Buon fine anno, ma la crisi che fine ha fatto?

Il 2016 sta per finire e l'ISTAT (Istituto nazionale di Statistica) ci offre la solita sintesi annuale dei dati economici nazionali più importanti con relative statistiche. Quest'anno però, accanto al solito rapporto di numeri e cifre, ci fornisce una colossale contraddizione. Mentre il commento è moderatamente positivo le cifre dicono esattamente il contrario. Nel commento introduttivo si legge che saremmo in presenza di significativi passi in avanti verso la ripresa economica e che la fine della crisi sarebbe vicina, anche se la ripresa è lenta per una serie di motivi strutturali e contingenti ma che la strada che porta fuori dal tunnel è ormai stata definitivamente imboccata. Nell'elencazione dei dati, invece, si legge che dopo otto anni di crisi il PIL continua a non recuperare il meno 10% maturato nel frattempo, l'attività industriale ha perso il 25% e non accenna a migliorare significativamente, le banche sono in evidente sofferenza nonostante la pioggia di miliardi di euro del Quantitave Easing. La statistica continua dicendo che miseria è aumentata del 141%, che 4,6 milioni di italiani vivono sotto la soglia di povertà e che altri 4,3 stanno per caderci dentro. Nessuno di questi indici è significativamente risalito se non dello zero virgola qualcosa in un paio di voci (settori dell'industria manifatturiera, settore automobilistico, peraltro quello più colpito dalla crisi, e relative esportazioni), mentre tutti gli altri sono rimasti invariati o sono aumentati in negativo. Vediamo le cifre.

Innanzitutto il debito pubblico continua ad aumentare superando di un paio di punti il 130% del PIL. A giugno 2016 il debito pubblico ha raggiunto il record di 2249 miliardi di euro, pari al 132% del PIL, preoccupando tutti i macro economisti italiani e internazionali, anche se nei tre mesi successivi si è verificato un insignificante rallentamento. Come si diceva prima, l'industria ha ripreso qualche punto percentuale, ma il dato di fondo è che la connessione tra capitale bancario ed economia reale non si è ancora saldata e nulla fa pensare che ciò possa avvenire in tempi brevi. Le banche hanno ancora da smaltire 200 miliardi di euro sotto forma di crediti inesigibili e altri duecento di difficile riscossione, per cui i finanziamenti alle imprese che sono rimaste in piedi durante la crisi sono scarsi, dati con il contagocce e a tassi di interesse alti che non invogliano le imprese stesse all'indebitamento. Il flusso dei finanziamenti negli ultimi due anni si è espresso con un incremento risibile dello 0,5% verso le industrie e dello 0,9% alle famiglie. A questi ritmi, sempre ammesso che reggano, ci vorrebbero almeno 20 anni per ritornare alle condizioni economiche del periodo pre-crisi. Il tutto, va detto, in una fase quasi decennale di crollo del prezzo delle materie prime e di quelle energetiche(petrolio innanzitutto), altrimenti le cose si sarebbero espresse con indici ancora più gravi. Il recente accordo OPEC, con l'appoggio esterno della Russia, funzionale alla riduzione di offerta del greggio per sostenerne il prezzo di vendita, non faciliterà certamente la già asfittica ripresa, pesando sui costi della produzione industriale e di produzione dell'energia.

Il disastro maggiore però è all'interno del mondo del lavoro che, negli anni della crisi, ha subito i danni più devastanti e che è destinato a subirne altri in nome del sostegno alla fantomatica ripresa economica e del supremo “bene nazionale”.

Gli anni che vanno dal 2008 al 2015 hanno prodotto oltre due milioni di disoccupati, che si sono aggiunti al milione già esistente per una percentuale pari al 12,3 della popolazione attiva. La scansione progressiva è stata: 2010 l'8%, 2012 il 10.7%, 2014 il 12,4%, 2015 il 12,3%. Oggi, trionfalmente, l'ex presidente Renzi ha esibito, “grazie” al suo Jobs Act, un indice del 11,6%, che di questi tempi, se non è un miracolo, poco ci manca. In aggiunta il presidente ha sbandierato ben 406.691 nuovi contratti a tempo indeterminato, che non solo avrebbero contribuito a far diminuire l'indice della disoccupazione, ma avrebbero dato maggiori garanzie per il mantenimento del posto di lavoro. Nulla di più falso. Intanto va detto che il boom di assunzioni a tempo indeterminato è stato possibile, e temporaneamente, grazie ai finanziamenti dello Stato a chi assumeva a tempo indeterminato (poco più di otto mila euro annui agli imprenditori per ogni singolo contratto) ma che, diminuiti gli incentivi, il fenomeno si è prima bloccato, poi è inevitabilmente regredito. Inoltre va aggiunto che il contratto a tempo indeterminato è una pura finzione da quando, con la cancellazione dell'articolo 18, ogni imprenditore è per legge messo nella condizione di licenziare i dipendenti, senza giusta causa, solo sulla base di una valutazione futura di possibili difficoltà economiche dell'azienda. Per cui sono contratti a tempo indeterminato sino a quando gli interessi economici, o solamente il disturbo politico che i titolari di tali contratti possono creare per gli imprenditori, non li trasformano in licenziamenti. All'interno del primo punto va anche aggiunto che molti dei “nuovi” posti di lavoro erano, in realtà, soltanto quelli vecchi che, da tempo determinato passavano all'indeterminato grazie agli incentivi, per cui non si è trattato della creazione di nuovi posti di lavoro, ma soltanto di una modificazione contrattuale del vecchio posto di lavoro a favore di quello nuovo, grazie agli incentivi statali finiti i quali, tutto, o quasi, è ritornato come prima.

Altro dato che va messo in evidenza è quello relativo al metodo che recentemente l'ISTAT adotta nella compilazione (americana) delle liste degli occupati. Secondo l'Ente statistico si è considerati occupati anche lavorando un'ora alla settimana, per cui il dato dell'11,6% è quantomeno errato per difetto; a questo va aggiunto che nello stesso 2016, a fronte dello sbandierato numero di 406.691di nuovi contratti a tempo indeterminato, c'è la cessazione di ben 483.162 vecchi contratti che vanno ad ingrossare le fila dei disoccupati. Sempre nell'anno che muore c'è un “limbo” di oltre 500 mila inoccupati che hanno perso ogni speranza di trovare un lavoro, che non lo cercano più e che non rientrano in nessuna voce delle statistiche ufficiali. Ultimo dato è quello relativo ai lavoratori “precarisssimi” che vengono pagati in voucher e che rappresentano un esercito di un milione e duecentomila persone. Questo è quanto si legge sul piano del l mercato del lavoro e dell'occupazione. Su quello delle conseguenze sociali andiamo ancora peggio. Partendo dal dato già citato, l'incremento della povertà del 141%, e disaggregandolo prendendo in considerazione solo le condizioni dei lavoratori dipendenti, risulta che il processo di pauperizzazione in ambito proletario è passato dal 3,9% all'11,7% per una cifra complessiva vicino ai 4 milioni di unità. Il 71% della popolazione non è in grado di risparmiare, perché il reddito, assolutamente insufficiente, va tutto al consumo di beni alimentari e in affitti. Del suddetto 71% i due terzi sono lavoratori di famiglie monoreddito. Le stesse percentuali le abbiamo per il rischio povertà. Il dato complessivo è che il 26% della popolazione è in queste condizioni di miseria, di cui, quello scorporato relativo al proletariato va ben oltre il oltre il 50%. Il 38,6% delle famiglie, oltre il 50% di quelle proletarie, non è in grado di far fronte a spese eccezionali sopra gli 800 euro e hanno difficoltà anche nella spese farmaceutiche correnti. Inoltre, nelle famiglie numerose un bambino su quattro vive in condizioni alimentari e ambientali precarie ai limiti della sussistenza. Così il quadro è completo, sia per quanto riguarda il recente passato, sia per le proiezioni future a breve-medio periodo. E' come se si fosse verificato un piccolo, disastroso, evento bellico. Molte imprese sono fallite (distrutte economicamente), milioni di lavoratori sono stati espulsi dai mezzi di produzione, i prezzi delle merci sono precipitati dando vita alla deflazione. Il potere d'acquisto di milioni di famiglie è precipitato vertiginosamente, compreso quello dei pensionati. Sempre secondo i dati ISTAT quasi un pensionato su due (circa sei milioni) non arriva a percepire una pensione sopra i mille euro e un buon 15% è sotto i 500 euro. Il paradosso, tutto capitalistico, è che, nella fase storica dell'esasperata ricerca tecnologica dove, in teoria, lo sviluppo delle forze produttive avrebbe dovuto garantire più beni e servizi a basso costo, più stato sociale e più tempo libero per il mondo del lavoro, si è prodotto l'esatto contrario. Lo sviluppo delle forze produttive si è trasformato sì in un aumento della massa dei profitti, ma a saggi del profitto sempre minori. Il che ha costretto ingenti capitali a disertare la produzione reale per correre dietro l'illusione della speculazione, creando enormi bolle di capitale fittizio che, una volta esplose, hanno bruciato migliaia di miliardi penalizzando quella stessa economia reale da cui erano fuggiti. Inoltre, accanto ad una ricchezza concentrata in mani sempre più numericamente esigue, la pauperizzazione si è impadronita di masse di diseredati sempre più ampie. L'aumento della disoccupazione si è accompagnata all'aumento e all'intensificazione dello sfruttamento per chi ha avuto la “fortuna” di continuare ad avere un posto di lavoro. La diminuzione dei tempi e dei costi di lavoro ha generato sì tempo libero, ma solo per i disoccupati e lo ha ulteriormente ridotto per i “garantiti”, costretti a lavorare anche di sabato e con giornate lavorative tendenzialmente più lunghe, con un potere d'acquisto dei salari in progressiva diminuzione

In realtà, “l'evento bellico” (virtuale) c'è stato e si chiama crisi del capitalismo. Crisi di quel sistema sociale che, vivendo dello sfruttamento della forza lavoro e nel perenne tentativo di aumentarlo, sviluppa le tecniche produttive più avanzate che, per definizione, eliminano forza lavoro dai meccanismi di produzione. Il risultato è che la rincorsa al massimo dei profitti possibile si trasforma nella diminuzione di quella stessa forza lavoro che è l'unica fonte da cui nasce il profitto stesso. E' questa l'insanabile controdeduzione che getta il capitalismo moderno nella crisi in cui si muove e dalla quale difficilmente potrà uscire se non tentando di trasformare “l'evento bellico” (virtuale) in guerra aperta che distrugga ulteriormente i capitali non in grado di valorizzarsi adeguatamente, che elimini la forza lavoro in eccesso e che apra nuove condizioni ai capitali vincitori per una ripresa dei profitti, attraverso il controllo dei mercati delle materie prime, delle materie energetiche, dei mercati finanziari e di quelli della forza lavoro. Solo una grande distruzione di capitale inoperante o operante a scartamento ridotto, e una forza lavoro ridotta dai salari ridotti ai minimi termini può dare l'illusione del superamento della crisi. In realtà, anche l'evento bellico finirebbe, alla lunga, per ricreare le stesse condizioni che l'hanno posta in essere, con l'unica differenza di aver ingigantito, e non risolto, le contraddizioni di sempre, con buona pace per tutte le statistiche di questo mondo, quelle Istat comprese, che continuerebbero a descrivere in cifre il fallimento di una società in perenne crisi che aspetta solo la giusta spallata per togliere l'ormai insopportabile disturbo.

FD
Venerdì, December 16, 2016