Protezionismo e “globalizzazione” hanno una stessa madre: la crisi del capitale

Allora è finita la “globalizzazione”, cioè la libertà per capitali e merci di spostarsi da un capo all'altro del Pianeta senza barriere che limitino il dispiegamento del mercato e dei suoi miracolosi effetti? A guardare quello che sta succedendo in quest'ultimo periodo, sembra che un'ideologia e, ancor prima, un modo di essere del capitale siano arrivati al capolinea, che la borghesia o, meglio, una parte di essa abbia tirato fuori dagli armadi abiti dismessi da tempo, abiti tipici di climi più rigidi e delle bufere che portano con sé.

Fuor di metafora, la virata protezionista di Trump nei confronti della Cina e non solo, nel caso venisse attuata secondo le modalità minacciate, costituirebbe un ulteriore fattore di turbolenza, sia dal punto di vista economico che da quello dei apporti imperialisti a scala mondiale. Anzi, i due aspetti costituiscono le facce di una stessa medaglia, visto che le misure economiche sono funzionali a una strategia imperialista volta a contrastare tanto i rivali dichiarati quanto gli alleati che mordono il freno e vorrebbero meno soffocante l'abbraccio a stelle e strisce da cui, più o meno entusiasti, sono stretti da oltre settant'anni. Infatti, di per sé è molto dubbio che i dazi doganali possano davvero proteggere l'economia americana nel suo insieme dalla concorrenza straniera. Forse, darebbero un po' di respiro a certi settori della manifattura USA, come quello dell'acciaio e dell'alluminio, ma altri, più numerosi, verrebbero colpiti e i contraccolpi ricadrebbero anche e non da ultimo sulla relativa forza lavoro, probabile vittima di licenziamenti e peggioramenti nelle condizioni di lavoro.

Com'è noto, dopo decenni di “globalizzazione”, la catena del valore, vale a dire il processo produttivo, in molti casi si dipana per più stati: basta appunto guardare il “made in” appiccicato alle merci per vedere quanto le loro parti costitutive, per così dire, siano internazionali. Di più, non è un mistero che, per esempio, la grande catena di distribuzione Wal-Mart fa fare direttamente in Cina molti degli articoli che espone poi sui propri scaffali. Dunque, l'«America first» declinato in salsa protezionista rischia forte di attenuare gli enormi vantaggi che la riforma fiscale varata qualche mese fa ha generato per le imprese statunitensi. A questo proposito, come volevasi dimostrare, la montagna di soldi regalata da Trump ai suoi compari capitalisti sta dando i frutti attesi, cioè, lungi dallo stimolare gli investimenti nella cosiddetta economia reale e tanti posti di lavoro, quella montagna, si diceva, è per lo più impiegata a fini speculativi, per potenziare le attività finanziarie dirette a realizzare plusvalenze, a prelevare il plusvalore estorto nei processi produttivi, senza prendervi parte.

Ma per tornare al protezionismo, forse i dazi, come quello sulle automobili prodotte all'estero minacciati anche l'11 maggio scorso, hanno lo scopo, nella mente creativa del palazzinaro newyorkese, di costringere le case automobilistiche europee e asiatiche a produrre di più negli States, ma questo presuppone grossi investimenti, ulteriori incentivi pubblici a spese dei contribuenti (com'è sempre avvenuto) e, non da ultimo, condizioni di lavoro che si avvicinino a quelle imposte alla classe operaia delle delocalizzazioni, per esempio a quella messicana. Il che, per altro, è già avvenuto; però “vicine” non significa uguali ed è più che probabile, giusto per non atteggiarsi a profeti, che il cosiddetto reshoring o rimpatrio delle attività produttive collocate all'estero, non vada in là più di tanto. Ma questo lo sanno le teste pensanti della borghesia statunitense e forse anche quella grosso modo pensante di Trump, di un personaggio, cioè, che qualche anno fa sarebbe stato considerato una macchietta folcloristica, buono solo per programmi da tivù-spazzatura, ma che le difficoltà di gestione politica generate dalla crisi ha proiettato ai vertici della prima potenza mondiale. E', questa, la storia dei “populismi” che emergono o trionfano un po' dappertutto, populismi che rendono la vita (politica) più complicata al tradizionale ceto politico borghese. La storia della borghesia non è avara di figure alla Trump (vogliamo ricordare la “nostra” gloria nazionale, l'ex cavalier Berlusca?), a cominciare da quell'imperatore da avanspettacolo, Luigi Bonaparte, cui Marx dedicò alcuni dei suoi scritti più brillanti e magistrali.

Ma al di là degli “imprevisti” di percorso, la presidenza americana, pur nei termini scomposti e in parte sconcertanti che le sono propri, esprime un'esigenza, come si diceva all'inizio, ossia quella di contrastare la crescita economico-politica dei suoi competitori, per non dire avversari, sullo scacchiere imperialistico mondiale o comunque di tenerne a freno la malsana idea (per gli USA) se non di mettersi in proprio, quanto meno di ritagliarsi spazi di autonomia più larghi rispetto all'ingombrante alleato. Insomma, gli USA devono continuare a fare il bello e cattivo tempo nei secoli dei secoli e gli altri devono adattarsi. La cosa però è sempre più complicata, complicata dalla crisi cominciata una quarantina d'anni fa, i cui svolgimenti hanno portato la Cina a tallonare sempre più da vicino gli Stati Uniti e a spingere le litigiose borghesie europee a intraprendere il faticoso – e per nulla scontato – cammino di un polo imperialista unitario.

Se la Cina è diventata quella che è, ciò è dovuto in parte significativa ai capitali “occidentali”, statunitensi compresi, ma ora il “socialismo di mercato” cinese (come battuta non è male...) sta minacciando il primato detenuto dagli USA in molti settori economici, a cominciare da quello della manifattura high-tech, con alti livelli tecnologici. Dietro i dazi sull'acciaio e sull'alluminio, è quello il vero obiettivo da colpire, il progetto “Made in China 2025” (1), che vuol dire sviluppare o accelerare lo sviluppo dell'alta tecnologia, per fare il salto da “manifattura del mondo” basata su prodotti a medio-basso valore aggiunto (per usare una terminologia borghese: in realtà, di valore estorto alla classe operaia ce n'è eccome) a quello di manifattura che utilizza e potenzia le tecnologie più avanzate. Benché, secondo certi osservatori borghesi, la distanza tra la Cina e gli Stati Uniti sia ancora ampia, e in certi comparti molto ampia, il distacco si va colmando velocemente, addirittura, pare, più velocemente del previsto, il che non può non impensierire la borghesia yankee, indipendentemente da personaggi che si ritrova come rappresentanti supremi. Washington giustifica i dazi e il blocco delle acquisizioni di importanti aziende da parte di capitali cinesi come ritorsione contro il furto della proprietà intellettuale cui sarebbe dedita la Cina. Vero o meno – il che per altro rientra nella norma del mondo borghese – rimane il fatto che gli Stati Uniti non possono dominare il mondo solo con la bruta superiorità militare, la quale, d'altronde, presuppone un apparato militare-industriale secondo a nessuno, soprattutto nel settore high-tech.

Per certi aspetti si può fare la stessa considerazione per gli “sgarbi” protezionisti annunciati contro l'Europa, da cui, en passant, vorrebbe che scucisse più soldi per il mantenimento della NATO. A Trump, evidentemente, non sono piaciuti le mezze frasi della Merkel sul fatto che l'Europa (guidata dalla Germania) cominci a camminare da sola, senza dover ogni volta dare la manina allo Zio Sam. Sia chiaro, allo stato attuale delle cose una simile ipotesi è proprio un'ipotesi e nemmeno tanto vicina, ma se a questo si aggiunge il deficit commerciale nei confronti dell'UE e in particolare della Germania, beh, le cose fastidiose cominciano a essere più di una.

Siamo alle prime battute di questa nuova fase dei rapporti imperialisti, fase in cui le formalità diplomatiche improntate al bon ton giocano ancora un ruolo, benché sostanzialmente di facciata (vedi il vertice Cina-USA del 3 maggio, dove non si è concluso praticamente nulla), ma accanto ai sorrisi di circostanza, si cominciano a brandire le armi, finora economiche. La Cina, infatti, come prima risposta, ha annunciato che smetterà di importare soia dagli USA (i maggiori produttori mondiali), di cui è il principale mercato di sbocco. Se così fosse, colpirebbe duro gli stati agricoli del Mid-West, che, tra l'altro, hanno votato in maggioranza per Trump. C'è chi ipotizza che il blocco delle importazioni di soia

potrebbe costare oltre 300 mila posti di lavoro nel Midwest e la rielezione a @real Donald Trump, con buona pace dei suoi tweet su “America First”.

Corriere della Sera on-line, 7 maggio 2018

Non è possibile ora sapere se, quanto e come la battaglia protezionista andrà avanti, un genere di battaglia che, storicamente, ha posto le premesse per la nascita di tensioni acute fra gli stati o di accelerato aggravamento delle stesse, fino a sfociare in scontri aperti non più sul terreno economico, ma direttamente su quello militare. Già per interposta persona sono accese guerre in varie parti del pianeta e non è detto che prima o poi i contendenti non si affrontino in prima persona. L'orizzonte è gravido di tempesta e sarà il decorso di una crisi che non passa a scrivere la sceneggiatura del prossimo domani.

CB

(1) Per non dire della nuova Via della Seta ossia l'espansione geo-strategica della Cina ai quattro angoli del mondo, con lo sviluppo di vie di comunicazioni volte a favorire gli scambi commerciali. A questo si può aggiungere il sostanzioso deficit commerciale degli USA nei confronti di Pechino e il fatto che quest'ultima detenga una quota tutt'altro che disprezzabile del debito pubblico americano.

Martedì, May 15, 2018