Carattere storico e transitorio del lavoro salariato

Perché inauguriamo una rubrica proprio sul “lavoro salariato”? Perché su esso interamente si fonda il sistema capitalistico, perché la sua esistenza è presupposto e condizione imprescindibile del suo stesso funzionamento e della sua continua riproduzione. Quanto poi questo funzionamento e questa riproduzione siano considerabili, alla luce dei fatti, come sviluppo reale per la società intera (e non per una sua sola parte) lasciamo a voi giudicarlo, alla luce degli innumerevoli indizi che – crisi o non crisi – ci testimoniano la costante, secolare deturpazione dell’ambiente e della salute fisica e psicologica degli uomini, lo spreco e la distruzione metodica e pregiudicata di risorse, vita, salute, ambiente. Più che ovvio che al capitalismo vada riconosciuta una storica capacità di progresso rispetto ad ogni precedente sistema di organizzazione e produzione sociale. La questione è, però, ben altra, e pone interrogativi ai quali proveremo pian piano a rispondere: sussiste ancora questa capacità progressiva oppure essa ha ormai esaurito da tempo ogni energia, impedendo di fatto all’umanità un solo passo avanti nel suo concreto, reale e complessivo sviluppo? E dunque: è possibile – come noi riteniamo – una diversa organizzazione sociale che sia capace di superare questa empasse nell’ulteriore sviluppo? E in ogni caso, che cosa si deve intendere per sviluppo? Quali sono i suoi nuovi criteri di gestione? E quali gli attuali da eliminare del tutto? Ecco, noi riteniamo che il lavoro salariato sia il primo di questi.

A chi dunque si accontenta di rimanere sommerso nel beato e fascinoso mondo delle merci – le più sofisticate, trendy e all’avanguardia tecnologica che il capitalismo è certo capace di sfornare – ma che rimane assolutamente indifferente rispetto al costo sociale che siamo costretti a pagare per usufruirne, ricordiamo che quel progresso dipende dalle raggiunte capacità produttive e tecnologiche di cui oggi disponiamo ma che non ci appartengono come collettività sociale, mentre quel costo dipende esclusivamente dalla loro gestione capitalistica e dalla finalità che questa unicamente persegue: valorizzare capitale, far profitto come si dice, e non soddisfare bisogni se non in modo fittizio, parziale e strumentale rispetto a quella finalità. Attraverso l’unico mezzo che il capitalismo conosca per far profitto: vendere merci.

E dunque a costoro ricordiamo che una più razionale e programmata gestione sociale collettiva della produzione e distribuzione di quell’enorme potenziale produttivo è non solo possibile ma non può che incrementare tale livello di benessere, che, lo ribadiamo, non si identifica affatto col consumismo fine a se stesso, com'è inteso oggi: diffondendolo, generalizzandolo, razionalizzandolo, modificandone, anche, alcune caratteristiche sostanziali, cominciando ad eliminare gli abnormi, inutili sprechi e danni ad ambiente e salute che il capitalismo, anziché rimuovere, ha incrementato e aggravato sin dalla sua nascita. Come la realtà, del resto, ci dimostra ampiamente da oltre due secoli.

Lungi da noi galassie e galassie, insomma, l’insulsa idea decrescista oggi tanto di moda, che sogna e ipotizza ritorni all’indietro a bucoliche e irrealistiche società del “poco ma buono”, del piccolo villaggio antico, come di una nostalgica autarchia nazionale. Ma di questo diremo più avanti.

Il “giusto salario”?!

Invece del motto conservatore, “Un giusto salario giornaliero per una giusta giornata lavorativa!”, i lavoratori dovrebbero scrivere sulle loro bandiere la parola d'ordine rivoluzionaria: “Abolizione del sistema del lavoro salariato!”.

Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865

Chi stabilisce infatti, se non il padrone, cosa è un “giusto salario” e cosa una “giusta giornata lavorativa”?!

Sia Marx che Engels, nelle loro opere di carattere divulgativo, semplicemente spiegarono a chiare lettere che:

Il capitalismo mantiene e manterrà sempre il suo dominio sui lavoratori fintantoché riuscirà a convincerli che l'organizzazione del lavoro basata sul sistema del lavoro salariato non può essere cambiata.

Ossia, in altri termini, sarebbe l’unica organizzazione possibile, concretamente attuabile, naturale. Le parole d'ordine di “giusti salari”, “migliore organizzazione del lavoro”, “lotta contro i monopoli”, “pianificazione della produzione nel capitalismo” ecc. sono espressione di questo inganno e vennero da Marx ed Engels sempre combattute e denunciate come accettabili con riserva solo per brevissimi periodi (cioè come rivendicazioni di lotta economica nell’immediato), ma che non avrebbero dovuto mai offuscare la parola d'ordine fondamentale del proletariato (1) moderno: «abbasso il lavoro salariato»! Una data organizzazione della produzione e della riproduzione della società è fenomeno storico, e perciò niente affatto “naturale” o “inevitabile” o “immutabile”. Ogni classe dominante ha infatti tutto l’interesse a far credere ciò del proprio status quo di dominio: così fu per l’antica nobiltà romana rispetto al lavoro schiavistico, così fu per la aristocrazia feudale rispetto al lavoro del servo della gleba, così è per la borghesia rispetto al lavoro salariato.

La storicità dei modi di produzione sociale è dimostrato da tutto l'arco dello sviluppo storico, sin dalla comparsa della divisione in classi della società e dal mutamento delle sue forme. Tale sviluppo può dirsi (schematizzando e riferendosi in particolare all'Occidente, relativamente alle prime tre epoche) caratterizzato da quattro epoche storiche fondamentali:

  • schiavismo
  • feudalesimo
  • capitalismo
  • comunismo (ancora mai attuatosi)

Nel primo periodo (schiavismo), la retribuzione del lavoratore (che poi retribuzione non è) viene amministrata direttamente dal padrone di schiavi mediante corresponsione di alloggio, cibo e assistenza. Non esiste rapporto di denaro e sia il lavoratore-schiavo sia tutto il prodotto appartengono alla classe dei proprietari.

Nel secondo periodo (feudalesimo), il servo della gleba si appropria in parte del prodotto del suo lavoro, mentre una parte consistente va ai signori (laici o ecclesiastici) sotto forma di corvées (giornate di lavoro gratuite), di tributi vari in natura e, alla Chiesa, di decima (cioè la decima parte del raccolto).

Nel terzo periodo (capitalismo) il lavoratore – una volta espropriato dei mezzi di produzione di cui prima disponeva (utilizzo della terra, possesso di attrezzi di lavoro, ecc.) è perciò costretto a vendere il suo tempo di lavoro (giornata lavorativa) contro un corrispettivo in denaro (salario); tutto il prodotto del lavoro sociale finisce nei magazzini e nei negozi della classe possidente (capitalisti) dai quali il lavoratore preleva i quantitativi rappresentati appunto dal salario suddetto, ossia corrispondenti al suo cosiddetto potere d'acquisto.

Nel quarto periodo (comunismo) – dopo una necessaria fase di transizione (socialismo) – il processo produttivo, i magazzini ed i negozi sono amministrati dai produttori stessi (i lavoratori), che determinano le modalità della produzione (oltre ciò che è necessario produrre e in quale quantità) e della distribuzione (a ciascuno secondo i suoi bisogni). Questa fase, in cui la soppressione del lavoro salariato, della merce in generale, si accompagna a un livello molto alto delle forze produttive (cioè scienza, tecnologia ecc.), non più sottomesse al dominio del capitale, e dunque anche qualitativamente diverse da quelle dell'epoca precedente. I prodotti, destinati a soddisfare i bisogni umani nel rispetto delle compatibilità ambientali (non di quelle capitalistiche!), saranno quindi abbondanti per tutti, benché il loro utilizzo non avrà niente a che fare col consumismo ottuso e ossessivo che ci impone il capitale (se abbiamo i soldi per consumare...). Inoltre, il lavoro cambia il suo carattere e da forzato diventa volontario. Secondo Marx è «libera estrinsecazione della propria individualità».

Già oggi, nella società capitalistica, alcune “forme socialiste” sono penetrate e divenute modo corrente di vita. Ecco alcuni esempi. Oggi due salariati con uguale salario pagano uguali contributi, ma quello di salute malferma riceverà in visite mediche e medicine molto di più dell'altro (che gode di buona salute), così come riceverà di più quello che ha più figli a carico, o quello che – più disgraziato – si è rotta una gamba. Così succede con le Poste, quando si paga la stessa tariffa per un percorso di 100 metri come per uno di 1.000 km. E tutti riconoscono che questa distribuzione “disuguale” è “la più giusta”. Marx ed Engels hanno sempre affermato – e la storia si è incaricata di dimostrare – che lo sforzo che deve fare la classe operaia per ottenere un aumento di salario (e, dopo averlo di nuovo perso, per ri-ottenerlo) è uguale a quello che dovrebbe fare per eliminare il sistema del lavoro salariato. Solo questa eliminazione consentirebbe, infatti, la generalizzazione e dunque la piena affermazione delle forme socialiste nella produzione e nella distribuzione della ricchezza socialmente prodotta, e una più razionale organizzazione sociale, priva di ogni forma di sfruttamento, spreco, distruzione di risorse umane e ambientali che invece il profitto capitalistico determina.

PF

(1) Ma chi sono i “proletari”? Tutti coloro che possiedono esclusivamente la propria forza-lavoro e che dunque, per vivere, sono costretti a venderla, se e quando ci riescono.

Sul prossimo numero:

  • Chi paga il costo della produttività e del progresso tecnologico asserviti alle logiche del capitale?
  • Uguaglianza “di diritto”, disuguaglianza “di fatto”.
  • Perché il “lavoro”, nel capitalismo, non può essere un “diritto” per tutti.
Venerdì, February 7, 2014