ILVA, Nestlè, Colussi... Questa è la ripresa della borghesia

Sappiamo che dobbiamo fare dei sacrifici, perdere il premio di produzione, ma non accettiamo di essere licenziati e poi assunti con il Jobs Act e perdere l'anzianità (1).

Nelle parole di questo operaio dell'ILVA di Taranto è racchiuso il doppio dramma che sta vivendo la classe operaia dell'azienda siderurgica e di tutto il mondo del lavoro salariato. Da una parte, condizioni di lavoro messe pesantemente sotto attacco, dall'altra una risposta che sa di retroguardia, anzi, di arretramento e rassegnazione, che non riesce nemmeno a immaginare, sia pure vagamente, un'alternativa a questa società, di cui si è consapevoli – perché lo si subisce quotidianamente – che scarica i suoi problemi su chi, in cambio di un salario, le dà la vita. Il non vedere, il non pensare neppure che ci possa essere un modo di vivere diverso, libero dalle logiche del denaro e del profitto, cioè dello sfruttamento e dell'oppressione, solo apparentemente è un aspetto secondario, appartenente al piano astratto dell'ideologia, staccato dalla dura materialità della fabbrica. In realtà, quell'ideologia esprime, compendia e sintetizza i tanti drammi che ogni giorno il capitale impone di recitare a “colletti blu”, “bianchi”, “grigi”: in breve, alla forza lavoro salariata in tutte le sue articolazioni.

Il quadro è noto: nei primi giorni di ottobre, il colosso siderurgico AmInvestco, all'ottantacinque per cento di ArcelorMittal e il resto del gruppo Marcegaglia, presenta le sue condizioni per l'acquisizione dell'ILVA, che si configurano come una vera e propria macelleria sociale per i lavoratori del gruppo. Dagli attuali quattordicimila, gli occupati dovrebbero scendere a diecimila o poco meno, ma alcuni siti produttivi sarebbero più colpiti di altri: a Cornigliano (GE) dovrebbero perdere il lavoro seicento lavoratori su 1500, a Taranto 3331 su settemila. Il dissanguamento occupazionale continua con l'indotto, in particolare quello attorno al sito pugliese, che vedrebbe cancellati ben 7600 posti. Infatti, i “salvati” dalla selezione sarebbero tutti licenziati e poi riassunti in base alle regole del Jobs Act “a tutele crescenti”, vale a dire senza l'ombrello – per quanto limitato – dell'articolo 18; inoltre, non sarebbe riconosciuta l'anzianità, con tutto quello che comporta in termini di ricadute sulla busta paga e sulla pensione, né le “voci” dell'integrativo aziendale (premi di produzione, per esempio). Mettendo insieme tutto, è stato calcolato che un operaio perderebbe sei-settemila euro all'anno. Inutile sottolineare cosa significhi un taglio di quel genere per un salario medio: senza esagerare, si corre il rischio di precipitare nella miseria, se non ci si è già.

Nella sostanza, il gigante ArcelorMittal vorrebbe applicare all'ILVA il “modello logistica”, per così dire, ossia la prassi seguita normalmente dalle cooperative (cosiddette) di facchinaggio che operano per conto delle grandi e meno grandi catene di distribuzione delle merci o effettuano segmenti del processo produttivo un tempo interni all'azienda e ora esternalizzati. Proprio tale prassi è tra le cause principali delle lotte accanite dei facchini che hanno limitato – a volte annullato, almeno in certi siti – quell'infame procedura padronale, benché in regime di schiavitù salariale nessuna acquisizione sul terreno economico-giuridico possa essere considerata definitiva. Prova ne siano – se mai ce ne fosse bisogno – gli scioperi che continuano a interessare la logistica, innescati spesso dal tentativo padronale (2) di peggiorare sensibilmente la condizione operaia in occasione dei cambi di appalto, ma anche la proposta veramente indecente di AmInvestco, che degli accordi del 2005, allora sottoscritti anche dal ministro di turno, vuole appunto fare frattaglie di bassa macelleria. «Pacta servanda sunt», gli accordi devono essere rispettati, recitava lo striscione che apriva il corteo degli operai di Cornigliano in sciopero, ma il capitale li rispetta solo se e fino a quando non intaccano i suoi interessi: se questi, non i “pacta”, vengono minacciati, è pronto a mettersi sotto i piedi non solo montagne di carta con relativi timbri, sigilli e firme, ma montagne di esseri umani, senza alcun rispetto né per la “dignità” né per la loro stessa vita. Giusto per aprire una parentesi – non di importanza secondaria – è risaputo che chi vive a Taranto, oltre ai lavoratori diretti, viene colpito in misura superiore alla media da tumori e altre malattie gravissime, a causa del pesante inquinamento ambientale provocato dall'attività produttiva dell'acciaieria. Così com'è il profitto a ignorare il rispetto della salvaguardia ambientale del territorio e della salute di chi lo abita, è ancora il profitto a spingere ArcelorMittal a comportarsi come un qualsiasi padroncino “cooperativo”. Il punto è sempre quello: oggi, la crisi che caratterizza l'economia mondiale impone al capitale di andare all'attacco delle condizioni complessive di esistenza della forza lavoro, di prendere e non di dare, di non concedere nulla che possa ostacolare il processo di estorsione del plusvalore e la rapina del salario in tutte le sue forme. La svalorizzazione della forza lavoro – l'abbassamento del salario al di sotto del valore della forza lavoro stessa – rimane una delle vie principali percorse dal capitale in questa fase, nel tentativo di far ripartire l'accumulazione ossia l'economia mondiale. Che poi questo crei altri problemi, vale a dire l'inevitabile restringimento del mercato (meno soldi in busta paga, meno possibilità di spendere), fa parte delle contraddizioni inguaribili del capitalismo. Non è certo la prima volta che lo sottolineiamo e se lo ripetiamo è perché il mondo del riformismo più o meno radicale e persino “estremista” (secondo l'etichettatura dei mass media) si ostina a proporre ricette che vengono regolarmente ignorate dal capitale e dal suo personale politico, di qualunque colore. Ci stiamo, riferendo, ovviamente, ai piani per uscire dalla crisi comprendenti l'aumento robusto dei salari, l'estensione dello “stato sociale” e dei “diritti” sul posto di lavoro, la messa in atto di interventi statali nell'economia per riassorbire la disoccupazione in un crescendo scoppiettante di fantasie economico-sociali degne di un cartoon disneyano. Il capitale, invece, fa l'opposto e se lo fa non è perché sia incapace di perseguire il suo interesse, ma perché nel capitalismo è così che funziona: prima di essere realizzato (la vendita della merce), il plusvalore deve essere estorto nel processo produttivo, ed estorto in misura adeguata alla composizione organica. Se per uscire dalla crisi basta aumentare i salari, perché i padroni, i loro delegati politici (i governi) non lo fanno? Sono tutti così economicamente e politicamente sprovveduti o gli sprovveduti sono altri? Quando le difficoltà di creazione del plusvalore (o, detto diversamente, del raggiungimento di un determinato saggio di profitto) diventano strutturali, non c'è spazio per il riformismo “operaio”, a differenza di quanto è avvenuto, per esempio, nei trent'anni successivi al secondo conflitto mondiale. E allora giù a imporre sacrifici, con la promessa che saranno gli ultimi, per agganciare la famigerata ripresa, ma spesso sono davvero gli ultimi, nel senso che poi arriva – malgrado i sacrifici – il licenziamento. Negli stessi giorni dell'ILVA, si parla di centinaia di “esuberi” alla Nestlè e alla Colussi di Perugia, alla Froneri di Parma (Gelateria del Corso, sempre della Nestlè), solo per citare qualche caso che ha avuto l'onore amaro della visibilità mediatica. Eppure, in alcune di quelle aziende, come in tante altre, gli operai erano già passati attraverso la cassa integrazione (perdita di salario) e i contratti di solidarietà (idem), sbandierati dal sindacato come il male minore. Difatti, di (presunto) male minore in male minore, il risultato è che ora la prospettiva si riduce ad essere il taglio brutale dei posti di lavoro.

E' dunque questa la ripresa di cui la borghesia parla? Si, se di “ripresa” si vuol parlare, non può avere altre caratteristiche: deboli tassi di crescita del PIL (quando e se ci sono) al prezzo di un peggioramento complessivo delle condizioni occupazionali per la stragrande maggioranza della forza lavoro. Molti lavoratori questo lo “sentono” più o meno istintivamente e sicuramente lo sanno meglio di tanta parte del riformismo controrivoluzionario (il cosiddetto “antagonismo”, i rottami velenosi dello stalinismo, le allucinazioni del trotskysmo), ma, come si diceva all'inizio, sono ideologicamente schiacciati dalla rassegnazione, dal fatalismo, dalla mancanza della speranza in un modo di vivere radicalmente diverso. Su questa desolazione hanno buon gioco a muoversi i finti amici del proletariato, dal “populismo” fascistoide al sindacalismo – sempre pronto a sottoscrivere accordi al ribasso – che, in vario modo, lo ingannano e lo conducono al macello sociale, oggi, a quello bellico, domani. La lotta contro questa intossicazione ideologica, contro il fatalismo rinunciatario è uno dei compiti prioritari dei rivoluzionari, nella classe, con la classe, di cui non sono altro che la parte, l'avanguardia più cosciente: di gran lunga meglio se organizzata in un partito internazionale. E' un lavoro molto duro, nessuna illusione, ma non ci sono scorciatoie.

CB

PS. Al momento, seconda metà d'ottobre, le trattative per l'ILVA sono ferme – mentre proseguono alcuni scioperi indetti dai sindacati – dopo la presa di posizione del ministro “compagno”, Calenda, il quale ha respinto il piano di AmInvestco, qualificato come inaccettabile. Inaccettabile che cosa? La strage di posti di lavoro o il licenziamento e la successiva riassunzione dei superstiti con le modalità del Jobs Act? In quest'ultimo caso vedremmo la farsa di un ministro che si scaglia contro il “fiore all'occhiello” del governo di cui fa parte, il che non ci stupirebbe, visto che i politicanti della borghesia hanno mille facce e nessun pudore. Che l'intervento del “compagno” ministro sia solo strumentale è evidente, così com'è scontato che alla fine, “ben” che vada, verrà offerto un ridimensionamento (momentaneo) degli “esuberi”, in cambio dei soliti pesanti sacrifici della classe operaia. A meno che essa non ritrovi la forza e la determinazione per mettere i bastoni tra le ruote della macelleria sociale programmata dalla borghesia e dai suoi manutengoli politico-sindacali. Certo, nemmeno così la vittoria sarebbe assicurata, anzi, ma una lotta sul piano di classe, realmente antagonista al capitale, avrebbe ben altro significato, qualunque sia l'esito, nell'ottica di una ripresa generale dello scontro con il capitale...

Lunedì, October 30, 2017