Pensieri e opinioni degli “scienziati” al capezzale del capitalismo in crisi

Quotidianamente assistiamo, attraverso stampa e televisione, allo spettacolo (spesso ai limiti della… oscenità teorica) che gli esponenti, più o meno di grido, della comunità “scientifica” borghese offrono al loro pubblico nella vana ricerca di addebitare la crisi, che si trascina globalmente da anni, ad errori ripetutamente commessi dai Governi (comitati d’affari della borghesia) nel campo di una “sana” e accorta politica, in particolare di gestione finanziaria. Quegli errori – a suo tempo da tutti condivisi, premi Nobel compresi, e imposti come premesse per un sano sviluppo economico (mentre i motori della produzione di merci stavano già arrancando) – sarebbero oggi da considerarsi responsabili diretti di quella condizione di pericolo in cui versa l’altrimenti “efficiente e stabile” sistema (nei suoi settori di produzione e di circolazione) nel quale viviamo, addirittura da fortunati mortali.

Ma entriamo direttamente nei… gabinetti (rigorosamente scientifici, s’intende) dove gli economisti borghesi stanno invocando niente di meno che una crescita dei prezzi (inflazione); e poiché la produzione di merci e il loro consumo non aumentano (al punto che si fatica a seguire i ritmi di crescita demografica (1), con percentuali d’aumento del Pil che gettano in costante prostrazione il capitale e i suoi gestori…), si fa ricorso per l’appunto ai miraggi di politiche monetarie inflattive. In proposito, circola un’altra opinione pubblicamente diffusa sia fra gli “esperti” sia fra i mass media: è quella secondo la quale i bassi tassi di interesse per i prestiti di denaro ai privati sarebbero il mezzo migliore per favorire gli investimenti e quindi “espandere” l’economia. Ma pur senza aspirare ad un premio Nobel dovrebbero essere più che evidenti, addirittura lapalissiane, alcune pre e post condizioni. Innanzitutto, una “misura” del genere verrebbe presa proprio di fronte ad una situazione di “avvitamento” su se stessa della cosiddetta “economia reale”; una economia che – essendo entrata in crisi (c’è chi dice: “in turbativa” per cause attorno alle quali gli economisti borghesi non sanno più cosa inventarsi!) ed anziché “espandersi” si “restringe” – si presenta già con un ridotto, anzi ridottissimo utilizzo delle proprie capacità industrialmente produttive. La domanda di merci si è bloccata (mentre crescono i “bisogni” di mezza umanità costretta alla miseria!): una vera e propria pugnalata al petto del capitalismo e del suo costante sviluppo. Tutto ciò – perdurando il dominio del capitale – lo si deve anche ad una mancanza di denaro nelle tasche della maggior parte dei proletari (cioè la massa degli acquirenti tramite lo scambio denaro-merce), costretti a bassi salari o addirittura senza denaro qualora non trovino quei “posti di lavoro” dove la loro forza-lavoro possa essere sfruttata con profitto dal capitale, privato o statale.

Va posta però a questo punto una premessa fra le tante condizionanti la sopravvivenza del sistema capitalista, sempre ammesso e non concesso che il problema sia riconducibile ad una scarsità di capitale, al contrario in grande abbondanza. Si tratterebbe precisamente di fornire alle Banche la disponibilità di denaro in modo da poter colmare i vuoti che le stesse lamentano nelle loro casse. Là dove i borghesi doc hanno affondato e affondano mani e piedi affinché possano svolgere i loro “affari” (tanto privati che pubblici…) i quali non si basano su prestiti per investimenti in produzioni di merci: una produzione – ecco il punto dolente – che non risulta in molti settori più sufficientemente remunerativa di profitto.

La gestione finanziaria della crisi

Per non strangolare le Banche in difficoltà proprio a seguito di quel tipo di affari (speculazioni e intrallazzi finanziari) che devono essere adeguatamente “foraggiati”, le Banche centrali, prima la Fed e poi la Bce, hanno applicato nel tempo tassi per il denaro che in definitiva sono arrivati ad essere persino negativi. Ma questo – ecco un’altra conseguenza degli espedienti a cui il sistema fa ricorso – non ha fatto altro che aggravare la crisi, gettando legna sul fuoco proprio là dove (secondo la scienza economica borghese) si sarebbe dovuto non soltanto arginare la crisi ma creare le “condizioni per la ripresa”. Ovvero, con il ricorso ad interventi nella sfera finanziaria (sempre secondo gli “scienziati” del capitale).

In effetti, sul settore azionario e su quello dedito alla speculazione in generale è piovuta una supplementare dose di manna celeste gestita dalle Banche per scopi “privati”, naturalmente quelli più lucrosi anche se al limite (e oltre) della criminalità vera e propria. E se qualche investimento di capitale a fini produttivi di merci c’è, esso riguarda alcune ristrutturazioni aziendali e innovazioni tecnologiche in specifici settori, a beneficio comunque della... disoccupazione, cioè aumentando i dipendenti in esubero con la introduzione di tecnologie avanzate! Qui va detto e ribadito, a chiare lettere, che il capitale persegue un solo obiettivo: quello di una produttività che dovrebbe diminuire (magari fino a sfiorare lo zero!) il costo marginale dei prodotti-merci affinché sia garantito un ”buon profitto”per remunerare il capitale investito. Ovvero, il valore di quanto viene prodotto nelle aziende dovrebbe essere di gran lunga inferiore al costo stesso di produzione: questo sarebbe il desiderio del capitale che così altro non fa che scavarsi la fossa! E pretende inoltre il costante e infinito rifornimento di una “liquidità” che – per grazia di Dio e volontà della nazione – gli faccia da sostegno di produzioni sempre meno remunerative in fatto di profitto!

Da parte loro, le Banche altro non hanno fatto (né potevano fare) che indebitarsi a costo zero e acquistare Bond del Tesoro con rendimenti che assicurassero ottime plusvalenze. Addirittura, come è accaduto in Usa, potevano depositare denaro in “affidamento” presso la Fed ricevendo un interesse (a decine di miliardi...) col quale rimborsare i prestiti ottenuti dal Governo per i propri “salvataggi”. Prestiti stimati, nel marzo 2012, a 1.500 mld di dollari. Quanto ai “depositi” sopra citati, frutterebbero alle Banche americane almeno 4 mld di dollari all’anno.

Si aggiunga poi l’attività lobbistica delle Banche, in grado di influenzare le misure legislative del Governo per una migliore salvaguardia dei propri interessi, oltre ad assicurare mano libera nell’imporre regole e provvedimenti a proprio vantaggio. Un esempio: nel giugno del 2011 la Fed impose un costo di 24 centesimi di dollaro per le Commissioni bancarie richieste ai commercianti (transazioni tramite carte di credito) quando quel costo era già stato stimato nel 2010 – e dalla stessa Fed! – a 12 centesimi.

E va anche detto che per la Fed un debito pubblico a livello zero non consentirebbe alla stessa una favorevole gestione di politica monetaria che permette di aumentare o ridurre i tassi di interesse con la vendita o l’acquisto di Buoni del Tesoro governativi. Da ciò il sostegno del guru Greenspan a riduzioni fiscali (2011): “un fatto di gran bene”, dichiarava in una deposizione al Congresso, 25 gennaio 2011. E il debito pubblico si alzava…

Tagliate le tasse, nel 2010, i costi di bilancio si alzarono e nel 2012 il deficit di bilancio per circa un quinto fu dovuto proprio a quei tagli. Poi ci furono le guerre in Iraq e in Afghanistan (centinaia e centinaia di miliardi dilapidati): ancora nel 2012 il 15% del disavanzo Usa era dovuto alle conseguenze delle spese sostenute in quelle guerre. Naturalmente gli appalti per le forniture necessarie alla “difesa della democrazia” procurarono ad alcuni “patrioti” dei colossali sovra-profitti, vere e proprie “rendite” (vedi Halliburton con un contratto di 7 mld di dollari per la guerra in Iraq). Si trattava di armamenti sempre più costosi; ma più o meno lo stesso accade in altri settori, fra cui quello dell’industria farmaceutica.

A proposito di conflitti bellici (a latere di quelli commerciali), secondo l’Eisenhower Study Group Research Project, dal 2001 al giugno 2011 furono spesi da 3.200 a 4.000 mld di dollari per le guerre in Iraq, Afghanistan e Pakistan. Solo l’aumento delle ufficiali spese per la difesa americana, tra il 2003 e il 2008, fu di 600 mld di dollari. Più le spese “nascoste”... Guerre finanziate con carta di credito?

Ricapitalizzazione bancaria

Torniamo alle ricapitalizzazioni delle Banche americane, a giustificazione dei “regali” fatti dalla Fed la quale “spiegò” la manovra (cioè gli interessi pagati) con la necessità di “fornire sufficiente liquidità a sostegno della stabilità finanziaria”. Quindi giù il cappello davanti agli “obiettivi macroeconomici del Federal Reserve System, ossia la massimizzazione dell’occupazione e la stabilità dei prezzi”. (www.federalreserve.gov/monetarypolicy)

Greenspan (allora presidente della Fed) diede il suo contributo alla deregolamentazione in atto nel mondo finanziario (il dogma imperante era valido per tutti i mercati) e quindi allo sviluppo dei derivati. Non solo, ma alla

Fed fu affidato il compito di far rispettare “regole” pressoché inesistenti: una sorveglianza sui derivati stessi, quelli che il Governo sottoscriveva tramite la Fed! In seguito, e con l’altro capo della Fed, Bernanke, mld di dollari in Cds hanno riempito i portafogli bancari; il bilancio patrimoniale della Fed passò da 870 mld di dollari (giugno 2007) a 2.930 mld (febbraio 2012). (sito Board of Governos of the Federal Reserve). Quindi sia la Fed che il Segretario del Tesoro Usa si opposero ad ogni altra regolamentazione (re­regulation) dei derivati. Cosa non farebbe una “pubblica istituzione” per il bene dei cittadini!

Senza parlare poi dei comportamenti della onnipresente Goldman Sachs e dei suoi complessi legami anche internazionali. In ogni crisi più o meno globale, i guadagni della Goldman Sachs hanno raggiunto cifre vertiginose, con cataste dei suoi fallimentari “prodotti finanziari” sparsi ovunque nel bel mondo borghese. E quello che poi tutti ammisero più o meno apertamente riguardo ai “salvataggi” compiuti dalla Fed: alcuni di essi riguardarono anche Banche europee, dove furono “pompati” dollari attraverso le filiali americane. Fu il caso della Dexia, banca franco­belga, che tra la fine del 2008 e l’inizio 2009 incassò oltre 30 mld di dollari. In seguito, la Dexia ricevette dalla Autorità Bancaria Europea (Eba) un certificato di “buona salute” (luglio 2011). Tre mesi dopo, le azioni persero il 22% e quindi la Dexia fu sottoposta ad operazioni di... salvataggio.

Le “sofferenze” mercantili

Affondando il coltello nella piaga, possiamo constatare quanto essa si sia allargata e approfondita da quando i motori del mercato manifatturiero hanno cominciato a battere in testa.

Stiamo andando all’indietro di almeno due decenni, quando per “ossigenare” mercati e consumi di merci – che cominciavano ad evidenziare segnali di sofferenza – si allargò il commercio di home equity loans e la circolazione di pacchi di ipoteche. Migliaia di miliardi di dollari in carta straccia. Più avanti, nel 2011, si ammise che oltre un quinto delle ipoteche di immobili accumulatesi aveva un valore inferiore a quello nominale: l’intestatario doveva sborsare più del valore reale della sua abitazione. Sarebbero stati oinvolti nella truffa quasi 14 milioni di americani, con un totale di “capitale negativo” netto di 700 mld di dollari. Inoltre, in cinque anni (2007/’11) furono avviati 8,2 milioni di pignoramenti di abitazioni: 4 milioni furono eseguiti.

Nel 1991, già in un clima di recessione più o meno nascosta dai mass media impegnati in quotidiani “lavaggi del cervello” e manipolazioni dei dati e dei comportamenti sia individuali che collettivi, si tentò da parte della Fed di “orchestrare” lo spartito di uno sviluppo zoppicante e sempre più stonato. Furono abbassati i tassi di interesse ma il risultato fu quello di gonfiare la bolla tecnologica, ossia di spingere ad un eccesso di investimenti nel nuovo settore. I prezzi delle azioni di quelle imprese salirono alle stelle mentre le Banche diffondevano altre azioni più che sospette (prodotti detti dog).

A gonfie vele viaggiarono inizialmente le entrate delle plusvalenze e i ritorni delle speculazioni sulle azioni hi-tech (alta tecnologia). Quando poi tutto esplose fragorosamente e rovinosamente, si pensò bene (con il geniale George W. Bush) di ridurre le imposte sui dividendi (dal 35% al 15%) e le aliquote sul capital gain (dal 20% al 15%). In più, si procedette ad una graduale eliminazione delle imposte sulle successioni. La “deregolamentazione” imperversò, abbattendo quelle già fragili regole e gli apparenti vincoli che comunque – si disse – ostacolavano un “sano sviluppo” dei profitti industriali, il cui calo cominciava a manifestarsi tendenzialmente in rapporto alla enorme massa di capitali investiti (per renderli competitivi) nei settori produttivi di merci, i quali, per altro, rallentavano le loro attività.

In presenza delle “normali regole capitalistiche”, i mutui ipotecari in sofferenza non erano stati ristrutturati dalle Banche: queste avrebbero dovuto riconoscere perdite ingenti (che furono comunque solo “evitate” attraverso manovre contabili) a fronte dei reali valori di mercato dei mutui in questione, i quali “rendevano” una piccola frazione del loro valore nominale.

La “costante fissa” di quei decenni trascorsi e che qui abbiamo sintetizzato, in definitiva fu la pratica dei salvataggi bancari a diffusione internazionale. 1995: Messico; 1997/’98: Indonesia, Corea e Thainlandia; 1998: Russia; 2000: Argentina e infine gli Usa nel 2008/’09.

Fra i più eclatanti esempi citiamo la Aig, che ricevette oltre 150 mld di dollari, più di quanto (140 mld) avesse speso il governo in programmi assistenziali per milioni di famiglie bisognose tra il 1990 e il 2006, cioè in ben 16 anni! Da notare poi che l’Est asiatico, con alti tassi nazionali di risparmio, in teoria non avrebbe dovuto ricorrere a prestiti esteri. Ma con la pressione del Fmi, i Paesi asiatici si indebitarono con le Banche d’Occidente. Il denaro sembrò correre a fiumi ma, quando le “prospettive” di profitto si abbassarono, rifluì altrove (crisi 1997). Altissimi i guadagni delle Banche che avevano concesso i prestiti, grazie anche ai buoni uffici del Fmi e del Tesoro Usa. In conclusione, sarebbero state ben 18 le crisi del settore bancario nel “mondo sviluppato” a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. Oggi però alcuni, come Rogoff e Reinhardt, preoccupati ci avvertono: “Questa volta la situazione è diversa...”. Decisamente più allarmante.

Attacchi a salari e pensioni

Le élite politico-finanziarie del mondo capitalista, alimentate dai membri ufficiali dell’attuale establishment, da una parte (destra) hanno approfittato della crisi (cercando di… “superarla”) per sferrare attacchi a getto continuo contro i salariati e i pensionati, oltre a ingigantire gli eserciti dei disoccupati; dall’altra (sinistra) invocando una rispolverata a qualcuna delle idee keynesiane, compreso il “toccasana” di una più severa politica fiscale (a parole) per la sopravvivenza di un sistema sempre più oligarchico e ormai demenziale per gli effetti che sta provocando. Quella dell’espansione fiscale è di moda (un giorno sì e l’altro no) anche negli ambienti mainstream i quali però mascherano la manovra fingendo demagogiche modifiche a vantaggio “popolare”. Sarebbe questo uno dei punti del “programma riformistico” propagandisticamente sbandierato dalle fazioni borghesi che figurano a “sinistra”. Da parte sua, anche la destra avanza proposte di vantaggi fiscali puntando soprattutto sui redditi e i profitti dei “cittadini” medio-alti, al fine – si dice – di impedire che eccessive imposte causino una paralisi delle fruttuose attività esercitate dai vari settori borghesi. E ne offrano di nuove (a salato pagamento!) sostitutive di un welfare evanescente. Altre “scuole di pensiero” sostengono che l’imposizione fiscale debba esercitarsi sui consumi, non certo andando a disturbare profitti, patrimoni e rendite!

Facile poi constatare che, anche là dove la pressione fiscale si è mantenuta alta, non si è visto alcun rafforzamento del mitico welfare, anzi il contrario, ossia lo si è ridimensionato, con il corollario di privatizzazioni dei servizi, spending review e altre “stangate” a danno (diretto o indiretto) dei proletari.

Fari accesi sul “progressista” Stiglitz - Per chi fosse interessato a sentire le opinioni ad alto spessore di prestigiose firme della “scienza economica” borghese, ecco farsi avanti nientemeno che un Nobel (2001): Stiglitz, Trattasi di una superstar che ha ricevuto una quarantina di lauree honoris causae; è stato capo economista della Banca Mondiale (1997-2000), responsabile del Council of Economic Advisors durante la Presidenza Bill Clinton, e Presidente della Commissione delle Nazioni Unite sulla riforma del sistema monetario e finanziario internazionale (2009). Fra gli estimatori del movimento di Occupy Wall Street.

Ultimamente, in compagnia di Friedman (principale portabandiera del “fondamentalismo del mercato”), si è distinto fra i sostenitori della tesi secondo la quale i mercati non devono avere freni, poiché loro stessi sarebbero “per natura” concorrenziali e quindi “efficienti”. Il potere dei monopoli non esisterebbe se non marginalmente, e quindi sarebbe meglio non disturbare troppo il normale funzionamento del capitalismo (bollenti spiriti a parte).

Il geniale Stiglitz fa parte di quella intellighènzia borghese la quale – come lui stesso ci spiega – “da 75 anni conosce i principi fondamentali per mantenere l’economia in condizioni di pieno impiego, o quasi”. Come? Basterebbe solamente una “macropolitica ben disegnata”; meno squilibri di bilancio e meno deficit commerciali. E si brindi alla salute del capitale!

Scorrendo le pagine di alcuni scritti di Stiglitz si possono scoprire vere e proprie perle di quella che sarebbe la collana di magiche rivelazioni che è stata confezionata in questi ultimi anni dalla “migliore” scienza economica (alla quale appartiene lo stesso Stiglitz), in contrapposizione a quella “peggiore” esibita da altri esponenti della suddetta scienza, caduti in disgrazia momentanea.

Per esempio, in una nota del suo libro Il prezzo della disuguaglianza (Einaudi 2012), Stiglitz ci spiega che

i presupposti di razionalità, nel linguaggio tecnico della economia, sono che gli individui massimizzino una funzione di utilità ben definita (o un insieme ben definito di preferenze) e massimizzino quella che corrisponde ad aspettative razionali.

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Per concretizzare questi eclatanti presupposti (meritevoli infatti di un premio Nobel...), Stiglitz lamenta la mancanza di una “trasformazione strutturale” in grado – ecco i mattoni scientifici coi quali anche uno Stiglitz costruisce le fondamenta della... “ripresa”! – di procedere con “investimenti ad alta produttività per ristrutturare l’economia (...) spostando risorse da vecchi settori meno competitivi a nuovi settori”. E così – conclude Stiglitz – che “si stimola l’economia e si aumentano i redditi”...

Ma qui il nostro premio Nobel incontra un altro ostacolo ai suoi calcoli scientifici: dovrebbero infatti aumentare, in lungo e in largo, le riforme strutturali dispiegando tutta la loro “efficienza produttiva” e di conseguenza occorrerebbero meno lavoratori per produrre un maggiore volume di merci. E allora dove trovare i consumatori paganti delle merci in esubero? Si stimolano le “offerte” dell’economia, sì, ma per chi?

Dov’è la domanda, ossia chi ha il denaro per “acquistare” merci? Il cane si morde la coda e gli economisti borghesi si aggrappano ai supposti effetti di una... “crescita” che non c’è. Insomma, si dovrebbe cominciare a produrre, poi si vedrà come e a chi vendere ciò che si è prodotto. Quello è il copione, altri non ve ne sono. Almeno senza ribaltare il trono sul quale siede il capitale.

Anche un individuo a basso livello intellettivo dovrebbe comprendere che gli incrementi di produttività, via via conseguiti nei settori manifatturieri, danno corpo a cataste di merci le quali non rimarrebbero bloccate nei magazzini alla sola condizione che gli operai che sono occupati per produrle, in cambio di un salario (sempre più ridotto...), aumentassero di numero (e a grandi numeri!) anziché trovarsi in esubero e diminuire costantemente. Ma non solo: si dovrebbero altresì convincere i “consumatori” ad acquistare soprattutto prodotti in buona parte inutili o dannosi, indispensabili però per la valorizzazione del capitale. Ed é poi lo stesso “progressista” Stiglitz ad ammettere che una eccessiva produzione, e consumo, di beni materiali in maggior parte superflui porta anche ad un tale inquinamento e riscaldamento globale da mettere la Terra in pericolo e così pure la sopravvivenza delle specie che la abitano. Gli allarmi sulle risorse in calo sono frequenti; petrolio (con estrazioni sempre più costose e pericolose), acqua, minerali, terreni: aumentano invece i rifiuti mentre si paventa un esaurimento del ciclo dell’azoto, assieme alle perdite di bio-diversità e ai cambiamenti climatici.

Un ni per l’euro

In origine contrario all’euro, Stiglitz oggi ci regala proposte per il “minor dei mali”, ossia un salvataggio in extremis dell’euro e dell’Europa capitalista per evitare – a questo punto – il peggio. Occorrerebbero, dice il nostro, aumenti salariali in Germania con la illusione di trainare la crescita (Keynes, ci ricorda il professore della Columbia, voleva una tassazione sui paesi in avanzo commerciale). Più in generale, la ricetta per tutti i Paesi della UE prevederebbe: eurobond, quadro fiscale unico e fine delle disuguaglianze (giusto Piketty) con tasse sulla ricchezza e sui capitali, unione bancaria, giusta politica industriale, ristrutturazione dei debiti.

Per altri “esperti” (fra i tanti un P. Pellizzetti, nostrano politologo genovese, all’ombra di eminenti personaggi come L. Summers (2) e P. Krugman), il capitalismo finanziario sarebbe al lumicino non avendo più una “spinta propulsiva”. Siamo al “sopravvivere per perpetuarsi”, magari accodandosi alle parole di un pontefice (3) … E con la politica che rimarrebbe formalmente (come scriveva Hobbes nel Seicento) l’unico strumento per evitare che la vita diventi “più brutale, più breve e più grama”. Un “fenomeno” per altro più che certo per le masse proletarie…

Ed ecco un’altra star dell’economia capitalista, Krugman, il quale si vede costretto ad ammettere il susseguirsi di “disastri economici” (per lui soprattutto europei…) e a preoccuparsi per il tasso di disoccupazione che, sempre in Europa, si aggira ufficialmente (si sa con quali manipolazioni…) attorno al 10%. Non che in Usa le cose vadano meglio. Stiamo citando un Krugman che figura fra gli “economisti interessanti”, quelli ben visti dagli pseudo anticapitalisti come l’italico nazional-populista Grillo (4); un Krugman che rimpiange – a nome del capitale “buono” e degli affari “onesti” – i bei tempi delle svalutazioni di alcune monete, dando respiro alle esportazioni delle merci di paesi in difficoltà. Ed oggi, a questo guru non rimane che aggrapparsi ad un “sistema di garanzie bancarie unificate”, che possa poi ridurre i debiti dei vari paesi. Si creerebbe – lo si legge in una sfera di cristallo – un ambiente più favorevole per i sopraddetti affari, per un rialzo “salutare” dell’inflazione e un “miglior funzionamento dell’euro”. Sono gli ultimi chiodi a cui appendere il futuro del capitale. Ma il muro si sta sgretolando, con un capitale che continua a scavarsi la fossa sfogando i suoi istinti predatori: dissoltisi i legami con la “economia reale”, vive alla giornata in vesti finanziarie con speculazioni, rendite parassitarie e rapine dagli effetti devastanti, in qualità e quantità, sugli uomini e sulla natura.

Redditi… differenziati e speranze inflative

Sul tema salari, senza i quali la stragrande maggioranza della popolazione (i proletari) cade in uno condizione di miseria e addirittura di fame, il fatto che subiscano da anni una diminuzione sarebbe dovuto unicamente alla “competizione” esistente nel mercato del lavoro, Ce lo dice la cosiddetta “disciplina macroeconomica”, alla ricerca di una “stabilità generale” e registrando un fallimento dopo l’altro dei suoi modelli per l’appunto... macroeconomici. Modelli che si basano su scommesse il cui prezzo viene pagato unicamente da quella classe sociale (il proletariato) che – ci dicono – non esisterebbe più! E con argomentazioni da serate al bar si giustificherebbero i lauti stipendi percepiti da questi “scienziati” del capitale, pronti a fingere di cambiare disco (anche se poi la musica ha sempre il medesimo ritornello...) ad ogni tremolio delle impalcature che sostengono il castello del capitalismo globale.

E così, ritornando alla questione “inflazione sì e no”, dopo aver dichiarato per anni che l’economia di mercato prospera in presenza di una inflazione bassa e stabile (se sale sorgono nuovi problemi...), ora si fanno voti per una ripresa inflattiva anche se a questa si dovrà pur pagare qualche pedaggio. Come mai? I tecnici avrebbero scoperto che poiché l’inflazione tende a crescere se aumenta l’occupazione e l’economia “tira” (ammesso ma non concesso), allora forse creando prima l’inflazione l’effetto potrebbe essere quello di far crescere in un secondo tempo l’economia reale. Lo stesso per i tassi di interesse: si prova ad aumentarli prima affinché gli obbligazionisti si convincano che se una bassa inflazione sembra favorirli al momento (facendo loro ricevere interessi più alti), ecco che invece minaccioso per tutti si fa il domani!

Molti economisti (fra questi è sempre presente Stiglitz) cercano di convincere la pubblica opinione che se i prezzi aumentano certamente aumenterà anche “il ritorno marginale sul lavoro facendo proporzionalmente aumentare anche i salari”... Insomma, basterà far meglio circolare il denaro e avremo assicurata sia la “crescita economica” sia il benessere per i cittadini. La “ricchezza”, per alcuni di essi ed esclusi naturalmente i proletari, è già da tempo in forte crescita.

In definitiva, tutti questi apologeti del capitalismo (con benevoli critiche a qualche suo eccesso, purché non si scalfiscano minimamente i vigenti rapporti di produzione e distribuzione…) danno la netta impressione di volgersi là dove tira il vento. Per esempio, di nuovo Stiglitz critica l’Fmi quale strumento di applicazione del Washington consensus, ma questo solo perché il Fmi non si preoccuperebbe di appoggiare adeguatamente i Paesi economicamente deboli. Questo infatti sarebbe – sempre secondo Stiglitz – il modo migliore per assicurare la stabilità economica del capitalismo a livello globale. E’ quindi “contrario” ad un iper-liberismo che mette al palo le economie capitaliste in crisi, e pende per un liberismo dalle buone maniere e controllato dai “pubblici” poteri… Per questo nel 2011 ha appoggiato il movimento pacifico Occupy Wall Street, denunciando gli abusi (indubbiamente certe “esagerazioni” sono pericolose per gli stessi che le applicano!) compiuti dal sistema finanziario. Stiglitz si è fatto anche critico dell’Europa dell’euro, senza però aderire ai movimenti anti-europeisti e in sostanza dichiarandosi non per una distruzione dell’euro ma soltanto per un passo indietro. L’impressione, per tutti quanti, è che nella loro personale scarpiera vi siano diverse paia di scarpe nei quali di volta in volta si vanno ad infilare le proprie estremità (quando non camminano con la testa per terra e i piedi in aria…).

E così, ultimamente, Stiglitz (proteso, come egli stesso dichiara, a “ricreare le fondamenta dell’economia”) si è fatto un convinto paladino del progresso tecnologico quale fattore principale dei “processi di crescita” nelle nuove prospettive economiche del capitalismo. La società – enuncia Stiglitz – deve essere più produttiva (di merci). Sarebbe la condizione, anche se il Nobel in questione non lo dichiara esplicitamente, per garantire l’accumulazione del capitale e i suoi investimenti per produrre sempre più merci e commercializzarle. Esattamente quella iper-produzione folle, con un conseguente (tale dovrebbe essere, ma in realtà è qui che casca l’asino!) iper-consumo. Il cervello di Stiglitz si impegna a questo punto per arrivare alla elaborazione di un nuovo modello teorico con “nuove politiche” industriali, purché l’economia di mercato non vada in alcun modo intaccata, ma semmai aiutata dalle istituzioni pubbliche. Ce lo spiega (si fa per dire!) nel suo libro Le politiche dell'apprendimento centrali per la costruzione di una nuova società, per la Columbia University Press, dove fra l’altro si vede costretto ad ammettere i “fallimenti del mercato” se lasciato a se stesso. Ne conseguirebbe la necessità di adeguate politiche industriali pubbliche (?) per correggere i difetti e “qualche fallimento” dei mercati che “da soli non bastano per creare una efficiente produzione”.

Sono “idee” già propagandate da un H. Minsky, esponente della scuola post-keynesiana, nel tentativo di una riconciliazione con tutti i postulati della teoria neoclassica, cercando di rivalutare l’importanza che avrebbe il settore finanziario. Ed il crollo dei mutui subprime sarebbe stata la causa della crisi (finanziaria) negli Usa. Scomparso nel 1996, il piatto forte del menù da lui presentato per una rigenerazione del capitalismo era quello di una socializzazione degli investimenti, assegnando allo Stato il compito di fronteggiare la disoccupazione che inevitabilmente si presentava nel processo di sviluppo del capitalismo stesso. Bastava inventare impieghi al di fuori del settore produttivo di merci e remunerare con un salario “dignitoso” chi quei tipi di lavoro accettava. I settori interessati sar4ebbero stati quelli della istruzione, salute, servizi sociali, cura dell’ambiente, del territorio, dei beni culturali e artistici. Come conclusione del sogno borghese ad occhi aperti: la “piena occupazione salariata” e di conseguenza la “stabilità del sistema finanziario”. Tutto in regola, ignorando le “logiche” del capitalismo che – purtroppo – imporrebbero (ammesso e non concesso un tale piano da “socialismo in un solo paese”, già sperimentato con gli esiti che tutti sappiamo), su ammissioni degli stessi sostenitori, un “sistema di imposte fortemente progressivo” e la cancellazione di sgravi e agevolazioni alle imprese… E questo non fa certo parte di un piano di “riforme sane e costruttive”! Tant’é che – di nuovo Stiglitz – non si può fare a meno dal riconoscere che “l’innovazione è rischiosa”. Ma allora come meglio disegnare le politiche industriali e commerciali, alle quali tutti si aggrappano per tenere in piedi le loro “nuove teorie”? Ecco che il nostro Nobel si vede costretto a dubitare delle politiche neoliberali e si appella ai “benefici” che potrebbero (?) aversi da qualche manipolazione sui tassi di cambio e, “a volte”, da interventi di una politica di “industrial protection”. I benefici,sempre stando alle visioni di Stiglitz, sarebbero per l’intera società. E cita persino come esempio quello della… Corea del Sud, anche grazie a quelli che sarebbero stati opportuni interventi statali messi in atto dal Governo locale. Ergo, sul “ruolo economico dello Stato” Stiglitz non ha dubbi, non solo, ma ci tiene a precisare che in definitiva non vi è alcuna contrapposizione di “idee” fra la destra e la sinistra borghese. La preoccupazione comune (da affrontare con “proposte analitiche”…) sarebbe quella di “aggiustare” ciò che non va nel capitalismo, mirando a risultati “positivi”. Le analisi, manco a dirlo, sarebbero condotte e si fonderebbero sulle cosiddette “aspettative razionali”; una versione dell’antico detto: “campa cavallo che l’erba cresce”… Peccato che il terreno sia completamente brullo.

Lo dovrebbero fertilizzare, rivitalizzando il capitalismo e addirittura con preoccupazioni per il futuro dell’umanità, interventi proposti in alcune ricette di questo tenore: controllare le risorse e le emissioni (vedi quanto detto più sopra); riforme fiscali per la “sostenibilità”; sostegni per la transizione ecologica; sviluppare una macroeconomia ecologica; regolare (con maggiore “spirito prudenziale” le acrobazie contabili e finanziarie, nuove politiche sull’orario di lavoro (?); rivedere la cultura del consumismo, eccetera. La condizione primaria sarebbe quella di rafforzare il capitale sociale.

A sostegno di tale lista da spedire a Babbo Natale, troviamo nomi altisonanti e ben stipendiati, autori di saggi che mirano a plasmare la “pubblica opinione” a proprio uso e consumo. Direttamente o indirettamente tutti abbarbicati sulle spalle di Maestri quali Keynes, Schumpeter, Kaldor, Minsky e la scuola post-keynesiana, Una “consorteria” di tutto rispetto e con brillanti curriculum da professori mainstream, che rappresenterebbe il “progresso” in vesti capitalistiche e borghesi. Per il bene delle umane genti…

DC

(1) Sete, fame, emarginazione, conflitti: sono le prospettive che – perdurando il capitalismo e la società borghese – si annunciano per i prossimi decenni a fronte di una esplosione demografica che dai 7 miliardi di esseri umani oggi presenti sulla Terra, raggiungerà i 9 miliardi attorno al 2050 e gli 11 miliardi nel 2100 (stime Onu). In particolare saranno i paesi africani a raddoppiare la loro popolazione. Questa crescita esponenziale, se continuerà l’attuale consumo di risorse a seguito del consumismo che dovrebbe tenere in vita il capitalismo, diventerà drammatica specie se i paesi “arretrati” saranno trascinati in quella “rapida crescita” che – nei paesi “ricchi” – sta riversando milioni di tonnellate di CO2 nell’atmosfera. Va anche considerato che là dove le popolazioni sono in più rapida crescita, si tratta di zone geografiche molto vulnerabili ai mutamenti climatici (riscaldamento globale, scarsità di acqua potabile, calo delle derrate alimentari, fenomeni di migrazioni di massa). (vedi Prometeo n. 9, 1985: L’incontenuto sviluppo demografico e la fame nel mondo)

(2) Larry Summers, nipote del celeberrimo P. Samuelson, è un altro dei “geniali” economisti e accademici statunitensi; studioso dei “fenomeni macroeconomici”, è stato Segretario al Tesoro degli Usa negli ultimi anni della presidenza Clinton. Di recente, dopo esser stato l’architetto della deregulation del sistema finanziario statunitense, Summers sostiene che le economie avanzate “hanno bisogno di aumentare il debito… per finanziare un’espansione fiscale”! ) Ad onor del vero Summers accenna – con comprensibile… delicatezza – anche a una soluzione alternativa per far ripartire la crescita: “Alvin Hansen enunciò il rischio di una stagnazione secolare alla fine degli anni Trenta, in tempo per assistere al boom economico contemporaneo e successivo alla seconda guerra mondiale. È senz’altro possibile che si produca qualche evento esogeno di grande portata in grado di aumentare la spesa o di ridurre il risparmio in misura tale da accrescere il tasso di interesse reale da piena occupazione nel mondo industriale e da rendere irrilevanti le preoccupazioni che ho espresso. Guerra a parte, non è chiaro quali eventi del genere possano verificarsi”.

Un secolo prima, un certo Marx aveva concluso che, giunto all’apogeo del suo sviluppo, il capitale avrebbe potuto ancora sopravvivere soltanto a prezzo di spaventose distruzioni. E aveva scritto:

Nelle contraddizioni, crisi e convulsioni acute si manifesta la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La distruzione violenta di capitale, non in seguito a circostanze esterne a esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più evidente in cui gli si rende noto che ha fatto il proprio tempo e che deve far posto a un livello superiore di produzione sociale.

Marx, Grundrisse

(3) Il papa deplora le “teorizzazioni astratte” e le “eleganti indignazioni”, ma poi raccomanda una “sincera conversione del cuore” e una “economia giusta al servizio del popolo”. E’ così che si sfida la “tirannia dell’idolo denaro”…

(4) Il Movimento 5Stelle ha sostenuto tempo fa di essersi “ispirato” alle idee di Stiglitzi, facendo anche i nomi di P. Krugman e J. P. Fitoussi: “Il nostro piano economico l'ha fatto Joseph Stiglitz, che è premio Nobel per l'economia, insieme a persone normali, a professori che sono in rete”. Lo dichiarava Grillo, poi smentito pubblicamente sia da Stiglitz che dagli altri due. Meglio non compromettersi troppo…

Domenica, September 25, 2016

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.