I nodi politici dello stalinismo: terza parte

(In occasione del centenario della Rivoluzione d’Ottobre, abbiamo deciso di pubblicare sul nostro sito web i capitoli centrali del libro “La controrivoluzione - I nodi irrisolti dello stalinismo alla base della Perestrojka”. In precedenza abbiamo pubblicato l’Introduzione, il primo paragrafo del capitolo uno, relativo al “Fronte unico”, e successivamente i paragrafi dedicati al terzo e quarto congresso dell’ Internazionale Comunista. Concludiamo, con questa terza puntata, l’analisi dei nodi politici dello stalinismo.

Vi invitiamo a seguire la sezione del nostro sito web dedicata al Centenario della Rivoluzione Russa. Buona lettura!)

I programmi del governo operaio

Sembra di essere tornati indietro di quarant’anni nel processo di chiarificazione tattico-strategica del programma proletario. L’illusione, se così vogliamo chiamarla, di disarmare la classe borghese, di armare il proletariato, di far pesare sulle fasce di reddito più alte il peso delle imposte e di instaurare addirittura il controllo sulla produzione, per mezzo di uno stato che pur avendo una parvenza democratica garantita dalla presenza delle forze rivoluzionarie, è e rimane uno stato borghese, era pura follia. A parte il fatto che un programma così concepito non può essere portato a compimento che da una dittatura del proletariato e non da uno stato che, per quanti aggettivi gli si attribuiscano, resta per contenuti e per forme lo strumento politico della borghesia, evidente emerge la frattura con i deliberati del Secondo Congresso per il recupero di posizioni politiche, e riguardo allo Stato e riguardo alla teoria dei piccoli passi verso il socialismo tanto cara alle socialdemocrazie di sempre.

Se andiamo a rispolverare il vecchio programma del 1875 della socialdemocrazia tedesca, meglio conosciuto come programma di Gotha, vi ritroviamo le medesime impostazioni:

Il partito operaio tedesco, per preparare le vie alla soluzione della questione sociale, reclama la creazione di organismi sociali di produzione con l’aiuto dello Stato, sotto il controllo democratico del popolo lavoratore (18).

Marx a simili argomentazioni rispose:

state preparando le vie in maniera degna ammonendo che a proposito di stato e di tappe intermedie occasionali o di principio tra la società capitalistica e la società comunista, si situa il periodo di trasformazione rivoluzionaria dalla prima alla seconda. A cui corrisponde un periodo di transizione politica in cui lo Stato non sarà altra cosa che la dittatura rivoluzionaria del proletariato (19).

Premesso che tutti i governi che non siano la dittatura del proletariato non sono comunisti – e chiarito pertanto che non sono in grado, se non nelle aspettative opportunistiche di chi li ha praticati ieri come oggi, né di creare le condizioni politiche idonee alle esigenze fondamentali della lotta di classe, né tantomeno di risolverle – essi finiscono per assolvere compiti contrari a quelli per cui erano sorti. Simili governi di coalizione sono sempre serviti, soprattutto nei momenti di crisi economiche e di debolezza delle istituzioni politiche, alla borghesia per deviare le possibili lotte di classe dal loro naturale obiettivo: lo Stato. Non è scendendo sul terreno delle istituzioni borghesi che le forze proletarie possono avere buon gioco, non è confondendo le idee alle masse con tattiche opportunistiche che si può «guadagnare alla causa della rivoluzione la maggior parte del proletariato». Non è praticando la dittatura del proletariato a parole e praticando alleanze di governo con le socialdemocrazie che ci si può presentare come faro politico della lotta di classe.

Si potrebbe rispondere, facendo violenza alle stesse ipotesi che la III Internazionale andava elaborando in quegli anni, che il dipanarsi della lotta di classe non può esprimersi in un moto rettilineo, che il suo manifestarsi, sintesi di complessi meccanismi soggettivi sullo sfondo di situazioni obiettive altrettanto complesse e diversificate, è storicamente caratterizzato dall’intreccio di vittorie e sconfitte, da improvvise fughe in avanti, da più o meno strategiche ritirate, per cui a parziali progressi del livello dei lotta corrisponderebbero parziali conquiste politiche. In altri termini la variegata casistica dei governi operai non sarebbe altro che la risposta politica più adeguata al reale rapporto di forza tra le classi nel loro mutevole e dialettico divenire.

Se è vero che i livelli di intensità di lotta e di determinazione politica del proletariato nei confronti del suo avversario di classe non possono essere rappresentati da moti rettilinei uniformi né tantomeno interpretati dallo pseudo scientismo sociologico alla stregua di una funzione matematica la cui incognita varierebbe all’interno di limiti massimi e minimi gradualmente raggiungibili, è altrettanto vero che l’obiettivo finale, l’instaurazione della dittatura del proletariato, non si può scomporre in soluzioni tattiche intermedie, in tappe di avvicinamento rappresentate da forme di governo più o meno progressiste, e che la borghesia, nelle vesti socialdemocratiche, possa rappresentare, anche se temporaneamente, un possibile alleato. Vanno subito avvertiti i “cacciatori di citazioni” che l’analisi che Lenin fa ne «La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky», non inficia, anzi va a conferma della ipotesi sopra esposta:

D’altra parte, se il proletariato bolscevico nell’ottobre e il novembre del ’17 avesse tentato immediatamente – senza attendere la differenziazione delle classi nelle campagne, senza prepararla ed attuarla – di decretare la guerra civile o l’instaurazione del socialismo nelle campagne, se avesse tentato di fare a meno del blocco (alleanza) temporaneo con i contadini in generale, di fare a meno di una serie di concessioni ai contadini medi, ecc., questa sarebbe stata una deformazione blanquista del marxismo, sarebbe stato un tentativo della minoranza d’imporre la propria volontà alla maggioranza, sarebbe stata una assurdità teorica, un’incomprensione del fatto che la rivoluzione dei contadini nel loro insieme è ancora una rivoluzione borghese, e che in un paese arretrato è impossibile trasformarla in rivoluzione socialista senza una serie di stadi intermedi, di gradi di transizione (20).

Lenin, nella sua acuta polemica con Kautsky, che negava la validità della dittatura del proletariato per sostituirla con una sorta di governo progressista con la compartecipazione dei bolscevichi accanto alle forze della socialdemocrazia, non fa altro che ribadire due concetti fondamentali:

Che, nella situazione di arretratezza economica in cui si trovava la Russia, al proletariato bolscevico non sarebbe riuscito di coronare il suo assalto rivoluzionario con la gestione dittatoriale senza l’alleanza della stragrande maggioranza dei contadini poveri, e l’unità di lotta e di obiettivi contro la borghesia e le sue fasce socialdemocratiche (Cadetti, Socialisti rivoluzionari e Menscevichi) poteva essere praticata alla sola condizione che il contadiname fosse al traino del programma proletario e non viceversa.

Che ogni soluzione tattica, anche la più apparentemente compromissoria, aveva valore nella misura in cui si agganciava alla visione strategica. La soluzione tattica di per sé, anche se nasce dal tentativo di risolvere sul terreno della immediatezza problemi di natura contingente o specifici di una situazione data, non può in alcun modo staccarsi dalla visione strategica che la informa, né tantomeno sostituirsi ad essa.

Quando Lenin parla di stadi intermedi e di gradi di transizione non si riferisce a forme di governo o di potere alle quali il proletariato si adeguerebbe in attesa di tempi migliori, ma a quei passi necessari, a quelle alleanze con i contadini poveri, con gli strati più diseredati della popolazione, a quelle soluzioni tattiche più idonee a perseguire l’unico obiettivo utile, la dittatura del proletariato. Non va dimenticato che il capolavoro tattico del bolscevismo consistette proprio nell’aver saputo fondere sul piano tattico una infinita serie di spinte che, nella prima fase della rivoluzione, per contenuti politici e per forme organizzative, era democratico-borghese, senza per questo mendicare fronti unici con i menscevichi o socialisti rivoluzionari, né tantomeno rincorrere falsi obiettivi che fossero in qualche modo contrabbandabili come tappe intermedie o importanti punti di partenza per la definitiva conquista del potere.

Per un’avanguardia rivoluzionaria, ovvero per un partito comunista, il ruolo prioritario consiste nella valutazione politica della situazione oggettiva, nel valutare i reali rapporti di forza, il grado di sviluppo della lotta di classe ed il livello di radicalizzazione delle masse per organizzare le scelte tattiche più idonee al perseguimento dell’obiettivo strategico. Guai se la guida politica entrasse nei complessi meccanismi, a volte contraddittori, della lotta di classe per rimanervi invischiata, guai se le scelte tattiche, imposte dalla situazione, finissero per condizionare, o addirittura stravolgere, le finalità politiche. Il partito non si cala nel vivo della lotta per subirne, con atteggiamento codista, il suo livello, ma per cercare di elevarlo alle istanze strategiche. Tattica e strategia non sono due momenti autonomi, indipendenti che mutano reciprocamente a seconda del livello raggiunto dalla lotta di classe. La dittatura del proletariato, intesa come punto di approdo della lotta di classe, non si surroga in sottocategorie di governo a seconda dell’opportunità delle situazioni immediate e contingenti, ma al contrario, il partito della classe operaia è tale solo a condizione che sappia operare, partendo dalla situazione specifica, soluzioni tattiche che siano coerenti con l’instaurazione della dittatura proletaria. In caso contrario si spalancano le porte alle infinite possibilità di recupero dell’opportunismo e della controrivoluzione.

Obiettivi e verifiche

D’altro canto, se entrassimo nel merito operativo delle teorizzazioni, sul fronte unico e sul governo operaio, ci troveremmo di fronte ad un labirinto di ipotesi mai verificate, di giustificazioni contraddittorie che sono servite alla III Internazionale più come difesa d’ufficio delle proprie scelte tattico-strategiche che come strumento di chiarezza politica.

Di prima intenzione la III Internazionale esordì nell’imporre l’attualità del governo operaio corredato dal suo presupposto organizzativo, il fronte unico, come soluzione tattica attraverso la quale i neonati partiti comunisti avrebbero colmato il vallo che ancora li separava dalla stragrande maggioranza delle masse. Alle masse gridava Radek. Benissimo. Ma se andare alle masse significava allontanarsi da un obiettivo imprescindibile quale la dittatura del proletariato, voleva dire abbandonare la strada maestra per imboccare scorciatoie che tali non erano e che si sarebbero sempre più allontanate dal punto di partenza.

Avere con sé la masse è una delle condizioni necessarie per condurre l’assalto alla roccaforte dello stato borghese. Ma quel partito che fosse riuscito ad avere con sé le masse su di un programma monco o privo dei presupposti fondamentali (quale è l’indipendenza politico-organizzativa della classe operaia nei confronti della borghesia e delle sue frange socialdemocratiche, e la dittatura del proletariato) non sarebbe in grado di dirigere una rivoluzione, di trasformare un moto insurrezionale in rivoluzione proletaria. Lenin, pur operando in una situazione precaria riguardo alle potenzialità rivoluzionarie di un proletariato che doveva trascinarsi dietro milioni di contadini, lanciò la parola d’ordine della insurrezione armata contro lo Stato, gestito dal socialdemocratico Kerensky, solo dopo aver ottenuto l’adesione di milioni tra operai, contadini e soldati organizzati nei soviet, sul programma rivoluzionario al di fuori e contro ogni possibile mediazione del socialismo rivoluzionario di menscevichi e compagni. Il problema, quindi, era e resta sì quello di influenzare le masse su di un programma rivoluzionario, ma non di ridurre quest’ultimo in modo da salvare capra e cavoli.

In seconda istanza il governo operaio, sempre in simbiosi con la sua appendice frontista, scemò al più banale mezzuccio tattico ideato (forza della tattica!) per smascherare agli occhi delle masse il ruolo controrivoluzionario della socialdemocrazia. In che modo? Andando a casa del lupo, entrando nei governi borghesi sotto la vigile attenzione dello stato borghese, a braccetto delle forze opportuniste che in queste istituzioni hanno sempre creduto, su di un programma politico forzatamente socialdemocratico, progressista o riformista a seconda dei gusti o delle necessità. Stando così le cose, fermi restando i rapporti di produzione capitalistici e gli strumenti politici della loro amministrazione che ne può trarre vantaggio, chi può smascherare l’avversario di classe? I rivoluzionari che abbandonano il loro terreno di lotta, che si autolimitano nei programmi di massima, che scelgono la via del compromesso, o i rinnegati, i riformisti che possono vantare sia con se stessi che con la classe operaia una maggiore coerenza di intenti e di prassi politica?

È forse coalizzandosi con la socialdemocrazia sia politicamente che organizzativamente che se ne dimostra la propensione controrivoluzionaria? È forse cercando di entrare nelle più alte strutture di uno stato (governo) che si vuole abbattere che si creano le condizioni politiche e di lotta per la dittatura del proletariato? È forse creando l’aspettativa o l’illusione di una pratica radical-riformista che si levano gli ostacoli alla propaganda rivoluzionaria? Evidentemente no. Chi oltre alla maschera, rischiava di perdere la faccia, erano le forze centriste ciecamente ossequienti alle delibere della III Internazionale.

Della pochezza di queste tesi elaborate a supporto del cambiamento di rotta sui due soliti temi se ne accorsero anche i fautori. Non cadde quindi a sproposito il tentativo di Zinoviev di dare maggior corpo e contenuto “strategico” alla questione, e siamo al terzo atto. Non più strumento di smascheramento degli intrighi conservatori della socialdemocrazia, non solo mezzo per conquistare le masse, ma poderoso strumento riformista in grado di mettere spalle al muro la borghesia ed i suoi lacchè, ecco il nuovo compito del governo operaio. Queste le intenzioni, vediamone le possibilità operative:

  1. Impostare una politica dei redditi che penalizzi la borghesia salvaguardando gli interessi economici del proletariato.
    Marx ha speso più di un tomo del suo Capitale per dimostrare agli economisti classici come in regime economico capitalistico basato sul rapporto capitale-forza lavoro, la distribuzione del reddito attraverso la quale si perviene allo scambio ed al consumo individuale e di classe non possa che essere conforme alle necessità di valorizzazione del capitale. Organizzare una diversa distribuzione del reddito e quindi dei consumi significherebbe intervenire nei meccanismi di accumulazione del capitale, spezzare il rapporto che lo lega alla forza lavoro, creare le condizioni per una politica economica sensibile più ai consumi ed alle esigenze esistenziali dei lavoratori che agli investimenti. Qui, come Zinoviev pone il problema, non si tratta di organizzare lotte economiche sul classico terreno della conflittualità tra capitale e forza lavoro, ma di una politica tributaria pianificata inconciliabile con le esigenze di sopravvivenza del capitalismo stesso. E con quali strumenti operativi un governo operaio sarebbe in grado di imporre alla propria borghesia una simile riforma? Con la persuasione, con decreti legge che devono passare sotto le forche caudine dell’approvazione di un parlamento borghese, o con la violenza di classe?
  2. Controllo operaio sulla produzione.
    Anche in questo caso, facendo uno sforzo di fantasia, dovremmo immaginarci un governo operaio, nel bel mezzo delle pur sempre vive e vegete istituzioni dello stato borghese quali il parlamento, l’esercito, la magistratura, i servizi di sicurezza, ecc., a fronte di un meccanismo economico capitalistico marciante, che amministra gli investimenti, che impone i ritmi di accumulazione, che stabilisce i tassi di produttività. Se controllo operaio della produzione significa vigilanza accurata perché la macchina produttiva capitalistica marci senza intoppi e sprechi, e quando può, distribuisca le briciole di quanto ha prodotto, non occorre la istituzione di un governo operaio. Se controllo operaio significa direzione politica della classe operaia su alcuni settori della produzione che non marcino in sintonia con le ferree leggi della valorizzazione del capitale, si ripropone la domanda precedente: con quali mezzi la classe operaia può incidere nel settore produttivo? Con i sindacati, intrufolando un proprio esperto nel ministero delle partecipazioni statali, proponendo una programmazione alternativa che tenga conto un po’ di tutto, o con la forza della sua dittatura? Solo il riformismo classico, una volta ripudiata la necessità del rovesciamento rivoluzionario e dello stato operaio organizzato in forma dittatoriale, ha concepito la possibilità, attraverso l’istituzione di governi progressisti, di incidere gradualmente sulle strutture sia economiche che politiche per trasformare la quantità delle riforme in qualità sociale. Ci piace immaginare, si fa per dire, il compagno Lenin, a capo di un ministero per i lavori pubblici o ministro senza portafoglio per l’industrializzazione del Turkestan!
  3. Disarmo della borghesia.
  4. Armamento del proletariato.
    Gli ultimi due punti non possono che essere commentati insieme. Sempre secondo Zinoviev, e con lui per la Terza Internazionale, uno degli obiettivi perseguibili da un governo operaio che si rispetti, consisterebbe nell’inibire alla borghesia l’uso delle armi e quindi del monopolio della forza organizzata. Sembra un gioco da ragazzi. È sufficiente sciogliere la polizia segreta, smilitarizzare i “corpi separati” dello stato, trasformare l’esercito in organismo civile volontario, requisire tutte le armi ancora in circolazione, porre sotto il più ferreo controllo l’aviazione e la marina militare. Al contempo, mentre si disarmano le istituzioni repressive della borghesia, il solito governo operaio distribuisce a piene mani armi e strutture militari al proletariato. Ci sarebbe da chiedersi, se la cosa non fosse di per sé fantapolitica, dove fosse nel frattempo la borghesia, come abbia potuto arrendersi senza combattere, senza mettere in moto la sua macchina repressiva durante il procedere di una simile operazione di esproprio.

Si potrà ancora obiettare che queste sono indicazioni di massima, la cui attuazione può dipendere non tanto dalla buona volontà di un governo operaio quanto dalla spinta che questo ibrido organismo può e deve ricevere dalla pressione delle masse. A parte l’ovvia considerazione che nessun governo operaio, nemmeno il più avanzato, sarebbe in grado di raggiungere simili obiettivi, c’è da chiedersi con che acume politico si impone alla lotta di classe, cresciuta al punto di imporre alla borghesia il controllo della produzione e della distribuzione ed il suo disarmo, di attardarsi su obiettivi intermedi, quando più che maturi appaiono i presupposti per l’instaurazione della dittatura proletaria. Un partito che in simili frangenti, con un rapporto di forza tra le classi tale da costringere la propria borghesia a capitolare di fronte a richieste che metterebbero in ginocchio un colosso, non proclamasse giunta l’ora dello scontro finale, per baloccarsi sulle modalità operative di governi di coalizione, non sarebbe l’avanguardia politica della classe operaia ma il suo becchino. Ma abbandoniamo il mondo ipotetico dei se per ritornare ai contenuti programmatici del governo operaio e delle sue reali possibilità di attuazione.

Quanto Marx, sulla scorta dell’esperienza della Comune di Parigi, elaborò l’irrinunciabile necessità da parte della classe operaia di dotarsi di uno strumento politico atto a trasformare la realtà economica capitalistica in nuovi rapporti di produzione e di distribuzione, quando Lenin, nell’esperienza bolscevica, mise in pratica tutto questo, sapevano benissimo che nessun organismo governativo, che non fosse la dittatura del proletariato, sarebbe stato in grado di modificare, anche se di poco, le strutture portanti della società borghese, tantomeno in termini di controllo della produzione e dell’apparato militare. Anzi la necessità della gestione dittatoriale deriva proprio dal fatto che solo attraverso l’uso della forza si può sconfiggere, nella quotidiana prassi della costruzione del socialismo, la borghesia già privata del suo Stato. Figuriamoci quali possibilità di successo, anche parziali, potrebbe avere il proletariato in condizione politiche opposte.

Da qualunque parte lo si voglia analizzare, l’espediente tattico del governo operaio era morto prima ancora di nascere. Purtroppo la realtà superò la fantasia. Quando il fronte unico ed il governo operaio cessarono di essere delle ipotesi di laboratorio per trasformarsi in momenti operativi come nella esperienza della partecipazione del KPD nei governi socialdemocratici di Turingia e di Sassonia ed in quella cinese del ’26-’27, dove il Komintern arrivò ad ordinare lo scioglimento del PCC perché il frontismo con le armate bianche di Chiang Kai-shek potesse più tranquillamente andare in porto, si sprigionò tutto il loro potenziale di nefasta negatività. A cose fatte, scontato fu l’atteggiamento di Stalin e compagni, di attribuire il fallimento della rivoluzione tedesca all’interpretazione opportunistica del governo operaio da parte di Brandler, e di quella cinese al tradimento del “compagno” Chiang.

Con la stessa disinvoltura si attribuì alla Sinistra Italiana (l’unica che seppe criticare con tempismo e decisione, le divagazioni tattiche della III Internazionale), la responsabilità politica dell’avvento del fascismo, per non aver acconsentito al PC d’Italia di riunificarsi con il partito di Turati. A parte il fatto che in Germania come in Cina cercarono con tutti i mezzi di assolvere il più diligentemente possibile le indicazioni che in materia provenivano da Mosca, ma esiste un modo non opportunista di alleanza con il nemico di classe?

(1) Dal resoconto del II Congresso dell’Internazionale Comunista, I 21 punti di Mosca, Ed. Feltrinelli.

(2) Dichiarazione di Trotksy nel dicembre 1917 riportata da Spriano in Storia del Partito Comunista Italiano, da Gramsci a Bordiga, pag. 21, Einaudi.

(3) Intervento di Bucharin al VII Congresso del partito bolscevico riportato da Spriano nell’op. cit., pag. 21.

(4) Dal resoconto del III Congresso dell’I.C., l’intervento di Trotsky, Ed. Feltrinelli.

(5) Ibidem.

(6) Ibidem, Intervento di Radek.

(7) Dal resoconto del III Congresso dell’I.C., cit.

(8) Dal resoconto del IV Congresso dell’IC, novembre 1922, intervento di Zinoviev, riportato da Spriano in Storia del Partito Comunista Italiano, ed. Einaudi 1975, pag. 245.

(9) Intervento di Zinoviev al IV Congresso dell’IC, riportato in Il contrasto tra l’IC e il PCI 1922-1928, di Humbert Droz, ed. Feltrinelli 1969, pag. 32.

(10) Intervento di Bordiga al V Congresso dell’IC, riportato in Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970) di Danilo Montaldi, pag. 172.

(11) Dalla «Risoluzione del IV Congresso dell’IC» apparso in Il contrasto tra l’IC e il PCI 1922-1928, cit. pag. 33.

(12) Ibidem

(13) Ibidem

(14) Ibidem

(15) Ibidem

(16) Ibidem, pag. 31.

(17) Ibidem, pag. 33.

(18) Critique du programme de Gotha, Libraire de l’humanité, 1922, pag. 48.

(19) Ibidem, pag. 53.

(20) «La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky», Lenin, Opere Scelte, Ed. in lingue estere, Mosca 1948, pag. 397.

Domenica, October 15, 2017