Per un consuntivo dell’esperienza greca

Le prime considerazioni sul referendum greco

Per tutti quelli che hanno ritenuto che fosse tatticamente e politicamente corretto dare l'indicazione di votare NO al referendum greco.

Anche questa tragica esperienza ha dimostrato che per il radical riformismo, per i venditori di illusioni il tempo è scaduto. Il tatticismo referendario ha soltanto sancito definitivamente la situazione debitoria e ingannato politicamente il proletariato greco. Tsipras pur vincendo il referendum, non solo non ha avuto un ruolo di qualche rilievo nella contrattazione con i Creditori, ma ha dovuto consentire il massacro delle riforme e la svendita dei pezzi pregiati dell’economia nazionale. Solo la ripresa della lotta di classe può combattere la politica dei sacrifici. Solo combattendo il capitalismo ci si incammina sulla strada dell’alternativa sociale, altrimenti si rimane all’interno delle sue leggi, della sua logica e delle sue compatibilità che, inevitabilmente, vengono prima di tutto e di tutti.

La trappola del referendum è scattata due volte.

La prima, quando il nazional-riformista Tsipras si è trovato nella inevitabile impossibilità di dare operativamente seguito alle sue promesse elettorali. Di fronte alla feroce chiusura della Troika (prima si pagano i debiti, si fanno le necessarie riforme, ovvero aumento dell'Iva, riforma fiscale e decurtazione delle pensioni ecc., continuando la devastante politica dei sacrifici), poi si possono chiedere nuovi finanziamenti, Tsipras ha prima tentato un negoziato al ribasso, poi, sconfessato dal suo stesso partito, non ha saputo fare altro che buttare la patata bollente nelle mani dell'elettorato greco sotto forma di un retorico referendum: “SI o NO alla politica dei sacrifici" voluta dalla Troika. Ingannando, così, il proletariato greco, e non solo, che attraverso la vittoria del NO si potessero avere armi politiche migliori per contrastare la politica dei sacrifici e salvaguardare meglio le condizioni di pensionati e lavoratori sull'orlo del collasso.

La seconda volta, quando la vittoria del NO ha lasciato, ovviamente, le cose come stavano prima, ma funzionando come valvola di sfogo per quelle frange più arrabbiate che, al massimo, si sono espresse con un non voto (3.693.889 di astenuti, superiore, anche se di poco, a quelli che hanno votato NO), senza nemmeno spaventare i giochini politici dell'attuale potere in crisi di liquidità oltre che di identità politica. Infatti il NO non poteva essere una risposta negativa alla politica dei sacrifici, ma soltanto l'ipotesi di riapertura di una discussione interrotta su come e in che tempi subire gli ennesimi sacrifici. In pratica, come nel gioco dell'oca, si è ritornati al punto di partenza, lasciando inalterati i termini della questione sul debito, sulle riforme da fare e sugli eventuali futuri prestiti che, detto per inciso, al massimo servono per pagare gli interessi sui debiti contratti, a far sopravvivere per qualche tempo un'economia agonizzante e non certo a migliorare la condizioni di vita dei salariati e dei pensionati.

Quattro giorni dopo la chiusura delle urne, Tsipras ha dovuto riprendersi nelle mani la patata bollente per proporre alla Troika più di quanto la Troika stessa pretendeva in termini di riforme e di sacrifici. Il programma prevede una immediata “finanziaria” da 12 miliardi di euro prelevati dall'allungamento dell'età pensionabile, dalla sospensione degli sgravi Iva per le isole e da un aumento generalizzato delle tasse. Il che significa che l'innalzamento dell'età pensionabile aumenterà la disoccupazione, soprattutto quella giovanile. L'aumento delle tasse influirà ancora una volta sulla qualità di vita di tutti i greci a stipendio fisso, ovviamente per chi ce l'ha. L'annullamento della facilitazione Iva per le isole, nei fatti un aumento dell'Iva per il commercio e gli operatori turistici, inciderà sull'aumento dei prezzi al consumo sia per i turisti che per i locali. L'unico contentino è che Tsipras ha promesso di tartassare un po’ di più i super ricchi e di incominciare a far pagare le tasse (ma con moderazione) agli armatori. Il tutto per ricevere dagli “aguzzini” della Troika quei finanziamenti per non fallire subito e per coltivare la debole opportunità di rinegoziare un debito che, peraltro tutti sanno, non estinguibile né subito né forse mai, ma funzionale ai grandi creditori sul terreno del ricatto economico per quanto riguarda le future commesse e il possibile acquisto “dell'argenteria di famiglia”, qualora le imposte privatizzazioni dovessero aprire nuove opportunità agli sciacalli della finanza internazionale. Queste le immediate conseguenze della “vittoriosa” campagna a favore del NO al referendum.

Poi ci sono altre considerazioni da fare. Il referendum ha finito per essere, da un lato, una prova di fiducia nei confronti del governo, dall'altro un esercizio politico di nazionalismo destrorso e conservatore che è riuscito a riempire la piazze sotto le bandiere bianco-azzurre greche in un rigurgito patriottico contro l'arroganza tedesca. Non una parola contro la borghesia nazionale, quella degli armatori che non paga le tasse (Tsipras, come s'è detto, si era limitato a proporre prima del referendum un “una tantum” peraltro bocciato dalla Troika stessa perché pericolosa per il grande capitale), quella dei finanzieri che, all'epoca dell'ingresso della Grecia nell'euro, hanno falsificato i conti in collaborazione con una delle centrali del parassitismo finanziario internazionale, contribuendo a rendere ancora più grave la situazione economica interna dopo lo scoppio della crisi dei sub prime. La prova referendaria è però riuscita a distorcere l'attenzione delle masse greche dalle responsabilità borghesi interne per concentrarle su quelle estere, senza nemmeno un accenno di critica al capitalismo e alle sue devastanti crisi che di tutto questo è la causa prima.

Era chiaro sin dall'inizio che con il referendum non si sarebbe andati da nessuna parte, che le cose sarebbero rimaste esattamente come prima, ma il mimare un inoperante NO alla politica dei sacrifici, almeno nel breve periodo, avrebbe tenuto le piazze sotto controllo, all'interno del solito involucro nazionalistico, borghese e capitalistico senza nessuna speranza per una futura alternativa al sistema, e così è stato.

Facili profeti (purtroppo)

Con il senno di poi possiamo dire di essere stati facili profeti: purtroppo le cose sono andate proprio così, e forse anche peggio. Gli accordi tra il governo Tsipras e i Creditori (12-8-2015) si è concluso con un onere di riforme ancora più pesante del previsto e distante anni luce dalla promesse elettorali. Gli accordi tra Atene e i creditori internazionali (Bce, Fmi e Ue) prevede 86 miliardi di finanziamenti da erogare in tre anni, in cambio di 35 pesantissime riforme che dovrà attuare il governo greco. Riforme sulle quali il capo del governo non ha potuto nemmeno contrattare, ma ha dovuto accettarle integralmente, pena il non rifinanziamento, con tutto ciò che ne sarebbe comportato sul terreno economico, sociale e di una maggiore difficoltà della permanenza della Grecia nell’euro. Come già anticipato, tra le prime riforme imposte dai creditori c’è quella delle pensioni che prevede il blocco immediato dei prepensionamenti anticipati, l’allungamento della vita lavorativa dagli attuali 62 anni ai 67, con tanti saluti, come si diceva precedentemente, per la disoccupazione giovanile più alta d’Europa. C’è poi un piano urgente di privatizzazioni con il quale i creditori si vogliono cautelare in caso di inadempienza del governo greco, mettendo le mani sui “pezzi migliori” della sua economia. Si va della messa all’asta dei porti del Pireo e di Salonicco, alla privatizzazione della gestione dell’energia elettrica, delle ferrovie e della telefonia, nonché dei maggiori aeroporti del paese all'offerente già selezionato, ovvero alla tedesca Fraport, in base “agli accordi previsti” nel novembre del 2014. Come da copione, il 18-8-2015 è apparso sulla Gazzetta Ufficiale che il governo ha dato effettivamente in gestione per 40 anni i quattordici maggiori aeroporti, tra i quali quelli di Creta, Santorini, Mykonos e Salonicco per la cifra di 1,23 miliardi di euro, sia per onorare l’impegno preso, sia per combattere la reticenza tedesca a concedere immediatamente gli 85 miliardi promessi senza passare da un prestito ponte come minacciato dalla Merkel. Il tutto dovrebbe fruttare almeno 50 miliardi di euro. In più, c’è la pretesa del taglio dei sussidi agricoli ad una economia già di per sé debole e non competitiva. Non ultimo, i creditori pretendono una riduzione del welfare del 5%, che andrà a colpire i soliti noti in termini di scuola, sanità e posti di lavoro in tutti i settori, ma, in particolare, nel pubblico impiego. Le previsioni sono che si ricavino circa 6-7 miliardi da queste privatizzazioni già entro il 2017. A questo si somma poi l’aumento dell’Iva, ovvero delle tasse sui consumi e la tragica riforma del mercato del lavoro che impone in pratica l’annullamento del contratti collettivi e maggiore flessibilità sia in entrata che in uscita per il proletariato greco. A chiudere, una delle condizioni più gravi per il popolo greco, per il proletariato e per la stessa Syriza che tanto si era data da fare per evitarla: il secco no al taglio del debito e solo un piccolo margine di manovra sull’allungamento del periodo di “grazia” quello in cui non si pagano gli interessi sul debito. Non ci sarà quindi, come vuole la Germania, alcun taglio al valore nominale del debito stesso. Tutto ciò con la “vittoria” del NO.

Le valutazioni politiche

Una posizione rivoluzionaria che avesse voluto essere di piccolo riferimento alternativo alla vulgata nazional-borghese del falso referendum, avrebbe dovuto come prima cosa dire da dove veniva la necessità referendaria, quali i veri obiettivi che voleva raggiungere e quali le conseguenze. Da lì bisognava partire, non perché il referendum in sé avesse qualche interesse intrinseco, o perché avesse l'opportunità di cambiare, anche se di poco, i termini della questione dei sacrifici e del pagamento del debito, ma perché il partito al potere, operante sul terreno nazionalista e borghese, non ottenebrasse ancora di più le coscienze politiche dei proletari con ulteriori false promesse o ridimensionate illusioni, con l'indicazione di strani percorsi economici e finanziari che non possono portare da nessuna parte se non sul solito terreno della conservazione borghese, con l'aggravante di presentarsi in chiave sinistrorsa. Definire la natura, lo scopo e la trappola che rappresentava il referendum era il necessario primo passo da cui partire per arrivare a introdurre il secondo e basilare concetto, quello relativo alla necessità della ripresa della lotta di classe. In questo caso, nella specificità della situazione greca, la seconda delle indicazioni, quella relativa alla necessità della ripresa della lotta di classe, se non voleva cadere dal cielo come un “ufo” politico, doveva partire dalla denuncia di che cosa rappresentasse la prima. Il alla ripresa della lotta di classe doveva essere la logica conseguenza alla negazione degli obiettivi del referendum. Detto in termini ancora più sintetici, il SI alla lotta di classe si intrecciava al NO al referendum. Bisognava ribaltare completamente il giochino borghese del SI e del NO ad una politica dei sacrifici che tutti sapevano, Tsipras per primo, che sarebbe arrivata comunque, altrimenti il rischio di uscire dall’euro sarebbe stata una seria ipotesi da prendere in considerazione. Era così evidente che lo stesso Tsipras aveva seguito con interesse il progetto, dell’ormai oggi ex, ministro delle Finanze Varoufakis, che prevedeva un piano B qualora le cose si fossero messe male. Piano che prevedeva di introdurre una forma di pagamento parallela all’euro, che concedesse l'attribuzione di un “Pin” bancario e fiscale per ogni cittadino contribuente e per tutte le società, nella eventualità di gestire il passaggio ad una nuova moneta. Ciò sarebbe stato necessario nella prospettiva, non peregrina, in cui il sistema bancario fosse stato chiuso d’imperio dalla Troika e i Creditori avessero rivendicato i pagamenti degli interessi sul debito, le garanzie con le privatizzazioni e la solita politica dei sacrifici. Lo stesso Varoufakis ha spiegato la sua strategia in un consesso di Fund manager nella sede di uno dei più prestigiosi templi finanziari di Londra. All’interno di questa dichiarazione viene anche messo in evidenza che Alexis Tsipras era a conoscenza di questa ipotesi e ne condivideva l’impostazione oltre che la necessità:

Il primo ministro, prima che vincessimo le elezioni, mi aveva dato il disco verde per formulare un piano B. Io ho messo in piedi un piccolo team che avrebbe dovuto lavorare sottotraccia per ovvie ragioni.

All’interno del suddetto team, sempre secondo quanto dichiarato da Varoufakis, era presente il suo amico e illustre economista keynesiano, James Kenneth Galbraith. Galbraith, in stretta collaborazione con Varuofakis, aveva elaborato un sistema “a latere” di pagamento. Dalle sue parole si apprende che il sistema avrebbe dovuto agire parallelamente all’euro in attesa di eventi più drastici:

Avremmo potuto estendere il sistema agli smartphone con un’app e sarebbe potuto diventare un funzionale meccanismo finanziario parallelo: al momento opportuno sarebbe stato convertito nella nuova dracma.

Galbraith, in un post apparso sul blog dello stesso Varoufakis, non solo ha confermato tutto, ma ha aggiunto:

Ho lavorato cinque mesi, da febbraio ai primi di luglio, a stretto contatto con Varoufakis ed ero parte del gruppo che ha elaborato piani alternativi contro i tentativi di asfissiare il governo greco, compreso azioni aggressive per spingere il Paese ad abbandonare l’euro.

Il tutto proviene da una audizione apparsa sull’Official Monetary and Financial Institutions Forum (OMFIF).

Da queste rivelazioni risulta ancora più chiaramente come il referendum fosse soltanto un escamotage per prendere tempo, una scappatoia ad un problema molto complesso, che mai avrebbe potuto risolvere la questione della politica dei sacrifici e del debito da pagare, come era stato promesso negli “ingenui” discorsi della fase pre-elettorale. Quindi, gli stessi promotori del referendum sul rifiuto della politica dei sacrifici, sul ribaltamento dei termini sociali ed economici “dell’esperimento greco” sulla pelle del loro proletariato, o ben sapevano che non sarebbe stato possibile, per cui hanno ingannato l’intero elettorato che ha accettato di andare alle urne, o erano convinti – manifestando in tal modo incompetenza e ingenuità disarmanti - che ciò fosse possibile, e allora hanno drammaticamente illuso pensionati, lavoratori, giovani e disoccupati che oggi ne pagano le conseguenze come se avesse vinto il SI.

Ne consegue che prima bisognava assolutamente togliere il velo dell’inganno, smascherare il trucco e poi dare una prima indicazione politica di massima. Fare invece appello alla necessità della ripresa della lotta di classe senza partire dall'inganno del referendum, senza denunciarne gli obiettivi di conservazione e di imbrigliamento politico della classe operaia è, quantomeno, un errore tattico. Se poi si arriva ad invocare la necessità della ripresa della lotta di classe passando dall'accettare "tatticamente" il NO, siamo in aperta contraddizione. E' un modo perlomeno confuso di porsi alle masse, perché le due indicazioni sono difficilmente conciliabili se non nella forma ibrida e comunque contraddittoria del “se accettate il referendum e andate a votare, allora votate NO perché l'unica soluzione è la lotta di classe”. Ma la lotta di classe non solo non passa dai referendum che ne sono la sua negazione, ma ne deve prendere le distanze, per iniziare a partire nelle fabbriche e nella società. Meglio essere chiari, diretti nelle formulazioni politiche: si evitano malintesi e si danno delle indicazioni comprensibili e non ambigue. A meno che la formulazione "ibrida" non contenga un altro messaggio, quello che dice: “bisogna saper essere duttili, tatticamente intelligenti, e non rimanere attaccati a formule, corrette sì, ma di difficile divulgazione”. Giusto, ma l'intelligenza tattica è quella di saper trovare le formule espositive delle posizioni politiche corrette, non quella di modificarle o, peggio ancora, di dirle solo in parte o in maniera scorretta e contraddittoria, perché ciò non servirebbe ad aumentare la chiarezza, ad essere più propositivi sul terreno propagandistico, ma sarebbe soltanto un pericoloso esercizio di allineamento verso il basso che potrebbe portare nell'anticamera dell'opportunismo. Il non rimanere isolati (se questa fosse la maggiore delle preoccupazioni che, già di per sé, non dovrebbe far parte del bagaglio di un'organizzazione rivoluzionaria) non passa dall'annacquare le posizioni politiche, ma nel proporle "secche e asciutte" come sono, altrimenti si corre il rischio di accodarsi alle masse, alle sue arretratezze politiche per poi rimanerci dentro, prima soltanto con un piede, poi con una gamba e, alla fine, con tutto il corpo. Né vale il discorso che non si doveva sostenere l’astensione perché anche altre forze politiche staliniste lo facevano. Innanzitutto la posizione corretta era quella dell’indicazione della ripresa della lotta di classe e non dell’astensione che, in sé e per sé, ripropone il dilemma referendario SI/NO come sua terza variabile. Poi si doveva porre la questione della ripresa della lotta di classe quale inizio dell’unica possibilità di lotta alle politiche dei sacrifici in prospettiva rivoluzionaria e internazionalista, che nessun stalinismo, di matrice riformistica e nazionalistica, sarebbe stato in grado di sostenere. E poi non si rinuncia a una posizione corretta perché altre forze, con altri obiettivi e orizzonti politici, la fanno “tatticamente” propria. Semmai andrebbe denunciata politicamente, indicandone i limiti e il quadro di riferimento riformistico. Né vale la tattica di indicare il No perché se fosse passato il SI le cose sarebbero state peggiori per il proletariato greco. È il solito atteggiamento riformistico del meno peggio, avulso da qualsiasi indicazione politica di auspicata ripresa della lotta di classe. Senza contare che, nella sostanza, la vittoria del No non ha spostato di una virgola le politiche dei sacrifici come, se non peggio, una vittoria del SI. L'intelligenza tattica è un'altra cosa, è rendere comprensibile una linea politica con i dovuti strumenti di comunicazione, le giuste analisi, i conseguenti slogan e gli inalienabili contenuti, ma all'interno di una corretta linea politica che non può cambiare di volta in volta con posizioni contraddittorie, confuse e ai limiti dell'opportunismo. Le tattiche possono e devono cambiare a seconda delle contingenze, del livello e dell’intensità della lotta di classe, a seconda che si tratti di lotte difensive o di rivendicazioni economiche, ma non possono mai vivere di vita autonoma. Sempre e comunque devono essere agganciate alla visione strategica che le deve sorreggere e coordinare. Sganciate da questo referente politico, isolate e politicamente autonome, finiscono per arricchire l’infinito repertorio dell’opportunismo, senza mai aprire uno spiraglio verso l’alternativa al sistema, dentro il quale, anzi si rimane prigionieri. Al di fuori di questo contesto, ben che vada, alle mai come oggi disorientate masse, si manda il messaggio che il riformismo possa avere una dignità politica, che possa essere una via d’uscita dalla crisi rimanendo all’interno delle contraddizioni del sempiterno capitalismo, quando, nell’evidenza della sua assoluta impotenza, rappresenta nei fatti uno dei baluardi della conservazione.

FD, 20 agosto 2015

PS. A riprova di quanto precedentemente detto, le elezioni del 20 settembre hanno reso evidente l’impotenza del radical riformismo, l’ambiguità della sua campagna referendaria e l’inconsistenza di tutto ciò che è stato promesso. Nonostante che a votare ci sia andato solo il 56,6% dell’elettorato contro il 64% della tornata precedente, e nonostante che Syriza sia passata dal 61% del voto referendario ad un minimo del 35,5% del 20 settembre, costringendosi ad una nuova alleanza con la destra, il premier Tsipras ha avuto il coraggio di dire che questa era “una vittoria del popolo greco” e che con il nuovo mandato avrebbe “cambiato” la politica dell’UE e della BCE, nonché dei famelici “creditori”. Il lupo perde il pelo, e ne ha perso tanto, ma non il vizio. Tra la finzione fraudolenta delle promesse di Tsipras e la realtà della crisi greca ci passa un oceano di menzogne, di verità nascoste, di ambizioni deluse e di frustrazioni cocenti. Il nuovo governo ha dovuto presentare all’attento vaglio dei Creditori un programma di riforme “lacrime e sangue” per i lavoratori greci, peggio di quello paventato se avesse vinto il SI. E pur di rimanere al governo, Tsipras non ha esitato a rifare un'alleanza (tattica) con la destra del gruppo Anel. Che il venditore di fumo fosse in buona fede, che pensasse veramente che una volta al potere si potesse mettere in un angolo la Troika; che da “buon” radical riformista pensasse che la società capitalistica greca, come qualsiasi altro capitalismo – che, peraltro, non ha mai rinnegato – potesse essere gestito al meglio se lisciato per il giusto verso, è una cosa. Ma che il successo del No al referendum e la successiva striminzita vittoria alle elezioni del 20 settembre, siano stati un vantaggio per il proletariato greco è un'altra. Nei fatti, sia l’una che l’altro hanno funzionato come elemento frenante e narcotizzante di qualsiasi slancio, sia pur timido, di ripresa dello scontro di classe. Anzi sono serviti a fare quadrato attorno all’agonizzante economia greca, alle sue necessità di sopravvivenza, in ossequio all’arroganza della Troika, della Merkel che, in teoria, si volevano combattere. Mentre le ancora più drastiche misure cadranno inevitabilmente sulle spalle dei lavoratori in termini di decurtazione dei salari, maggiore disoccupazione, allungamento della vita lavorativa, taglio delle pensioni, della scuola e della sanità. L’unico aumento previsto è quello delle tasse. In compenso la promessa di far pagare le tasse agli armatori è rimasta nel cassetto delle buone intenzioni. Al contempo, l’arciriformista Tsipras ha pensato bene di lasciare intatti anche i privilegi finanziari del clero ortodosso. In nome dell’alleanza con Panos Kammenos, leader della formazione di destra Anel, suo compagno di strada nella nuova avventura tragicomica, il nuovo Governo non ha fatto alcunché per ridurre lo stipendio a 10 mila preti per un ammontare di 220 milioni di euro annui, né ha pensato che sarebbe stato anche il caso che il clero greco trovasse al suo interno, senza gravare ulteriormente sulla già devastante crisi economica che ha messo sul lastrico milioni di lavoratori e le loro famiglie, le risorse per continuare la loro “missione”.

Benché chi semina vento raccolga tempesta e chi predica male razzoli peggio, il gioco al massacro continua, tanto chi ci rimette sempre è il mondo della forza lavoro che, alla fine, paga il conto per tutti. Lo paga fintanto che non imboccherà un’altra strada, quella della ripresa della lotta di classe, fuori da ogni condizionamento politico borghese, contro le false sirene del radical riformismo che, alla fine, con il suo fardello di ipocrite illusioni, procura danni immensi alla prospettiva di dare un'alternativa economica e politica a questa barbarie sociale.

Lunedì, September 19, 2016

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.