Il riformismo fuori tempo di Obama

Povertà e attacco al lavoro salarato negli USA

Cinquant'anni fa, Lyndon B. Johnson, presidente democratico degli Stati Uniti d'America, lanciò una politica riformista di ampia portata, che, attraverso la «War on Poverty» (guerra alla povertà), doveva portare i “cittadini” americani in quella che chiamò pomposamente la «The Great Society» (grande società). Scuola, lavoro, sanità furono tra i settori in cui si esercitò il riformismo dell'amministrazione democratica, contemporaneamente all'avvio della «escalation», vale a dire l'impegno crescente nella guerra del Viet Nam. Insomma, burro e cannoni. Ma erano altri tempi e la borghesia a stelle e strisce poteva permetterselo (il burro), anche se non mancavano al suo interno settori che per ragioni di bottega tuonavano contro l'invadenza statale nel business. Ciò significava, a loro dire, il mantenimento di milioni di fannulloni, nonché, ma questo è un dato oggettivo, il buco progressivo nei conti statali.

Le bordate verso il “welfare state” sprecone e immorale (i poveri, così, non sono obbligati a guadagnarsi il pane col sudore della fronte, come dice la Bibbia...) erano in genere prerogativa dei circoli borghesi più reazionari, che avevano nel repubblicano Goldwater (sfidante, sconfitto, di Johnson) e in un professore dell'università di Chicago – Milton Friedman – i loro portavoce, non a caso, e per certi aspetti non a torto, qualificati come fascistoidi dagli ambienti “liberal”. In effetti, allora, predicare l'azzeramento del sindacato – inteso come possibilità di difesa su di un piano contrattualistico e nel rispetto rigoroso delle compatibilità capitalistiche – il peggioramento delle condizioni di lavoro della classe operaia, l'annullamento-furto dello “stato sociale” (il salario indiretto e differito), il ritorno alla completa libertà di movimento del capitale in tutte le sue forme, sembravano cose da fascisti, se non per il particolare che il fascismo storico aveva invece dato vita a un'altra versione di capitalismo di stato, dopo quella staliniana.

Altri tempi, appunto. Il ciclo di accumulazione cominciato dopo la guerra stava toccando il suo culmine e una spesa statale in deficit era non solo tollerata, ma persino incoraggiata, in quanto funzionale al meccanismo economico, perché si riteneva che la resa dei conti coi problemi che il “deficit spending” inevitabilmente produceva, si sarebbe potuta rimandare in un futuro lontano, se non indefinito. Meno di dieci anni dopo (15 agosto 1971) si apriva ufficialmente la crisi che si è trascinata fino ai nostri giorni, per esplodere in maniera clamorosa con la bolla dei titoli tossici “subprime” nel 2007. La crisi ha fatto tornare “di moda” le idee della destra reazionaria di un tempo, perché le necessità della rimozione di ogni ostacolo all'estorsione del plusvalore si è fatta, da allora, più stringente. I margini per il riformismo si sono via via ridotti e se la borghesia di riformismo è disposta a parlare, è di un riformismo in senso contrario, a favore del capitale.

L'attacco al mondo del lavoro salariato in tutti i suoi segmenti è la componente o una delle componenti-base della ricetta del cosiddetto neoliberismo ossia del modo di essere del capitale in questa fase storica. La svalorizzazione del capitale variabile (abbassamento del salario), la predazione dello stato sociale, la disoccupazione di massa conseguente allo smantellamento delle vecchie roccaforti operaie (le grandi e grandissime fabbriche), ridimensionate drasticamente, se non semplicemente chiuse e trasferite all'estero, per forza di cose dovevano causare un'impennata verso l'alto degli indici di povertà – o di miseria vera e propria – cioè un significativo allargamento dell'area dei percettori di redditi bassi. E' la cosiddetta polarizzazione sociale, ossia i poveri che diventano sempre più poveri e più numerosi, i ricchi sempre più ricchi, con una “classe media” che tende a ridursi notevolmente. Se poi si va a vedere che cosa intenda la sociologia borghese con “classe media”, si scopre che tale categoria abbraccia una gran parte del lavoro dipendente, tanto operaio che impiegatizio. Ebbene, la famosa middle class è stata ed è duramente colpita dalla crisi e dalle misure messe in atto dai governi per contrastarla (la crisi). Le statistiche – per quanto elaborate con metodi a volte discutibili – sono pressoché unanimi nel registrare la forte sofferenza di quella fetta (molto ampia) della società e, dunque, la progressiva diminuzione numerica degli stipendi “decenti”. Tra il 1998 e il 2004, più di trenta milioni di persone hanno perso il lavoro a tempo pieno con relativa busta paga:

probabilmente in media il 7-8 per cento dei lavoratori a tempo pieno ha perso il lavoro ogni anno.

Il risultato è che, oggi, il panorama del proletariato (e di una parte della piccola borghesia) assomiglia molto a quello degli anni '20 del secolo passato:

il numero degli statunitensi che rientrano nella categoria dei lavoratori a basso reddito arrivava nel 2010 a 97,3 milioni, e se si sommano gli appartenenti alle due categoria [questi e coloro che vivono sotto la soglia di povertà: 49,1 milioni] il totale è di 146,4 milioni di persone, all'incirca il 48 per cento della popolazione statunitense.

Può essere, come sostengono alcuni, che nel frattempo la povertà ufficiale si sia ridotta (ci permettiamo di dubitare), così come la disoccupazione, sempre ufficiale (7,8%, nel dicembre 2012, al 15%, pari a 24 milioni di persone quella, molto probabilmente, più vicina al vero1), ma anche se fosse vero, la contropartita è una discesa generalizzata del proletariato verso il basso: in una battuta, qualche miserabile (forse) in meno, tanti “disagiati” sociali in più. Stando, infatti, ai mezzi d'informazione meno sospettabili di simpatie comuniste, nel primo semestre del 2013 l'occupazione è cresciuta, ma

“più della metà dei nuovi posti di lavoro sono stati creati nella ristorazione e nella vendita al dettaglio”, in altre parole, c'è più lavoro, ma solo nei settori dove gli stipendi sono più bassi; [...inoltre] il 97% dei posti di lavoro […] è part-time (2).

... naturalmente, in genere subìto.

Si dirà che ciò riguarda il settore dei servizi, caratterizzato tradizionalmente dai bassi salari e dalla tirannia padronale, ma non è vero nemmeno questo, dato che anche il fenomeno della cosiddetta reindustrializzazione (reshoring) (3) e molti dei nuovi investimenti – provenienti anche dall'estero – presuppongono un taglio fino al cinquanta per cento del salario. Il caso più noto è quello del “benefattore” Marchionne, che nell'acquisizione della Chrysler ha posto questa condizione come elemento irrinunciabile dell'operazione, assieme alla rinuncia al conflitto (sindacale) per qualche anno. Dunque, non è certo dal reshoring che che ci si può aspettare un aumento massiccio del reddito – e quindi della capacità di spesa – del proletariato, sia perché, appunto, implica l'estensione di salari al limite della semplice sopravvivenza, sia perché il fenomeno, secondo le ipotesi più ottimistiche, farà nascere al massimo qualche milione (tre, si dice) di nuovi impieghi, in quanto viaggia in parallelo – e non può essere diversamente – con la robotizzazione dei processi produttivi, che per natura “mangia” operai, ma anche impiegati. A questo proposito,

tra il 2007 e il 2012 […] il numero degli impiegati è diminuito di circa 2 milioni

e la tecnologia fa sentire i suoi effetti anche nel settore della sanità e dell'istruzione (4). Appare quindi quanto meno velleitaria la battaglia ingaggiata da Obama col partito repubblicano (a cominciare dal Tea Party) per far approvare riforme sociali che, a fronte di quella di Johnson sembrano, è il caso di dirlo, il parente povero; non ultima quella riguardante il rifinanziamento dei sussidi di disoccupazione o l'innalzamento del salario minimo a 10,10 dollari l'ora contro gli attuali 7,25. Ora, è vero che alcuni stati l'hanno autonomamente già aumentato, ma secondo l'Economist, per stare alla pari con gli incrementi di produttività verificatisi dal 1968 (anno in cui fu introdotto) dovrebbe essere di 21,72 dollari (5). Inoltre, la disoccupazione (il famoso esercito industriale di riserva), la precarietà diffuse pongono il proletariato in una posizione di debolezza tale che al padronato riesce sempre più facile fermarsi al salario minimo, tant'è vero che se nel 2007 i lavoratori che percepivano

il salario minimo o una cifra ancora minore erano 1,7 milioni; nel 2012 [salivano a] 3,6 milioni, mentre diversi altri milioni di persone lavoravano alla stessa data per un salario di poco superiore (6).

Se a tutto questo si aggiunge che dagli anni '60 il debito, sia pubblico che privato, è cresciuto in maniera gigantesca, proprio per cercare aggirare – inutilmente – le enormi difficoltà del processo di accumulazione (7), ce n'è abbastanza per dire che i bei tempi (?) del riformismo sono finiti e non saranno le illusioni in un nuovo keynesimo a resuscitarli. Mai come in tempo di crisi appare evidente la contrapposizione inconciliabile degli interessi di classe: o si fanno quelli della borghesia o quelli del proletariato; ma per fare questi il mezzo è solo uno: rottamare, per sempre, il capitalismo.

CB

(1) I dati e le citazioni sono tratte da Bruno Cartosio, La grande frattura, Ed. Ombre Corte, maggio 2013, rispettivamente alle pagg. 58, 53, 51).

(2) Wall Street Journal del 3 agosto 2013, citato in www.rainews.it del 9 agosto.

(3) Il rimpatrio di produzioni o parti di produzione prima delocalizzate.

(4) Vincenzo Comito, Come cambia il mercato del lavoro negli USA, in www.sbilanciamoci.info 25 ottobre 2013.

(5) S. Andriani, L'Unità, riportato nel sito di MicroMega del 27 dicembre 2013.

(6) V. Comito, cit.

(7) Il tentativo di eludere la legge del valore ricorrendo in maniera massiccia all'indebitamento ha provocato, tra le innumerevoli altre cose, il fallimento di intere città, come Detroit, e lo spettro del default – per adesso improbabile, è vero – aleggia continuamente anche sullo stesso stato federale americano.

Lunedì, January 27, 2014