli, centrali, della grande borghesia, la quale è chiamata a rispondere alle impellenze della crisi sul terreno definito dalle esigenze del grande capitale che segnano la fase imperialista odierna. Risposte che hanno il loro cuore nei processi di concentrazione e centralizzazione capitalistica e che vedono tutti i paesi dell’Europa – pur con diverso grado gerarchico – partecipare alla complicata costruzione e al rafforzamento del polo imperialista europeo, quale risposta borghese alla crisi medesima e ai livelli di concorrenza che corrispondono a livello internazionale.

Quindi la parabola della piccola borghesia va letta all'interno di questo contesto complessivo. La crisi di questi strati sociali non solo è storica – ovvero legata alla natura socioeconomica di questo ceto e alle proprie debolezze – ma si presenta come organica se riferita specificatamente ai passaggi della crisi, ai processi di declassamento sociale e di proletarizzazione.

Tipico degli strati sociali della piccola borghesia è il loro avanzare con la testa girata all'indietro, le proprie risposte rimandano ad un tempo che non tornerà più, assumendo appunto la forma di programma velleitario. Come dicevamo la protesta si è legata alla parola d'ordine dell' “interesse nazionale” contrapposto alla “casta politica italiana ed europea”. Se da un lato ciò rappresenta un tentativo di risposta, tutto sommato “difensiva”, alle dinamiche che sopra si accennavano, nella sostanza essa va intesa (5) come richiesta di “intervento statale” nei processi economici del tessuto produttivo italiano, a difesa dalla concorrenza, per la ridistribuzione dei costi dei sacrifici. Una richiesta che – insieme l'altra parola d'ordine “siamo tutti italiani” – nasconde la volontà di difendere gli interessi economici di questi strati sociali auspicando una riedizione dello Stato corporativo ante-litteram.

Nello specifico, questo approccio è figlio della posizione ricoperta dalle frange di piccola borghesia protagoniste della protesa e dei propri legami politici con gli ambiti della destra, istituzionale e non. Non è un caso che su queste posizioni si siano ritrovati settori politici e dell'apparato statale oggi in sofferenza o messi ai margini dalla linea “europeista”, influenzando non poco la spinta e l'organizzazione della protesta. Se gli strati della piccola borghesia hanno costituito la maggioranza della base sociale della protesta la destra politica, o esplicitamente neofascista, ne ha costituito l'ossatura organizzativa, orientandola verso la “radicalizzazione populista”, così come avvenuto in altri paesi europei.

Il carattere di semplice reazione sociale, attivistica e protestataria, la mancanza di una linea rivendicativa chiara (6) – a differenza del movimento dei forconi siciliani del 2012 – , il quadro frastagliato delle figure presenti, la “debolezza” degli interlocutori politici che pur avevano soffiato sul fuoco, la “pressione dissuasiva e di convincimento” iniziata alla prima ora della protesta delle forze politiche dominanti, hanno di fatto indebolito la possibilità di ricondurre la protesta su un disegno unificante che andasse oltre alla manifestazione del proprio disagio sociale. Le contorsioni dei vari “capipopolo”, le loro magre figure nelle mobilitazioni organizzate, altrettanto magre, rispecchiano il riflettersi di questa condizione politica.

Questo il dato del momento. Sappiamo che i processi di riposizionamento di classe indotti dalla crisi continueranno a lavorare e che la piccola borghesia non è esente da questo movimento. Come internazionalisti giudichiamo l'espressione politica del “nazionalismo” alla stessa stregua del “riformismo democratico”. A tutte queste forme ideologiche che celano i rapporti di sfruttamento e della dittatura della borghesia noi opponiamo gli interessi generali ed indipendenti del proletariato. All' “unità di classi” sbandierata dai piccolo borghesi per salvare se stessi e il sistema capitalista noi opponiamo l'unità e la centralità della classe proletaria e la lotta di classe contro classe. Al “ritorno ad una dimensione nazionale” noi opponiamo la dimensione internazionale ed internazionalista della lotta corrispondente ai compiti che la fase imperialista ci pone, l'unità internazionale del proletariato, la presa proletaria del potere per il Socialismo, la costruzione del partito comunista su scala internazionale.

EG

(1) Riflettendo lo “spirito dei tempi”, questi strati sociali hanno fatto propria la critica “istintiva” al sistema, che oggi pare abbracciare milioni di persone, fino a farsi luogo comune. Un critica che non solo è parziale ma il suo emergere è sempre mediato e in stretta relazione agli interessi della classe di appartenenza che sono il vero motore del muoversi delle stesse o di loro strati particolari, in una condizione storicamente determinata, sia in campo economico e sociale che delle relazioni politiche. Sono i passaggi della crisi capitalistica che stanno facendo emergere tutto il quadro delle contraddizioni nei rapporti fra le classi e dentro le medesime, rispetto alla fase precedente e ai diversi interessi in campo.

(2) Questo dato andrebbe disaggregato e depurato di tutti quei lavoratori ex salariati, che per ricollocarsi nel mercato del lavoro hanno aperto la partita IVA, ma la loro posizione reale spesso è quella del lavoro subordinato e con tassi di sfruttamento peggiori delle condizioni lasciate in precedenza.

(3) Fin qui i dati ufficiali forniti dalle associazioni di categoria (CGIA di Mestre).

(4) Il tutto accompagnato da tassi di sfruttamento della forza lavoro estremamente intensi, con politiche laissez-faire rispetto ai vincoli legislativi formali dello stesso stato borghese, fino al loro aggiramento in termini di materia fiscale e con un accesso al credito relativamente semplice.

(5) Per non incorrere in malintesi che hanno pure colpito diverse frange antagoniste dell'estrema sinistra.

(6) Come segnalato anche dalle associazioni di categoria più legate a questi settori.

Lunedì, December 30, 2013