Il piano di rilancio dell'economia italiana secondo Confindustria

Il segretario Boccia sembra vivere su di un altro pianeta. Il suo piano di rilancio è faraonico nei tempi e ambizioso nei contenuti. Il tutto nella incertezza più assoluta sia sulle coperture finanziarie che sui possibili finanziatori. Una cosa è certa, se dovesse partire, a pagare saranno, come al solito, i lavoratori.

Il mese scorso il presidente Boccia ha presentato all'Assise nazionale dell'Associazione il piano di rilancio dell'economia italiana, data per scontata la fine della crisi. Come dire: il peggio è passato ora pensiamo a come organizzare il futuro affinché l'aggancio alla ripresa sia forte e definitivo, per non correre il rischio di rimanere giù dal treno con tutto il bagaglio a mano.

Ma una verifica sui dati che vengono forniti a sostegno della tesi che saremmo fuori dal tunnel, come tutti gli altri paesi capitalisti europei e d'oltre oceano, metterebbe in evidenza la scarsa affidabilità dei dati stessi, se non la loro manipolazione. Il che non significa che nei dati statistici non si rilevino dei miglioramenti rispetto agli ultimi tre anni, ma da qui a dire che le cause che hanno prodotto la più grave crisi economica mondiale dopo quella del 1929-33 sono definitivamente superate è semplicemente falso. Non pochi analisti sono convinti che nuove bolle speculative siano all'orizzonte e che il sistema economico capitalistico stia riproponendosi sugli stessi livelli dell'agosto 2007, quando scoppiò la crisi dei “sub prime”.

Ritornando all'argomento, l'enfatico presidente Boccia ha dichiarato che il Piano prevede investimenti per 250 miliardi di euro da erogare all'economia reale nello spazio di soli 5 anni.

Il rapporto debito/Pil guadagnerebbe almeno 20 punti. Il Pil nei soliti 5 anni aumenterebbe di 12 punti e si creerebbero 1,8 milioni di posti di lavoro. Non male come progetto della più importante Associazione di industriali italiana. Ma vediamo se si tratta di un programma fattibile o se si tratta dell'ennesima “bufala” per farsi dare i soldi dalle Istituzioni europee e per prendere per i fondelli la solita classe operaia che, comunque vadano le cose, dovrà pagare il prezzo della manovra e del suo probabile fallimento.

Intanto la prima e legittima domanda è: chi paga? Domanda né banale né retorica, vista l'ampiezza del progetto e i relativi costi destinati come sempre a dilatarsi almeno del 50% come da prassi consolidata nel “bel paese”, quando si tratta di grandi opere dove tutti, letteralmente tutti, ne godono i vantaggi, meno chi le grandi opere le costruisce con le proprie mani, a una remunerazione salariale che, di solito, è il costo più basso e fisso di tutta l'operazione. Appalti truccati, sub appalti in mano alle varie mafie. Mediatori di ogni genere e faccendieri senza scrupoli si infilano tra le pieghe dei finanziamenti grazie alle “giuste” conoscenze politiche con una Finanza che, molto spesso, è impegnata in altre faccende e non è in grado di intervenire immediatamente. Questo è “Il sistema Italia”, sempre in movimento e sempre uguale a se stesso.

La risposta è presto detta. Secondo lo zelante presidente di Confindustria, 93 miliardi di euro arriverebbero dalle casse della BCE per le opere infrastrutturali. 38 miliardi da singoli imprenditori sotto forma di investimenti produttivi, e non siamo nemmeno alla metà dei fantomatici 250 miliardi. Non sarà certamente il presidente Boccia a mettere le mani nelle sue tasche per colmare il disavanzo. O intervengono altri finanziatori, per il momento non ben identificati, oppure la “fantasia italica” troverà capitali in cerca di “ripulitura” per colmare il disavanzo. Ma pur ammettendo che quanto detto appartenga al regno del solito pettegolezzo, alla mania italiota della dietrologia a tutti i costi e che le cose, una volta tanto, si svolgano nel migliore e più onesto dei modi, ci sarebbero comunque dei problemi, al momento pressoché insormontabili.

Potrebbe intervenire lo Stato con un centinaio di miliardi, ma, allo stato attuale delle cose, non si saprebbe da quale bilancio stornare una simile cifra. In più così tanti miliardi finirebbero per affossare un già alto debito pubblico che l'attenta Europa giudica come un fardello insostenibile per il rilancio dell'economia italiana, tanto da pretenderne, in tempi brevissimi, la drastica riduzione e non un ulteriore aumento. E' giudicato talmente grave l'avere un debito pubblico pari al 132% del Pil, con il relativo esborso di 80 miliardi di euro annui di solo “servizio sul debito”, che metterebbe in seria difficoltà la stessa ipotesi che la Banca centrale europea stanzi ad occhi chiusi i 93 miliardi di euro, come nelle speranze del già citato Boccia. Come se non bastasse, i bilanci finanziari dello Stato italiano sono così conciati da aver accumulato in questi ultimi anni 34 miliardi in debiti da commesse presso le imprese private, che non solo non sono stati onorati, ma che rimarranno nella voce contabile “debiti” per altri anni se non per sempre. Un analogo discorso vale per il privato. I grandi imprenditori per far fronte a simili investimenti sarebbero costretti a farsi finanziare dalle banche che, pur avendo goduto per anni, e giovandosi ancora del QI, sono molto restie a fornire crediti, se non dopo aver studiato a fondo la fattibilità del Progetto e allora, e solo allora, erogherebbero con il contagocce un po' di capitale finanziario per il timore di vedere aumentare le loro “sofferenze”(crediti mai riscossi e molti dei quali da non più poter riscuotere per il fallimento di centinaia di imprese, letteralmente crollate nei momenti peggiori della crisi). Ancora oggi sono più di 200 miliardi i crediti inesigibili che pesano e che rendono timoroso tutto il sistema creditizio, ma anche questo sfugge al “nostro” Boccia e alla sua incrollabile fiducia sulla rapida riuscita del Piano per il rilancio dell'economia italiana.

In mezzo a tanta incertezza e pressapochismo, dove i soldi sono solo sulla carta e difficilmente e con molta fatica entreranno nei meccanismi produttivi, dove chi li dovrebbe erogare - BCE, Stato italiano, imprenditori privati - sono tutti alle prese con dubbi, perplessità e timori sulla bontà del progetto stesso, una cosa però è certa: al proletariato italiano verrà richiesta l'ennesima prova di sacrificio in termini di occupazione precaria, di contenimento dei salari, di maggiore sfruttamento e con il rischio di rivedere un abbassamento delle pensioni.

Il milione e ottocentomila posti di lavoro in cinque anni è solo una fraudolenta chimera. Sempre che il piano decolli, saranno confezionati contratti a termine a salari bassi, se non bassissimi, a scadenza breve, massimo sei mesi da rinnovarsi solo a condizione di una maggiore flessibilità in termini di orario e di intensificazione dei ritmi di lavoro, altrimenti sotto un altro!, tanto l'esercito di riserva sfiora i tre milioni di disoccupati. Per cui i pochi posti di lavoro che verrebbero creati sarebbero il ricatto del capitale in termini di maggiore sfruttamento e di precarietà per l'imminente futuro e oltre.

A sua volta il maggiore sfruttamento si configurerebbe con un doppio aspetto. Il primo quello dell'aumento dei ritmi di lavoro, come ormai è prassi in qualsiasi fabbrica (vedere per credere dalla Fiat di Marchionne a Torino al settore della logistica, passando per una miriade di piccole imprese). Il secondo che passa sotto la denominazione di flessibilità interna, è quello dell'allungamento della giornata lavorativa, ovviamente non confezionata in termini ufficiali, normativi, ma di fatto, quando il capitale, per le supreme necessità di competizione sul mercato internazionale, lo impone. Non a caso lo stesso Boccia su unanime decisione dell'Assemblea della Confindustria, ha sancito che indietro non si torna, il Jobs act e la riforma Fornero restano i capisaldi della tanto auspicata ripresa economica, e che a nessuno venga in mente di cancellarli. Semmai il mercato del lavoro e le pensioni dovrebbero ricevere qualche ritocco funzionale ad uscire “definitivamente dal tunnel”. Il Jobs act ha perfettamente funzionato liberando le imprese dalla difficoltà (quella residua) di licenziamento, creando le condizioni per una flessibilità in uscita che è l'anticamera della stessa flessibilità in entrata, ovvero a condizioni di salario, tempi di lavoro e giornata lavorativa sempre più a disposizione delle necessità di “riscossa” del capitale italico.

Per le pensioni che dire? Se si allungasse ancora il periodo dell'età pensionabile, dopo i danni economici del passaggio dal retributivo al contributivo (fame per gli anziani e maggiore difficoltà per i giovani ad immettersi sul mercato del lavoro), si continuerebbe, in termini aggravati, ad essere in una delle penalizzanti costanti nel sempre più famelico (di profitti) sistema produttivo capitalistico. Le false statistiche recitano che la disoccupazione è diminuita in assoluto e relativamente anche quella giovanile. Si dà per occupato chi ha un contratto a chiamata per pochi giorni o con un contratto a termine che al massimo dura due mesi. Intanto la disoccupazione è risalita dal 10,8 all'11,1%. Per le pensioni siamo già all'osso. Secondo gli stessi dati dell'INPS,

il 39,1% dei pensionati, ovvero 6,3 milioni di persone, ha un reddito da pensione sotto i mille euro al mese”. Lo indica l'Osservatorio dell'Inps, con i dati riferiti al 2016, sottolineando che questa percentuale è in discesa (era al 39,6% nel 2015) “per la possibilità di cumulo di più trattamenti pensionistici”. Gli altri scaglioni: il 38,4% dei pensionati percepisce redditi mensili compresi tra i 1.000 e i 2.000 euro; con più di 2.000 euro al mese sono il 22,5% (oltre 3,6 milioni pensionati), con importi che pesano per il 35,7% sulla spesa pensionistica complessiva.

Le famiglie monoreddito a rischio di povertà sono aumentate, così come sono aumentate quelle che vivono sotto la soglia di povertà. Se dovesse cadere ancora la mannaia del taglio delle pensioni sarebbe lo sfacelo sociale. Ma il capitalismo italiano sembra essere ottimista a tal propositivo. Ottimismo che nasce dalla consapevolezza che sui costi della forza lavoro si può sempre intervenire senza tanti problemi. Se altrettanto ottimismo nel cambiare questo assurdo e arrogante stato di cose maturasse anche all'interno delle masse proletarie, che un simile piano di rilancio economico dovrebbero subire con il plauso delle forze di sinistra e l'aiuto delle Confederazioni sindacali, sarebbe un bel giorno, ma giornate simili vanno costruite, ora dopo ora, lotta dopo lotta con una chiara strategia di scontro di classe. Ma questa è un'altra storia che merita tutto il suo tempo.

FD
Martedì, March 6, 2018