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Lo scenario politico
Seppure con una risicata vittoria (poco più del 51%) e con pesanti sospetti di brogli, Erdogan la spunta, e porta finalmente a casa quella riforma costituzionale che, solo due anni fa, la “battuta d’arresto” elettorale del suo partito aveva costretto a rinviare temporaneamente.
Erdogan concentra così nelle sue mani pieni poteri: una svolta autoritaria (qualcuno la chiama già dittatura) sul piano formale-istituzionale che si *autolegittima* (seppur di misura) col consenso referendario. Ecco il capolavoro del “sultano” turco.
Abolita la figura del primo ministro, l’esecutivo passa interamente nelle mani del capo dello stato (che ha il potere di nominare e dimettere i ministri e di sciogliere il Parlamento), al quale viene anche trasferita buona parte del potere legislativo, emanando quando vuole i decreti legge senza passare dal Parlamento.
Erdogan “vince ma non convince”, scrivono in molti: il Paese, già tormentato dal terrorismo jihadista e da quello curdo del Pkk, è profondamente spaccato e lui ha perso circa il 10% dei voti. Il suo partito islamico, l’Apk, non aveva mai, in 15 anni di vittorie elettorali, perso nelle grandi città come Istanbul, Ankara e Smirne.
Un magro risultato in termini percentuali, certo, soprattutto se si pensa che lui e il suo partito hanno occupato ben il 90% degli spazi tv e usato lo stato d’emergenza per ridurre al minimo i comizi e i raduni dei partiti del “no” alla riforma presidenziale. Ma lo porta a casa comunque, e questo è ciò che gli necessitava.
La svolta autoritaria è peraltro già in atto nel paese da tempo: oggi finisce di consolidarsi sul piano istituzione formale.
Facciamo notare infatti - agli innumerevoli indignati che piagnucolano per la “definitiva morte della laica e progressista democrazia turca” (quella del “buon Kemal”, si capisce) - che già all’indomani del fallito golpe del 15 luglio 2016, con la proclamazione dello “stato di emergenza” (che oggi Erdogan pare pronto a prolungare ancora) in Turchia si è già da tempo fatta tabula _rasa_ di ogni opposizione, dissenso, libertà di stampa, e quant’altro con una vera e propria ondata epurazioni senza precedenti in tutti i settori del paese. Della serie: tra i vari populismi che, oggi più che ieri, vogliono arrivare al potere ce ne sono alcuni che al potere ci sono già e che vorrebbero rimanerci vita natural durante. Con le buone (referendum, taroccato o meno), altrimenti con la forza.
Ma quale spaccatura nel paese?
Dopo il voto il paese appare spaccato in due: su questo pare concentrarsi, pressoché interamente e spesso superficialmente, l’attenzione dei più.
Ma di che spaccatura si tratta, in realtà? È una spaccatura solo politica? Di opinione? Di orientamento? Di visione strategica?
Nei gangli della élite politica dirigente, e dunque della variegata classe dominante borghese turca, lo è senz’altro, e da tempo. Non così, se non di riflesso, ai livelli più bassi della piramide sociale, che vede sprofondare nella crisi più nera migliaia di lavoratori e proletari turchi.
Ma – aggiungiamo noi – la società turca (come del resto tutte le altre) è già da un bel pezzo spaccata in due su un ben altro piano: quello delle classi sociali dagli interessi antagonisti e inconciliabili. Polarizzata sul piano sociale, e sempre più in profondità, da una crisi di cui invano si tenta di far intravvedere la celebre luce in fondo al tunnel. E la polarizzazione politica non è che lo specchio di questa crescente e drammatica polarizzazione sociale, che vede scendere sempre più in basso il tenore di vita e le prospettive di sopravvivenza degli schiavi salariati, e salire sempre più in alto quello dei pochi succhiatori del sangue del loro lavoro (i capitalisti).
Già in occasione della battuta d’arresto elettorale di Erdogan nel 2015, avevamo accennato ai primi evidenti sintomi della grave crisi economica che in Turchia come altrove (non esistono economie e/o paesi immuni dal contagio) avanzava a ritmi inversamente proporzionali agli indici taroccati della crescita del pil nazionale. Oggi riteniamo necessario ritornarci su.
Il modello turco è ormai in rottamazione
Fu negli anni del boom economico turco, che inizia nel 2002, che si iniziò a parlare di modello _turco_: un grande Paese musulmano che sembrava avere imboccato la strada della democrazia e dello sviluppo. Un’economia che avanzava ad altissimi tassi di crescita (fino al 9,5 del 2010!), mentre gli altri arrancavano.
Ma quel modello, a partire dal 2012, inizia a sgretolarsi a vista d’occhio sotto i morsi inesorabili di una crisi mondiale che non risparmia niente e nessuno: i fantasmagorici indici di “crescita” si sgonfiano chiaramente e precipitano inesorabilmente a circa un terzo.
E ora, valutandone le conseguenze, bisogna pur … cambiar strategia. La ricetta populista di Erdogan non è che l’estremo tentativo di farvi fronte su un piano politico e propagandistico volto a svendere l’ennesima ricetta demagogica ….
In questo quadro, infatti, neanche il dipinto di una Europa - in cui secondo il programma del “sultano” versione 2002, era conveniente entrare - sembra più poter reggere, specie in epoche di Brexit seguite da minacciate uscite di altri partner Ue: così mentre in bocca al sultano (come per gli altri ben noti populisti continentali) l’Europa diventa ora il bersaglio propagandistico preferito, la sua voce si fa tanto grossa sia da reclamare i vantaggi promessi dall’accordo sui migranti (in primo luogo i visti per la libera circolazione dei turchi nell’Unione), sia da trovare opportuno evocare persino la convocazione di altri due referendum per dire no all’ingresso in Europa e per ristabilire la pena di morte.
Lo scenario economico e sociale e il suo attuale peggioramento
Dopo la frenata progressiva già a partire dal 2012, si registra oggi il crollo verticale dell’economia turca: da tassi di crescita del pil dell’8-9% fino al 2011, a tassi del 2,9% nel 2016 (con un crollo, nel solo 3 trim. del 2016, dell’1,3%), con una percentuale di lavoro nero (con minima o nulla copertura pensionistica e sanitaria) pari al 30% dell’economia, cui si aggiungono: un'inflazione crescente del quasi 8% (con conseguente crollo del potere d'acquisto delle famiglie e, con esso, dei consumi interni), una disoccupazione crescente di quasi il 12% (giovanile di quasi il 20%), una svalutazione monetaria di oltre il 20% sul dollaro e 12% sull'euro, incremento della tassazione e crollo del 33% degli introiti del settore turistico, deficit commerciale in crescita. Insomma, un quadro economico e sociale disastroso.
La risposta populista e autoritaria
Dinanzi ad un simile scenario economico e sociale, autoritarismo (stretta autoritaria) da un lato e populismo dall’altro sono infatti le risposte della borghesia turca (e non solo), nell’ormai disperato ultimo tentativo di gestione della crisi e del sempre più profondo malessere sociale che ne deriva. Come?
a) Sul piano propagandistico: Il populismo – si sa – sa ben giocare le sue carte. Il suo obiettivo è sempre quello di rassicurare e tenere a bada il disagio sociale montante, pompando orgoglio nazionale, risvegliando miti di grandezza patriottica da riconquistare, disegnando patrie destinate a “ritornare grandi” (se non “imperi”, come ai tempi del grande Ataturk), accollando al nemico o concorrente (esterno: l’Europa come la Siria, o interno: ad es. i curdi) la responsabilità dei propri mali interni, e sebbene realisticamente ciò non riempia le pance vuote di sempre più disoccupati o lavoratori che vivono entro quando non sotto la striminzita soglia della mera sopravvivenza, il trucco pare funzionare ancora.
Tanto più in assenza – sottolineiamo noi – di un punto di riferimento politico di classe, rivoluzionario e anticapitalista. Eccolo il disastro più grande!
Al tempo stesso, a chi sempre più vive di disagio e miseria sociale crescente, di non lavoro, è facile prospettare scenari di terrore, vendere paura, amplificare propagandisticamente psicosi apocalittiche collettive da insicurezza perenne per … l’invasione di migranti pronti a rubar lavoro, stuprare figlie, derubare abitazioni, inquinare la nostra cultura e identità nazionali, e chi più ne ha più ne metta. Col principale obiettivo di alimentare divisioni su un fronte, quello di classe, che se compatto e organizzato, restituirebbe incubi assai poco piacevoli ai borghesi dell’intero pianeta.
Su questo piano, e non solo … “tutto il mondo è paese”, come si dice.
b) Sul piano più strettamente politico: Prospettando che, anche grazie a quell’accentramento del potere, riducendo sprechi, caste e burocrazie, si garantirebbe una maggiore efficienza decisionale nel risolvere più velocemente i drammi sociali in corso.
Tutto il risorgente gregge populista di destra, di sinistra e … “né di destra né di sinistra” propone, solo in salsa diversa, la medesima vecchia ricetta demagogica: da Orban a Le Pen, da Trump a Salvini, a Farage, a Grillo...
Vendere ricette e risposte semplici a problemi complessi è tipico dei populismi di e a ogni latitudine.
Ricette a base di riconquista della sovranità nazionale “perduta” (in primis quella monetaria), protezionismo, orticelli di casa e sogni autarchici vari.
Sul fronte sedicente contrapposto - altrettanto borghese - la “fumisteria” più o meno radical riformista non nasconde il proprio, di populismo: mitici redditi di cittadinanza, risolutive uscite (ma da sinistra, sia ben chiaro!) da euro, UE e Nato, miracolose ricette keynesiane di redistribuzione del reddito e rilancio statale di economia, diritti e lavoro possibili per tutti, disuguaglianze e disoccupazione azzerate, aumento dei salari ad orari di lavoro ridotti. Robe da rivoluzione, insomma, ma … senza rivoluzione.
È proprio vero: la mamma di tutte le panacee è sempre incinta, e gode di ottima salute, purtroppo.
E come la religione si incarica da sempre di lenire le ferite sociali e individuali promettendo fantastici paradisi nell’aldilà, così il populismo di destra e di sinistra (altrimenti detto: radical-riformismo) ci promette come può fantasmagorici possibili miglioramenti “dentro” il sistema-inferno del dio capitale, dello sfruttamento, delle guerre imperialiste.
È proprio vero: sognatori si nasce, rivoluzionari e anticapitalisti bisogna diventarci e, nel nostro caso, restarci.
PFBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #05-06
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