Discutendo sulla tattica: ritorno sul fronte unico

Introduzione

Se giudichiamo che il partito sia alla viglia della conquista del potere e che la classe operaia lo seguirà, allora la questione del fronte unico non si pone. Ma […] se ci convinciamo che deve passare un certo intervallo di tempo, parecchi anni forse, prima della conquista del potere […] è invece necessario considerare cosa accadrà nel frattempo alla classe operaia (1).

Con questa parole, Trotsky ribadiva la motivazione di fondo per cui la Terza Internazionale – Internazionale Comunista o Comintern – più di un anno prima nel suo terzo congresso aveva adottato una linea politica ritenuta però discutibile da parecchi delegati di diversi partiti affiliati all'Internazionale stessa. Anzi, per essere più precisi, intere sezioni “nazionali”, in primis quella italiana, si erano opposte apertamente a una svolta tattica giudicata foriera di pericolosi sbandamenti, in grado di vanificare l'enorme lavoro teorico-politico condotto negli anni precedenti e di compromettere così le possibilità dello sviluppo rivoluzionario al di fuori dei confini russi. Purtroppo, quei timori erano tutt'altro che infondati: il terzo congresso, mentre coglieva correttamente la fase di stanca, se non di riflusso, in cui erano entrate le grandi lotte operaio-proletarie dell'immediato dopoguerra, per fronteggiare questa situazione indicava una via che contraddiceva i presupposti stessi su cui era stato fondato “il partito mondiale della rivoluzione”, aprendo varchi all'opportunismo di marca socialdemocratica che, nel giro di poco tempo, lo avrebbero trasformato in uno dei più micidiali strumenti della controrivoluzione, chiamata, per comodità di sintesi, stalinismo.

Perché militanti rivoluzionari temprati da anni di lotta contro lo zarismo, contro le borghesie di mezzo mondo (carcere, esilio, persecuzioni di ogni genere), che in Russia avevano diretto in prima persona la rivoluzione e la guerra civile, erano stati protagonisti, nel resto d'Europa, dei tentativi rivoluzionari compiuto dai settori più avanzati della classe operaia, improvvisamente cominciavano a versare nel vino della rivoluzione l'acqua dell'opportunismo (oggettivo)? Come tanti personaggi un tempo militanti nella sinistra rivoluzionaria e che oggi, per lo più, si sono aggiunti alla categoria degli aspiranti intellettuali, dei “maître à penser” del niente, potremmo attribuire quello stravolgimento della “politica” comunista che fu il fronte unico a un deficit teorico, all'incapacità di leggere i dati nuovi della situazione, cioè di inquadrarli correttamente nella prospettiva della rivoluzione mondiale. Certamente, ci fu anche questo, ma limitarsi al piano teorico significa scadere nell'idealismo, secondo il quale sono le “idee” a fare la storia, per cui basta trovare quelle giuste per aprire la strada a più moderne soluzioni rivoluzionarie. Intanto, nell'attesa che tali idee spuntino nella mente di qualche “illuminato”, meglio ritirarsi dalla militanza attiva, “studiare”, guardare con occhio distaccato il mondo e sputare sentenze. Le cose, però, non stanno così: lo studio, l'analisi rimangono elementi fondamentali, ma, a loro volta, sono il frutto di fatti che, per forza di cose, precedono il proprio inquadramento teorico. Separare i due aspetti del problema, non vederli nel loro rapporto dialettico porta inevitabilmente a perdersi nelle nebbie di una delle mille varianti dell'ideologia borghese. Si tratta di considerazioni, per noi, ovvie, ma, a nostro parere, troppo spesso dimenticate da delusi e rinnegati delle varie “sinistre” dette, a torto o a ragione, antagoniste.

Non è la prima volta che ci occupiamo del fronte unico (2) e di quell'anno, il 1921, che per più aspetti aprì “ufficialmente”, se così si può dire, l'involuzione dell'Internazionale Comunista, e se ci ritorniamo su, non è certamente per vezzo storiografico, ma per tenere aperto il dibattito sul rapporto strategia-tattica, rapporto che, anche in una situazione di estrema debolezza numerica delle forze rivoluzionarie, non smette di rivestire un ruolo centrale nell'ottica di chi lavora all'affermazione dell'orizzonte comunista.

Il terzo congresso del Comintern e il nuovo scenario della lotta di classe

Ma questa potente ondata non è riuscita a travolgere né il capitalismo mondiale né il capitalismo europeo […] Il primo periodo del movimento rivoluzionario dopo la guerra, che fu caratterizzato da una forza d'urto elementare, da metodi e obiettivi confusi e dallo scatenarsi di un panico straordinario all'interno delle classi dominanti, appare sostanzialmente chiuso. Senza dubbio la fiducia in sé della borghesia in quanto classe e la saldezza esteriore dei suoi organi statali ne sono usciti rafforzati. Il terrore panico del comunismo, anche se non è sparito, si è tuttavia attenuato. I capi della borghesia si vantano anzi della forza del loro apparato statale e in tutti i paesi sono passati all'offensiva contro la classe operaia, sia sul piano economico sia sul piano politico (3).

Così si aprivano le Tesi sulla situazione mondiale del terzo congresso dell'I.C. Indubbiamente, coglievano un dato di fatto: l'ondata rivoluzionaria degli anni 1919-1920 non era riuscita a travolgere gli argini borghesi e cominciava quel riflusso che apriva ampi spazi alla controffensiva borghese.

Perché i bastioni della borghesia avevano resistito, come si doveva porre l'avanguardia rivoluzionaria nel gestire quella ritirata – si sperava temporanea – che cominciava a delinearsi? Al solito, un insieme di fattori oggettivi, o economico-sociali, e soggettivi o, forse più propriamente, politici, si intrecciavano dialetticamente nelle analisi dell'Internazionale. La repressione operata dallo stato e dalle bande armate al suo servizio, gestita in prima persona dalla socialdemocrazia, contro i fermenti rivoluzionari, la politica collaborazionista dei sindacati che, sistematicamente, si facevano in quattro per deviare sul binario morto – ma apparentemente concreto e vincente - della contrattazione economica, una lotta di classe anche a carattere insurrezionale e dalle ampie potenzialità rivoluzionarie, la debolezza o l'assenza di partiti comunisti in grado di porsi alla testa del proletariato e di dirigerlo politicamente contro il capitale e il suo stato. Questo, dal punto di vista politico.

Dal quello economico, la borghesia era riuscita a prolungare artificialmente la “prosperità” generata dalla guerra, ricorrendo a strumenti che oggi sono la norma, ma ai tempi, secondo i dogmi del pensiero economico tradizionale, erano considerati una bestemmia: l'aumento del debito e del deficit pubblici, del capitale fittizio attraverso la stampa di carta moneta, le manovre speculative di vario genere, la “concessione” per quel timor panico evocato dalle Tesi, della giornata di otto ore, del sussidio di disoccupazione, la stipula di contratti di lavoro, nelle campagne e nelle fabbriche, che in un'ottica sindacale rappresentavano una splendida vittoria (così venivano presentati), mentre in realtà non erano altro che la droga con cui la borghesia – coadiuvata in maniera decisiva dal sindacato – intossicava le forze proletarie, le indeboliva prima di paralizzarle e di consegnarle ai boia prezzolati extra-legali in camicia nera o alle forze dell'ordine legali. La classe dominante era anche riuscita, nel complesso, a gestire la smobilitazione degli eserciti e l'inserimento dei reduci nei vecchi posti di lavoro, a scapito, naturalmente, del proletariato femminile, costretto a ritornare, almeno in parte, tra le mura domestiche, cancellando in tal modo dalle statistiche ufficiali una quota importante di disoccupati (e). A questo proposito, si potrebbe aprire una parentesi sulla palla al piede della lotta di classe proletaria costituita dalla subordinazione della donna nelle società classiste, subordinazione, com'è noto, trasversale alle classi, ma ci porterebbe troppo lontano.

Trotsky, nella sua relazione sulla crisi osservava:

Se gli operai smobilitati fossero stati colpiti fin dall'inizio dalla disoccupazione e da una riduzione del tenore di vita a livelli ancora più bassi di quelli d'anteguerra, ciò avrebbe potuto avere conseguenze fatali per la borghesia [... e, per sottolineare il concetto, fa proprio il giudizio di un professore inglese, Edwin Cannan, secondo il quale] Se nel gennaio 1919 si fosse creata la stessa situazione economica del 1921, l'Europa occidentale avrebbe potuto precipitare nel caos [tradotto, nella rivoluzione, ndr] (4).

Invece, il boom economico fittizio durò fino alla metà circa del 1920, dando modo alla borghesia di tamponare in qualche modo le falle che si aprivano sotto i colpi della tempesta proletaria, per cedere poi il passo a una grave crisi, manifestatasi prima nella sfera finanziaria e abbattutasi immediatamente dopo con violenza sulla cosiddetta economia reale. Le “conquiste” proletarie in campo economico, vanto del riformismo, cominciarono a sgretolarsi rapidamente e il padronato si riprendeva, con interessi da usura, quello che era stato costretto a mollare per non essere spazzato via: è un aspetto essenziale, da non sottovalutare in alcun modo, per non perdere di vista il quadro in cui, nonostante il sistema economico manifestasse enormi difficoltà, la classe dominante “concesse” riforme incompatibili con il quadro medesimo. Licenziamenti, accorciamento forzato della settimana lavorativa (e dello stipendio) in alternativa all'arresto completo della produzione; allo stesso tempo, abolizione – almeno di fatto, se non di diritto – delle otto ore (là dove erano state introdotte), imposizione di orari più lunghi, in un contesto di generale abbassamento del salario. La svalorizzazione della forza lavoro, l'aumento dello sfruttamento erano la strada obbligata che la classe dominante doveva intraprendere per rilanciare l'accumulazione, muoversi in un mondo profondamente mutato dalla guerra, anche, e non certamente da ultimo, dal punto di vista dei rapporti di forza economici tra i suoi settori nazionali. Inoltre, i conti tra banditi imperialisti, provvisoriamente regolati dai trattati di pace – incubatori di ancor più sanguinosi scontri imperialistici – venivano presentati, com'è ovvio che sia, alla classe operaia, la quale, soprattutto se appartenente a un paese sconfitto, doveva fornire un “di più” di plusvalore per alimentare i “profittatori di guerra” e gli “speculatori della pace” (5).

Non meno difficile, anzi, era la situazione della classe operaia russa, esaurita e fortemente ridimensionata dagli anni tremendi della guerra civile, costretta a lottare non per muovere i primi passi verso il socialismo, ma per la semplice sopravvivenza fisica. Gli scioperi nelle fabbriche, la tragedia fratricida di Kronstadt spingevano, com'è noto, il partito comunista russo a prendere quelle misure (a cominciare dalla NEP) che, nelle intenzioni dei promotori, dovevano gestire la ritirata del flusso rivoluzionario, nell'attesa che le contraddizioni del capitalismo europeo (anzi, mondiale) ridessero slancio al conflitto di classe e quindi alle speranze rivoluzionarie. Che quelle misure “contronatura” fossero espedienti tutto sommato temporanei, non era convinzione solo dei comunisti russi, ma anche di quei comunisti “occidentali”, decisamente critici contro le stesse, per esempio, dei delegati del Partito comunista operaio di Germania (KAPD) - presenti in qualità di simpatizzanti al terzo congresso - che si chiedevano quali conseguenze avrebbero avuto sul partito russo e sull'Internazionale i trattati commerciali stipulati con la Gran Bretagna e la Germania (marzo e maggio 1921). Uno di essi, Hempel (Jan Appel), così si esprimeva:

Le concessioni sono una necessità vitale, ma si può rimanere comunisti facendole? […] Supponete che questo periodo duri un anno o più. Questo partito resterà lo stesso di oggi? Non avrà esso forse un maggior interesse, per qualsiasi ragione, a frenare la rivoluzione in altri paesi? (6).

Si trattava di considerazioni che andavano al cuore del problema, alle quali Trotsky rispose che il pericolo di subordinare l'azione rivoluzionaria agli interessi commerciali non esisteva, in quanto, anche dal punto di vista strettamente economico, per la Russia sarebbe stato incomparabilmente più vantaggioso contare sull'economia di una Germania (Gran Bretagna ecc.) rivoluzionaria che su qualche accordo con l'imperialismo europeo (7). Incontestabile, il fatto è, però, che la rivoluzione in Occidente non solo tardava, ma sembrava allontanarsi, mentre il trattato commerciale, col quale dare una boccata d'ossigeno alla Russia, era immediatamente praticabile... con i rischi relativi. La sopravvivenza dell'esperienza rivoluzionaria – di ciò che rimaneva dopo gli sconvolgimenti degli anni precedenti – dipendeva strettamente dalla sorte della rivoluzione almeno europea, prospettive entrambe indebolite dalla nuova fase, favorevole alla borghesia.

Come contrastare, per invertirla, la tendenza? S'è già anticipato: con una tattica che aprì le porte all'opportunismo, la tattica del fronte unico, vale a dire la proposta a tutti gli organismi a base operaia, dunque – se non in primo luogo – alla socialdemocrazia e ai sindacati ad essa collegati, di un'azione comune per contrastare l'offensiva generale della borghesia.

Un primo assaggio di questa contorsione tattica – vero salto mortale all'indietro – si era avuto nel gennaio dello stesso anno, quando Paul Levi, presidente del Partito comunista di Germania (KPD) aveva scritto la famigerata “Lettera aperta” a tutte le organizzazioni “operaie” tedesche, suscitando una forte opposizione all'iniziativa dentro il partito, senza peraltro ottenere risposta, se non negativa, dai destinatari della lettera stessa. Nonostante lo scalpore, per non dire l'indignazione interna al KPD, Lenin e altri dirigenti bolscevichi (tra cui Trotsky) sostennero Levi e l'idea che stava dietro a quel “gesto” ossia che se la rivoluzione aveva subito una battuta d'arresto, era perché la maggioranza della classe operaia – o larghi settori di essa – non aveva accolto le indicazioni politiche dei comunisti, rimanendo sotto l'influenza ideologica dei partiti socialdemocratici e dei sindacati riformisti. Dunque, la parola d'ordine che il terzo congresso assegnava alle proprie sezioni nazionali era sintetizzata in due parole: «alle masse!». In breve, i partiti comunisti dovevano fare ogni sforzo possibile per radicarsi nelle masse proletarie, conquistarne la maggioranza, perché senza il consenso attivo della maggioranza della classe, è impensabile fare la rivoluzione. Corollario di questa posizione è che i partiti dovevano diventare di massa, uscendo dal minoritarismo (col rischio che questo fosse o diventasse settarismo) in cui molti di essi si trovavano, anche perché appena nati. Che con sé occorra avere la maggioranza della classe – almeno di quella che si muove e non dorme sempre e comunque, aggiungiamo – per dare “l'assalto al cielo” è talmente ovvio da essere persino banale (8), così com'è ovvio che il settarismo sia un atteggiamento pestilenziale, ma dietro a tutto questo c'era, appunto, una svolta tattica che, alla lunga ma non tanto, sarebbe diventata di centottanta gradi. Tale svolta, infatti, contraddiceva non soltanto alcuni capisaldi teorici stabiliti al secondo congresso nel luglio del 1920, ma le stesse analisi sulla situazione internazionale del capitalismo e sulla natura, nonché sul ruolo, della socialdemocrazia della II Internazionale, di quella “dissidente” della II Internazionale e mezzo e dei sindacati gialli della Confederazione di Amsterdam, cinghia di trasmissione socialdemocratica nel corpo operaio.

Le Tesi sulla situazione mondiale così sintetizzavano alcuni passaggi del lungo discorso di Trotsky (di cui si è riportato un passo):

Per ricostruire l'economia europea sarebbe necessario sostituire l'apparato produttivo distrutto dalla guerra, quindi una nuova solida formazione di capitale. Ma ciò sarebbe possibile soltanto se il proletariato fosse disposto a lavorare di più in condizioni di vita fortemente peggiorate. Questo è quanto esigono i capitalisti, questo è quanto consigliano i traditori che guidano la Internazionale gialla: prima concorrere a ricostruire il capitalismo, poi lottare per migliorare la situazione degli operai. Ma il proletariato europeo non è disposto a compiere questo sacrificio; esso esige un miglioramento del suo livello di vita, e al momento attuale ciò è in radicale contrasto con le possibilità oggettive all'interno del capitalismo.

Lucidamente, venivano individuati i caratteri fondamentali della fase storica e il ruolo degli “attori” politico-sociali: borghesia, socialdemocrazia, proletariato, ritenuto ancora in grado, quest'ultimo, di reagire, nonostante le batoste subite nell'ultimo periodo, e nonostante la reazione borghese, legale ed extra-legale, stesse salendo d'intensità e di ferocia. Veniva colto perfettamente che una ripresa economica poteva aversi solo degradando le condizioni di vita del proletariato, il che escludeva un miglioramento delle stesse, anzi. Per inciso, tale quadro dice qualcosa ai comunisti e agli “antagonisti” odierni? Ma, proseguendo, la tesi mette in guardia da facili ottimismi e da non meno facili – quanto dannosi – determinismi, affermando che:

Se delle due classi fondamentali – la borghesia e il proletariato – quest'ultimo dovesse abbandonare la lotta rivoluzionaria, senza dubbio la borghesia potrebbe in ultima analisi trovare un nuovo equilibrio capitalistico – l'equilibrio del declino materiale e spirituale – attraverso nuove crisi, nuove guerre, l'ulteriore impoverimento di interi paesi, l'ulteriore estinzione di milioni di masse lavoratrici. (9).

Naturalmente, il Comintern non poteva vedere, nello specifico, la crisi del 1929, le guerre degli anni Trenta e il secondo macello imperialista mondiale, ma le tendenze di fondo erano delineate, benché queste venissero temporaneamente sospese dalla “stabilizzazione” fittizia degli anni Venti, stabilizzazione basata proprio sulla compressione assoluta e relativa di gran parte della classe operaia.

Dunque, era in corso una partita mortale tra le due classi fondamentali, in cui un settore del movimento operaio organizzato, il riformismo politico-sindacale, giocava con il nemico di classe per poter ricostituire, vanamente, le condizioni economiche indispensabili alla propria esistenza.

Il concetto era ribadito ancora più nettamente, se possibile, nelle Tesi sulla tattica, in particolare nella numero 5, che così diceva:

Non soltanto il capitalismo in decadenza è incapace di assicurare ai lavoratori delle condizioni di vita decenti, ma i socialdemocratici, i riformisti di tutti i paesi, dimostrano quotidianamente di non voler condurre nessuna lotta, neppure a sostegno delle rivendicazioni più moderate espresse nel loro stesso programma (10).

Questo non significava (e non significa) che non si dovesse lottare sul terreno economico, rinunciando in tal modo a difendersi dagli attacchi del capitale, ma che si dovesse avere ben chiaro come tale lotta, se fosse rimasta confinata – sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo (11) - non potesse (e non possa) avere sbocchi positivi. L'unica prospettiva realistica, concreta, per la lotta economica nelle epoche di crisi profonda del capitalismo è data dal salto qualitativo verso lo scontro politico generale con la borghesia, per il potere proletario:

Nella misura in cui le lotte per le rivendicazioni parziali, e le lotte settoriali di particolari categorie di lavoratori evolvono [in altra traduzione: si trasformano, ndr] in lotte generali della classe operaia contro il capitalismo, anche il partito comunista deve radicalizzare e generalizzare le proprie parole d'ordine, unificandole nell'unica parola d'ordine dell'immediata sconfitta [come prima: abbattimento, ndr] dell'avversario […] Il carattere rivoluzionario dell'epoca attuale consiste proprio in questo, che anche le più modeste condizioni di vita delle masse operaie sono incompatibili con l'esistenza della società capitalistica e che quindi anche la lotta per le rivendicazioni più moderate sfocia nella lotta per il comunismo (12).

Naturalmente, la parola “sfocia” presuppone (allora e oggi), com'è detto nelle tesi di questo e dei precedenti congressi dell'I.C., la presenza di un partito comunista sufficientemente radicato nella classe da poter essere riconosciuto come guida politica, come strumento indispensabile per lo scardinamento del sistema capitalistico, ma la tattica indicata dal terzo congresso per sviluppare quelle radici risultava contraddittoria con l'analisi, corretta, da cui partiva l'elaborazione tattica.

Il problema oggi più importante per l'Internazionale comunista è quello di conquistare un'influenza determinante sulla maggioranza della classe operaia, di introdurre nella lotta i suoi strati determinanti (13).

Giusto, ma com'è possibile farlo tendendo la mano a chi – il riformismo – è indicato, a ragione, come traditore della classe, complice della borghesia nel far ingoiare al proletariato le “politiche dei sacrifici” necessarie per rimettere in moto la macchina economica capitalista, che non vuole, ma nemmeno può, lottare per la difesa elementare delle condizioni di vita proletarie? La motivazione, una volta di più, partiva da una considerazione pertinente, ma finiva in una specie di corto circuito... opportunista. Prima di proseguire, aggiungiamo un altro elemento al quadro complessivo. Subito dopo la fine della guerra, i sindacati conobbero una crescita impetuosa degli iscritti: a titolo d'esempio, in Italia i tesserati alla CGL passarono da poco più di 300.000 del 1914 a oltre due milioni nel 1920 (dimezzatisi però nel 1921, anche a causa della violenza fascista e statale), in Germania, da due a sette milioni. Erano numeri imponenti, che davano la misura del grandissimo fermento presente nella classe, un fermento, però, che in molti casi si era fermato al primo livello, quello della lotta “tradeunionistica”, e, pur avendo le potenzialità per salire il gradino superiore della coscienza di classe, quello rivoluzionario, là si era fermato o era stato fermato dal riformismo che, come si diceva, aveva “strappato” sedicenti conquiste sul piano economico, sospinto oltre, se non contro, la propria volontà, dalla marea proletaria, per arginarla sotto il livello di guardia del regime borghese.

Chiusa la parentesi e riprendendo il discorso, la motivazione era che le masse imparano per lo più dalla propria esperienza, quindi, proponendo agli organismi socialdemocratici di lottare assieme per difendere il tenore di vita operaio, questi, conformemente alla loro natura, avrebbero rifiutato o accettato di lottare, ma tiepidamente; in tal modo, si sarebbero squalificati agli occhi delle masse da loro inquadrate e di quelle non organizzate. La promessa del ragionamento non fa una piega, meno il suo sviluppo. Intanto, non è detto che ci sia un rapporto automatico tra rifiuto della lotta da parte della socialdemocrazia e squalificazione della stessa agli occhi delle “sue” masse, se non altro perché, almeno in parte, esse non hanno maturato, neppure confusamente, la prospettiva rivoluzionaria, credendo cioè che la via più concreta sia quella dell'accontentarsi di un presunto meno peggio ossia l'accettazione di sacrifici più o meno grandi, in attesa che passi la “nottata”. Che ciò di cui si sta parlando non sia archeologia, lo prova, per esempio e in versione peggiorata, il comportamento della classe in questi anni di crisi. Se, invece, proprio l'esperienza diretta, non la propaganda del partito comunista, sta facendo maturare – anche non linearmente, con passi in avanti e ritorni all'indietro – in settori più o meno ampi di operai ancora “socialdemocratici” (o senza partito) l'idea che gli organismi politico-sindacali cui appartengono non li difendono, la percezione che c'è incompatibilità tra la propria determinazione alla lotta e l'accettazione della loro linea politica, perché non rivolgersi direttamente a quei settori di classe? Non si crea disorientamento e confusione quando si fanno proposte operative proprio a chi è denunciato come complice del nemico di classe e, per questo, privo di una reale volontà di lotta? Com'è possibile, in questo modo quanto meno contraddittorio, sollecitare, accelerare la maturazione politica di spezzoni di classe entrati spontaneamente “in crisi” rispetto alla loro appartenenza politico-sindacale? E ancora, se il fine dichiarato è quello di smascherare la socialdemocrazia, perché questa dovrebbe prestarsi al gioco? Infame e traditrice, sì, ma non stupida e infatti l'accoglienza riservata al fronte unico fu piuttosto fredda, per usare un eufemismo.

Tattica, sì, opportunismo, no

Come è evidente i rivoluzionari non scelgono il momento ed i modi dell'intervento ma entrambi vengono imposti dalla situazione obiettiva su cui si è costretti a lavorare. Ma tutto ciò non è per niente sufficiente. Non basta essere con le masse nella lotta, non basta trovare tattiche rivendicative unificanti; il compito delle avanguardie rivoluzionarie è di andare oltre il dato economico, legato alla questione politica, in altri termini trasformare le lotte rivendicative in un primo momento di scontro politico come premessa del decollo del processo rivoluzionario (14).

La parola d'ordine «alle masse!», nel contesto del terzo congresso, gettava le prime ombre su alcune delle acquisizioni fondamentali non solo del secondo congresso, ma del movimento comunista in tutto il suo percorso storico, ombre che con lo stalinismo le oscurarono del tutto. Come s'è detto, è fondamentale far crescere il partito, fare in modo che sia conosciuto dalle masse proletarie e da esse riconosciuto come punto di riferimento politico, ma senza dimenticare quanto diceva il II congresso un anno prima, nelle Tesi sul partito:

1. Il partito comunista è parte della classe operaia, la parte più avanzata, più cosciente e quindi più rivoluzionaria. Per un processo di selezione naturale il partito comunista è formato dai lavoratori migliori, più coscienti, più lungimiranti […] 2. Finché il proletariato non avrà preso il potere e non avrà consolidato il proprio regime una volta per tutte, e non l'avrà rafforzato contro una possibile restaurazione borghese, il Partito comunista avrà nelle sue file soltanto una minoranza di lavoratori. Prima della presa del potere, e nel periodo di transizione, il partito comunista può, se le circostanze sono favorevoli, esercitare un'influenza intellettuale e politica indifferenziata sui ceti proletari e semiproletari della popolazione, ma non può riunirli tutti nelle proprie file […] 3. Compito del comunismo non è adattarsi a questi settori arretrati della classe operaia [da quelli apertamente reazionari a quelli socialdemocratici, ndr] ma sollevare al livello dell'avanguardia comunista l'intera classe operaia (15).

Rafforzare adeguatamente le file del partito comunista, sì, certo, promuovere più che si può l'unità del proletariato, anche, ma questi obiettivi fondamentali non devono compromettere i presupposti teorico-metodologici del partito, pena il suo snaturamento. Invece, una volta aperta una crepa nella diga, l'opportunismo l'allarga e comincia a irrompere, portandola al crollo, se non si interviene d'urgenza. Infatti, com'era ovvio che fosse, dietro al fronte unico per la difesa delle condizioni immediate di vita del proletariato, si infilano prospettive tattiche che vanno oltre il piano “sindacale” e che, sebbene siano presentate come eccezioni, sono pregne di sviluppi gravissimi nonché sconcertanti. Il punto 9 delle Tesi sui lavoratori socialdemocratici afferma che:

In Germania il partito comunista […] si è detto pronto a sostenere un governo operaio unitario che sia disposto a intraprendere con una certa serietà la lotta contro il potere dei capitalisti. L'Esecutivo dell'Internazionale comunista ritiene questa deliberazione assolutamente giusta...

e il punto 13:

L'Esecutivo dell'Internazionale comunista ritiene che, in determinate circostanze, la frazione comunista del parlamento svedese non debba rifiutare il suo appoggio al ministero menscevico di Branting, come hanno fatto giustamente anche i comunisti tedeschi in alcuni governi regionali della Germania (Turingia) (16).

È utile ricordare che erano passati solo pochi mesi dall'«Azione di marzo», quando, una volta di più, il partito socialdemocratico tedesco aveva messo in atto una provocazione contro un settore della classe operaia particolarmente combattivo, per trascinarlo in uno scontro armato impari e “pacificare”, in tal modo, la regione di Mansfeld, in Sassonia, considerata uno dei bastioni del comunismo tedesco. Lenin, scrivendo a Zinoviev per difendere la tattica del fronte unico e i combattenti dell'«Azione di marzo» dalle accuse vergognose di Paul Levi, rammentava che in Germania, nella guerra civile tra borghesia e proletariato, erano stati assassinati ventimila operai, ma guerra civile significa partito socialdemocratico, molto spesso il mandante, non solo politico, dei massacratori del fior fiore della classe operaia rivoluzionaria (17). Era mai possibile fare qualcosa di utile al proletariato con i suoi boia? Evidentemente no, ma pensare che Lenin e lo stato maggiore bolscevico fossero diventati improvvisamente dei traditori è infantile. Ancora una volta, dietro la perdita di lucidità politica stavano prima di tutto le gigantesche difficoltà del momento, dentro e fuori la Russia, come s'è già accennato, che spingevano a cercare spericolati “escamotages” per uscire da una situazione estremamente problematica, attraverso forzature tattiche. I principi, allora, erano ancora saldi; Lenin, nella sua risposta a Umberto Terracini, delegato del Pcd'I al terzo congresso, ribadiva l'ABC di ogni comunista:

È possibile che anche un piccolo partito […] susciti nel momento opportuno, un movimento rivoluzionario […] Non nego in modo assoluto che la rivoluzione possa essere iniziata anche da un partito molto piccolo e portata a una fine vittoriosa […] Basta un partito piccolissimo per condurre le masse al proprio seguito. In determinati momenti non c'è bisogno di grandi organizzazioni... (18).

Nella sostanza, erano le stesse cose sostenute da Terracini, cioè dal Pcd'I, anche se venne attaccato, perché il partito italiano si opponeva alla tattica del fronte unico.

È noto che il Pcd'I considerava la tattica del fronte unico una pericolosissima concessione a quell'opportunismo riformista dal quale ci si era appena separati, che sarebbe rientrato dalla finestra dopo essere stato cacciato dalla porta. Per questo, mantenne un atteggiamento critico e accettò il fronte unico, ma “dal basso” ossia quando significava la ricerca di azioni comuni con gli operai sul terreno “sindacale”, con l'esplicita esclusione di qualunque accordo coi partiti riformisti. Dunque, gli inviti a mettere in atto fronti unitari di lotta potevano essere rivolti solo alle forze sindacali (CGL, USI, Sindacato ferrovieri), oltre che direttamente alla classe, al di là delle categorie e delle opinioni politiche dei suoi membri, benché sotto traccia, ma nemmeno tanto, si percepisca come ci si credesse molto poco a un impegno reale del sindacalismo di stampo riformista contro l'aggressione padronale. Il ruolo nefasto, paralizzante e demoralizzante della socialdemocrazia politico-sindacale (in consonanza con le tesi del III congresso, per altro) non è mai taciuto, anzi, se mai sottolineato, di fronte anche all'arrendevolezza rispetto al terrorismo fascista:

i paladini sindacali della collaborazione [in tutta Europa, era precisato, ndr] rifiutano di accettare lotte di difesa contro l'assalto mosso dai capitalisti, e consigliano contrariamente all'antica tattica sindacale […] l'accettazione dei licenziamenti, delle riduzioni di lavoro e di salario ecc. come “resa necessaria dalle critiche condizioni dell'industria” e ai disoccupati non dànno altro aiuto che quello di invocare sussidi statali (cioè in ultima analisi a spese della stessa classe lavoratrice) e di consigliare il “ritorno alla campagna” (19).

Infatti (anche) in Italia, va da sé,

la disoccupazione, l'abbassamento dei salari assai più rapido e reale di quello del costo della vita, l'aumento degli orari di lavoro, l'introduzione di orari e turni straordinari [oggi, diremmo la precarietà, ndr], la miseria, l'esaurimento e l'abbrutimento, infine dei lavoratori ridotti alle condizioni del capitalismo iniziale, si accompagnano alla violenza legale e illegale contro le organizzazioni di difesa e di lotta, alla miseria tende ad accompagnarsi la schiavitù (20).

Era lo stesso quadro, sostanzialmente, tracciato da Trotsky e dalle Tesi sulla situazione mondiale, un quadro che, fatte le debite differenze, ricorda da vicino la fase storica che stiamo vivendo, in cui la compressione delle condizioni di esistenza, la “schiavitù” del proletariato costituiscono i pilastri irrinunciabili su cui poggiare le speranze di una ripresa dell'economia capitalistica. Una delle differenze è che, al momento, per esempio, la borghesia non ha bisogno dei mazzieri fascisti per schiacciare la classe, è un lavoro svolto egregiamente dai governi “democraticamente eletti” e dai sindacati. Oggi come allora, ai comunisti si poneva il problema tattico delle rivendicazioni economiche, in particolare in un'epoca in cui, come il terzo congresso aveva rilevato (sulla scorta del secondo congresso), ogni possibilità di miglioramento sostanziale del tenore di vita operaio (21) era escluso, perché si scontrava con le necessità vitali del capitalismo. Allora come oggi, la “soluzione” del problema si poneva in modo metodologicamente diverso da come tanti la intendono. Il «grido di battaglia» era ed è il medesimo:

nessun licenziamento, nessuna riduzione dei salari, nessun elevamento di orari, nessuna sostituzione di cottimi alle paghe, nessun orario o turno straordinario, nessuna limitazione del diritto di organizzazione, [ma con la consapevolezza che...] la borghesia non può concedere nulla su questo terreno, ed impegnerà tutte le sue forze per obbligare il proletariato ad accettare tutte quelle cose. [Quindi...] Se la resistenza proletaria sarà appena appena energica, la borghesia mobiliterà le sue guardie bianche al macello dei lavoratori. E allora, sul terreno della realtà quotidiana, ben più facile sarà al partito comunista di far sentire alle masse le sue rivendicazioni finalistiche: l'armamento del proletariato, il disarmo della borghesia per l'instaurazione del controllo operaio sulla produzione, per la creazione dei Consigli politici degli operai e dei contadini, per la loro dittatura (22).

Queste parole dovrebbero far riflettere coloro che, anche tra chi si richiama al partito comunista delle origini, basano la loro tattica, per non dire strategia politico-sindacale, su di una “lista della spesa” rivendicativa che non può avere nessuno sbocco reale, se non quello di creare false aspettative e amare disillusioni: aumenti salariali massicci, salario integrale ai disoccupati, drastico abbassamento dell'orario a parità di salario ecc. Nel documento citato c'è una serie di condizioni che devono guidare la lotta rivendicativa, oggi completamente dimenticate dai sostenitori dei vari sindacati rossi o alternativi. Il “Se” (le masse lottano) non è un dettaglio linguistico, perché significa che il proletariato, o almeno larghi settori di esso, ha cominciato spontaneamente – benché ancora sul piano per lo più istintivo – a rompere con la soggezione all'ideologia borghese, non certamente da ultimo con la sua variante riformista, ha toccato con mano - e giudicato non più sopportabile - che anche solo la difesa dei livelli di vita presenti è incompatibile con le necessità del capitale, che anche un aumento modesto del salario per arrivare a fine mese senza l'acqua alla gola non solo è negato, ma che il salario (diretto, indiretto, differito) è taglieggiato dai capitalisti, dai loro governi, dai loro stati. Solamente in quel caso, le parole d'ordine del comunismo (23) smettono di essere “clandestine” tra le masse lavoratrici (e disoccupate), di toccare singole individualità, per diventare punto di riferimento dell'azione della classe. Qualche passo più indietro del documento si leggeva:

Le formule hanno valore in quanto balzan fuori dalle necessità della vita reale, largamente sentite, e non in quanto sono semplici anticipazioni di menti superiori. La teoria può e deve illuminare l'azione, ma non può sostituirla (24)."

Oltre a questo, ciò che dai “sinistri” di cui sopra viene tralasciata è la prospettiva in cui le lotte “rivendicative”, che per forza di cose sorgono come lotta di difesa (almeno in questa fase), devono sfociare “necessariamente”, se lo scontro con la borghesia è portato avanti in maniera determinata dal proletariato, una prospettiva rivoluzionaria, com'è sottolineato espressamente nell'articolo. Questo, naturalmente, è vero sempre, cioè le lotte rivendicative, per i comunisti, non sono mai un fine a sé stante, bensì un mezzo per accrescere la coscienza di classe rivoluzionaria, ma lo è particolarmente nelle epoche di crisi del capitale, quando gli spazi di mediazione tendono rapidamente a scomparire e SE la classe proletaria raccoglie la sfida della borghesia, allora si pongono le condizioni del duello finale, il cui esito non è mai scontato. In ogni caso, non è un processo automatico: tra i presupposti dello scontro decisivo non può mancare la presenza del partito rivoluzionario, che sia in grado di orientare politicamente la classe in lotta. Per abilitarsi a tale ruolo, il partito deve sì assumere dimensioni compatibili con il compito da affrontare, ma non a scapito della chiarezza e della coerenza rivoluzionarie, la cui compromissione non pagherebbe comunque.

Classe in lotta e partito rivoluzionario sono le due facce della stessa medaglia, l'una senza l'altro (e viceversa) ancora una volta rimanderebbe a data da destinarsi il regolamento di conti con un sistema sociale ormai solamente nocivo, sempre che quest'ultimo non trascini nella catastrofe generale gli esseri viventi del pianeta. Di fronte a questa prospettiva, risulta persino ottimistica la considerazione contenuta nell'invito pressante rivolto dall'Internazionale Comunista agli Industrial Workers of the World, perché si unissero ad essa:

La storia non ci chiede se siamo dalla parte della ragione o no, se siamo pronti per la rivoluzione o no. Si è presentata un'occasione favorevole. Coglietela, e il mondo intero apparterrà ai lavoratori. Se ve la lasciate sfuggire, per un secolo non ce ne sarà una seconda (25)."

Celso Beltrami

(1) Discorso di Lev Trostky tenuto il 20 ottobre 1922, citato in Jane Degras, a cura di, Storia dell'Internazionale comunista attraverso i documenti ufficiali, volume primo 1919/1922, Feltrinelli, 1975, pag. 339.

(2) Tra i tanti scritti, ne citiamo alcuni: Mauro Stefanini, Avvio all'opportunismo: Note sul «fronte unico» , Franco Migliaccio, Kronstadt 1921, Analisi senza complessi di un sollevamento popolare nella Russia di Lenin , Prometeo n. 5, 1981, Fabio Damen, I nodi politici ed economici dello stalinismo, I nodi politici , in I nodi irrisolti dello stalinismo alla base della perestrojka , Edizioni Prometeo, 1989, CWO, 1921: l'inizio della controrivoluzione , Prometeo n. 5, 2002.

(3) Dalle Tesi sulla situazione mondiale e i compiti dell'Internazionale comunista, 4 luglio 1921, punti 1 e 2, in Aldo Agosti, a cura di, La Terza Internazionale, storia documentaria, Editori Riuniti, 1974, volume primo, tomo II, pag. 384.

(4) Lev Trotsky, Relazione sulla crisi economica mondiale e sui nuovi compiti dell'Internazionale comunista (seconda sessione del III congresso, 23 giugno 1921), in Problemi della rivoluzione in Europa, Oscar Mondadori, 1979, pag. 155.

(5) Per dirne una, la Germania avrebbe dovuto pagare alle potenze vincitrici oltre 300 miliardi di marchi oro in riparazioni di guerra, una cifra mostruosa, senza senso, che avrebbe finito di pagare, ammesso per assurdo che fosse riuscita a farlo, in alcuni decenni. Il denaro necessario al pagamento sarebbe potuto venire solo da un aumento massiccio delle esportazioni che, in un clima di chiusura delle frontiere, avrebbe voluto dire guerra dei prezzi ossia taglio drastico del salario e aumento delle prestazioni lavorative. Da notare, ancora, che le riparazioni avrebbero potuto colmare solo una frazione modesta del debito pubblico francese e britannico, cresciuto in maniera verticale a causa della guerra.

(6) In A. Agosti, cit., pag. 372.

(7) L. Trotsky, Relazione sul “bilancio” del III congresso dell'Internazionale comunista (II congresso della Internazionale giovanile comunista, 14 luglio 1921), in L. Trotsky, Problemi..., cit., pag. 212.

(8) Vedi le considerazioni di Mauro Stefanini nel libro edito da noi nel decennale della sua scomparsa, Le radici spezzate, il percorso ideologico della controrivoluzione in Italia, Edizioni Prometeo, 2015, pag. 30.

(9) Tesi sulla situazione mondiale...n. 34, in A. Agosti, cit., pag. 397.

(10) Tesi sulla tattica, 12 luglio 1921, in J. Degras, cit., pag. 267.

(11) Vale a dire resta aziendale, categoriale e non si trasforma in lotta politica, conservando il carattere rivendicativo di partenza, quindi accettando implicitamente il quadro capitalistico.

(12) Tesi sulla tattica, cit., pagg. 268 e 269.

(13) Tesi sulla tattica, n. 3, in A. Agosti, cit., pag. 413.

(14) Fabio Damen, L'approccio alla questione partito, Prometo n. 9, 1985. In questo articolo, oltre a definire natura-ruolo del partito contro ogni sorta di idealismo e di meccanicismo, si dà un esempio diretto su come il partito dovrebbe agire tatticamente nel campo delle lotte “rivendicative” (in questo caso, la grande lotta dei minatori inglesi di metà anni Ottanta).

(15) Dalle Tesi sul ruolo del Partito comunista nella rivoluzione proletaria approvate dal secondo congresso del Comintern, 24 luglio 1920, in J. Degras, cit., pag. 144.

(16) Tesi del Comitato esecutivo sul fronte unico dei lavoratori e sui rapporti coi lavoratori che aderiscono alla Seconda Internazionale, alla Internazionale due e mezzo e alla Internazionale di Amsterdam, nonché coi lavoratori che appoggiano le organizzazioni anarco-sindacaliste, in A. Agosti, cit., pag. 524 e pag. 527.

(17) Lenin, Osservazioni sui progetti di Tesi sulla tattica per il III congresso dell'Internazionale Comunista, lettera a Zinoviev, primi di luglio del 1921, in V. I. Lenin, Opere scelte in sei volumi, Editori Riuniti-Edizioni Progress, 1975, vol. 6, pag. 489.

(18) Lenin, Discorso in difesa della tattica dell'Internazionale Comunista, 1 luglio 1921, in Lenin, Opere scelte, cit., pag. 498. E nella Lettera ai comunisti tedeschi, 14 agosto 1921, Lenin diceva:

La conquista della maggioranza non è certamente intesa da noi in modo formale come la intendono i paladini della “democrazia” filistea dell'Internazionale due e mezzo. Quando nel luglio 1921, a Roma, tutto il proletariato – il proletariato riformista dei sindacati e il proletariato centrista del partito di Serrati – ha seguito i comunisti contro i fascisti, è avvenuta la conquista della maggioranza della classe operaia da parte nostra […] Tale conquista è possibile anche quando la maggioranza del proletariato segue formalmente i capi della borghesia o i capi che fanno una politica borghese (come tutti i capi della II Internazionale o dell'Internazionale due e mezzo), o quando la maggioranza tentenna.

Lenin, Opere scelte, cit., pag. 528

(19) Giovanni Sanna, Intorno alla tattica, in Rassegna comunista, n. 7, 30 luglio 1921, pag. 325. Il fatto che Sanna abbia poi seguito la parabola controrivoluzionaria, schierandosi con Gramsci e Togliatti, non toglie nulla a un'analisi che esprimeva il punto di vista del partito.

(20) G. Sanna, cit., pag. 324.

(21) A scanso di equivoci, ripetiamo che per classe operaia intendiamo il mondo del lavoro salariato e dipendente (nelle sue fasce più basse), nonché larga parte di quello sedicente autonomo.

(22) G. Sanna, cit., pag. 326.

(23) Che l'organizzazione comunista non smette mai di propagandare tra le masse.

(24) G. Sanna, cit., pag. 321. Nelle nostre tesi sindacali del 1997, Prometeo n. 13, il concetto è sostanzialmente ribadito:

Tesi 7. Non si dà quindi una reale difesa degli interessi, per quanto immediati, dei lavoratori se non fuori e contro la linea sindacale e ogni tipo di mediazione contrattualistica, sempre perdente, da chiunque diretta e gestita. Di fronte agli attacchi del capitalismo in crisi, la difesa concreta degli interessi operai si scontra immediatamente con le esigenze di sopravvivenza del capitale. In questo senso la distinzione fra lotte di difesa e lotte di attacco si verifica appieno solo per quanto riguarda il contenuto politico delle lotte. È di difesa, ove sorgesse dalle lotte reali della classe - e non dalla fantasia radical riformista di ceti politici ex-stalinisti e ora in fase di riciclo - la rivendicazione della diminuzione di orario a parità di salario. Così come è di difesa delle masse disoccupate e marginalizzate la rivendicazione di un salario minimo garantito. Entrambe queste rivendicazioni (che sembrano costituire oggi il programma politico del radical-riformismo) rappresentano infatti una necessità vitale delle masse proletarie, brutalmente negata dalle "necessità" di sopravvivenza del capitale. Ove venissero praticate come rivendicazioni reali esprimerebbero la volontà di autodifesa del proletariato e al contempo la necessità dell'abbattimento del modo di produzione capitalista. L'assunzione o meno di questa necessità come programma delle lotte le caratterizzerebbe nella loro potenzialità di vittoria, indipendentemente dalla loro caratterizzazione come difensive o di attacco.

(25) Lettera del CEIC (Comitato Esecutivo dell'Internazionale Comunista) agli Industrial Workers of the World, firmata dal G. Zinoviev, presidente del CEIC, gennaio 1920, in J. Degras, cit., pag. 87.

Martedì, September 20, 2016

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.