“Gabbia dell'euro” o gabbia del capitale? Sul libro di Domenico Moro

Introduzione

All'inizio dell'anno è uscito un libro di un autore abbastanza noto tra chi bazzica i siti internet e i blog della “sinistra” genericamente intesa; un libro che ha suscitato molte reazioni, ossia recensioni, per lo più positive, se si tiene conto di quelle uscite su Sinistrainrete. L'autore in questione è Domenico Moro e l'argomento da lui trattato è uno di quelli che tiene banco sulla scena politica italiana – ma non solo – vale a dire la natura e il ruolo dell'euro, soprattutto in rapporto alla classe lavoratrice. Il titolo – La gabbia dell'euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra. Imprimatur, 2018 – offre indicazioni precise su cosa pensi Moro della moneta unica, usando termini che danno la misura di quanto decenni di stalinismo e di cosiddetto post-stalinismo abbiano distorto i termini medesimi. E' stata proprio la parola “internazionalista” che ci ha spinto a prendere in mano il volumetto, mossi dalla curiosità di vedere fino a che punto un appartenente alla tradizione politica dello stalinismo riuscisse a manipolare un concetto cardine della storia del movimento operaio. I risultati, da questo punto di vista, hanno superato le aspettative o, per non esagerare, le hanno puntualmente confermate, non trovando niente, nell'uso politico del termine, che possa essere ricondotto al suo significato corretto, quello non adulterato dalla teoria e ancor più dalla prassi della Terza Internazionale degenerata e dei partiti inseriti nel suo corso degenerativo. Non per niente, Moro è stato un esponente del Partito dei comunisti italiani, scissione di Rifondazione comunista e ricettacolo delle forze che con meno vergogna si richiamavano all'esperienza dell'URSS staliniana oltre che, va da sé, a quella del vecchio PCI. Forse, a eventuali giovani lettori appartenenti all'arcipelago del cosiddetto antagonismo (espressione mediatica abbastanza insulsa), questi accenni a una storia che si sta cronologicamente allontanando sempre più, dicono poco, ma riteniamo che sia importante richiamarli per mettere il più possibile a fuoco il contesto politico cui appartiene l'autore. Infatti, se quella storia sfuma nel tempo, i suoi veleni sono ancora in circolazione a intossicare le variegate articolazioni della “sinistra”. A riprova, non si spiegherebbero gli apprezzamenti persino entusiasti di molti che – lo si è appena detto – hanno recensito il libro, non solo ascrivibili all'area “sovranista” (di sinistra, ci mancherebbe...), ma anche di altri che assumono, per così dire, una postura politica più classista e radicale dei compari sovranisti, almeno a parole. Sarebbe dunque da ingenui chiedersi il perché di tante lodi a un libro che, in fondo, potrebbe essere considerato un libro della nostalgia, un album di fotografie di un mondo che non c'è più e che non tornerà. Quel mondo era quello del PCI, di un partito (e sindacato) radicato nella classe, che cresceva, elezione dopo elezione, all'insegna del collaborazionismo interclassista, della difesa dell'ordine sociale borghese nel nome di una democrazia progressiva che, un domani (quanto mai vago e sicuramente molto lontano) si sarebbe trasformata in socialismo. Un mondo, non certo da ultimo, che viveva la fase ascendente del ciclo di accumulazione, frutto del secondo macello mondiale, figlio, a sua volta, della più grave crisi del sistema capitalista apparsa finora.

Moro, nel suo lavoro, riprende molte delle vecchie parole d'ordine che per decenni sono state issate sulle bandiere della “sinistra”, non solo dal punto di vista politico, ma anche economico, com'è naturale che sia, essendo i due aspetti strettamente legati.

“Nuovo” compendio del riformismo (in salsa sovranista)

Partendo dal secondo, a una prima impressione si potrebbero trovare consonanze con l'analisi dei fattori economici che hanno portato alla nascita dell'euro. Esso, infatti, sarebbe la risposta che la borghesia europea ha dato alla crisi del capitale, da Moro definita strutturale e di sovraccumulazione, anche se non è chiaro, almeno per noi, che cosa si intenda per strutturale e se caratterizzi l'epoca cominciata oltre quarant'anni fa oppure un arco temporale più breve. Di più, nel libro si afferma che l'euro facilita la messa in opera delle controtendenze alla caduta del saggio di profitto, indicate da Marx nel Terzo libro del Capitale. Tra esse, un posto di primo piano spetta alla compressione dei livelli salariali, conseguenza, essenzialmente, della politica deflattiva messa in atto dalla Banca centrale europea (BCE). Che l'UE abbia perseguito e persegua una politica di austerità, il che significa in primo luogo attacco al salario in tutte le sue forme è evidente e quasi banale, verrebbe da dire. Tuttavia, l'aggressione permanente alle condizioni di vita e di lavoro della classe salariata, del proletariato, non è certo prerogativa della borghesia europea né è stata inaugurata dall'introduzione della moneta comune, ma comincia molto tempo prima in tutti i paesi “avanzati”, quando appunto la crisi di sovraccumulazione di capitale si fa conclamata. Lo stesso si può dire per il progressivo disimpegno dello stato da un certo tipo di interventismo economico, così come si era configurata dagli anni Trenta del secolo scorso fino ai trionfi nell'epoca del boom post-bellico, periodo che si è chiuso “ufficialmente” il 15 agosto 1971, con la denuncia degli accordi di Bretton Woods da parte del presidente americano Nixon. Infatti lo stato non ha rinunciato in toto a intervenire a sostegno del capitale, anzi, la sua assistenza continua ad essere fondamentale per evitare che il sistema economico si inceppi rovinosamente. Dalla predazione dello “stato sociale” per ripagare i detentori dei titoli di stato, passando attraverso la riduzione dell'imposizione fiscale a favore delle aziende, fino alla montagna di denaro erogata dagli stati per salvare banche e imprese in genere – cominciando dalle più grandi: troppo grandi per fallire, si diceva – dopo il 2007, solo per citare alcuni elementi, l'intervento statale ha avuto e ha un ruolo determinante nel rallentare la corsa verso il baratro. In breve, lo stato si adegua alle trasformazioni del processo di accumulazione, alle sue necessità e al contesto storico in cui avvengono tali trasformazioni, di cui esse costituiscono la base. Nel contesto storico, un ruolo fondamentale gioca la lotta di classe. Dunque il modo in cui il proletariato si pone e persino come la sua “postura” è percepita dal nemico di classe sono tutt'altro che ininfluenti sul decorso della crisi. Per esempio, tra il 1929 e il 1933, i governi misero in atto misure, per fronteggiare – così credevano - la crisi, che hanno dei punti di contatto con quelle prese dalla UE in questi anni. La difesa a oltranza della stabilità monetaria (allora della convertibilità in oro), del pareggio del bilancio, a spese naturalmente di salari e stipendi (1), fu abbandonata per la sua palese inefficacia, certo, ma anche per la minaccia, più potenziale, purtroppo, che reale, costituita dal “fantasma” della rivoluzione comunista che aleggiava sulla borghesia. Il fantasma si era materializzato in Russia ed esercitava un forte fascino per milioni di proletari in tutto il mondo: era la prova che l'alternativa al capitalismo esisteva e che si poteva imporla anche in altri paesi. Non importa che la Russia staliniana – ben distante da quella dell'Ottobre - fosse la negazione brutale delle speranze proletarie, che il suo finto socialismo non fosse altro che capitalismo di stato: l'importante era che gran parte del proletariato, soprattutto quello più combattivo, era o potesse essere conquistato dall'idea dell'alternativa, reso più audace dalla presenza di uno stato “socialista” che gli copriva le spalle e lo sosteneva. Là dove la borghesia non spazzò semplicemente via il movimento operaio, come premessa del superamento della crisi (fascismi), l'adozione delle prime forme di welfare state aveva dietro di sé anche e sicuramente non da ultimo quella paura, benché la presenza di comunisti (2) nell'America rooseveltiana fosse ben poca cosa. Oltre a questo, allora gli stati non erano oberati da un debito pubblico imponente, che impedisce manovre economiche “espansive” e, soprattutto, divenne chiaro (o per alcuni lo era già) che l'unica vera via d'uscita alla crisi era la guerra; distruggendo il capitale in eccesso (costante e variabile ossia esseri umani) poteva ricostituire le condizioni per far ripartire il processo di accumulazione, come in effetti avvenne.

Permanendo, dopo la guerra, la presunta minaccia comunista e, prima di tutto, conseguendo un'estorsione di plusvalore tale da poterne destinare una parte anche alle spese improduttive (secondo il capitale) per lubrificare il funzionamento del sistema, la borghesia ha potuto espandere il ruolo dello stato nell'economia - come gestore diretto di interi comparti produttivi – e nella società. Oggi quelle condizioni non ci sono più, ma, come si diceva, lo stato non si è ritirato dall'economia, ha solo cambiato modalità d'intervento.: meno stato imprenditore, meno welfare, sostituito dal welfare finanziario, dalla stimolazione (presunta) del ciclo economico attraverso tagli fiscali, dall'abolizione delle limitazioni (mai sostanziali) al libero dispiegarsi degli “spiriti animali” del capitale, frutto di un'epoca in cui un compromesso in senso riformista coi “rappresentanti” della classe lavoratrice poteva persino essere conveniente per il capitale stesso (3). Il nuovo corso del capitalismo presuppone e impone l'intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro in ogni sua forma e con ogni strumento ritenuto utile alla bisogna. L'euro rientra tra questi strumenti e Moro lo afferma più di una volta, anzi gli riserva un posto privilegiato in tal senso, sottolineando come la moneta unica abbia favorito le élites economiche – vale a dire il grande capitale – e l'export dell'Unione europea, cresciuto in maniera significativa dal 2007. In questo quadro, sarebbero penalizzati i settori manifatturieri orientati al consumo interno a causa, sostanzialmente, della compressione salariale, necessaria per abbassare il costo delle merci, e dell'austerità di bilancio. C'è del vero, naturalmente, ma questa è una delle contraddizioni ineliminabili del capitalismo: se taglia i salari, e a un certo stadio dell'accumulazione deve colpirli, restringe per forza di cose il consumo, ma non può fare altrimenti per risollevare il saggio del profitto caduto troppo in basso. Si tratta di un meccanismo ampiamente analizzato da Marx eppure per molti sedicenti marxisti è un oggetto misterioso, anzi sconosciuto, visto che nelle loro ricette riformiste, compresa la variante radicale, non manca mai l'aumento generalizzato del salario, magari a braccetto con qualche forma di reddito garantito, come momento risolutivo della crisi. Anche Moro, che qualche anno fa aveva addirittura scritto un “Nuovo compendio al Capitale”, e che dunque dovrebbe conoscere le analisi di Marx in merito a questi aspetti, non fa eccezione: tutto (o, se non tutto, molto) è possibile per la classe lavoratrice e per l'economia nazionale, purché si rompa con l'euro e con il “vincolo esterno” costituito dai trattati della UE. Tra le tante possibili citazioni, ne prendiamo una, perché ci pare che sintetizzi bene il “Moro-pensiero” e quello dei cosiddetti sovranisti di sinistra, per la verità poco distinguibili da quelli di destra, relativamente all'economia. Il passo dice:

L'uscita dall'euro, dunque, è una condizione certamente non sufficiente ma necessaria sul piano politico e non solo economico, per difendere gli interessi del lavoro salariato e soprattutto per ricostruire una strategia di cambiamento a livello europeo, cioè una strategia internazionalista [!]. E' una condicio sine qua non, senza la quale non si può né portare avanti una politica di bilancio pubblico espansiva, né un allargamento dell'intervento pubblico, mediante vere ripubblicizzazioni di banche e aziende di carattere strategico, né tantomeno di difendere efficacemente salari e welfare. All'interno dell'euro si può e si deve lottare per il lavoro, il salario e il welfare, ma non ci sono le condizioni per dispiegare fino in fondo e con efficacia tale lotta (4).

Non male per uno che parla, giustamente, di internazionalizzazione del capitale e delle connessioni reciproche fra le economie “nazionali”. I sovranisti di ogni tinta lo negano con forza eppure è facile capire che un'eventuale uscita dalla moneta unica per riappropriarsi di una presunta sovranità economica nazionale genererebbe un maremoto le cui vittime principali sarebbero il proletariato e, a seguire, larghi strati di piccola borghesia, per inciso proprio quei settori in cui i populismi anti-euro pescano un sacco di voti (5). Un assaggio molto doloroso, per le classi sociali più basse – quelle indicate comunemente come popolo – lo si è visto in Grecia, dove Syriza, dopo aver abbaiato a squarciagola contro i vincoli di bilancio europei, ha confermato il proverbio astenendosi dal mordere, anzi, facendo ingoiare a quel proletariato che aveva giurato di difendere fino alla morte, una medicina prescritta dalla Troika più amara di quella prevista dai primi piani di “salvataggio”. Un altro sentore di quello che potrebbe accadere si è avuto negli ultimi giorni di maggio, segnati dall'affannosa ricerca di alchimie governative, quando il solo nome di un ministro “euroscettico” (ma membro a pieno titolo di quel sistema finanziario a cui Lega e 5Stelle dicono di voler imporre rispetto per il popolo...) scatena la speculazione e fa salire il famigerato spread dei titoli di stato italiani.

Moro, da buon riformista, non vede altro orizzonte al di fuori del capitalismo, ragiona in termini di “bilancio pubblico”, “intervento pubblico”, “ripubblicizzazioni”, cioè nazionalizzazione, di “banche e aziende di carattere strategico”, in pratica, di politiche keynesiane per un “altro” capitalismo, quando di capitalismo ce n'è uno solo e per di più, in questa fase storica, segnato dalla crisi, impossibilitato, anche se lo volesse, a perseguire politiche economiche di stampo keynesiano.

Che dire poi del fatto che la classe operaia (intesa in senso lato) avrebbe maggiori possibilità di conseguire avanzamenti sul terreno economico in un singolo stato pienamente sovrano, che nell'Unione europea? Ancora una volta: non aveva parlato di mondializzazione del capitale? Pensa che si possa tornare indietro di un secolo e mezzo, prima della fase imperialista, quando, fino a un certo punto, si poteva parlare di un capitalismo nazionale e i singoli governi avevano margini di gestione relativamente più larghi di quelli odierni? Non sono i trattati, i vincoli di bilancio, l'euro in quanto tali a deprimere le possibilità di vittorie nelle vertenze di tipo sindacale, ma le difficoltà acute che affliggono il processo di accumulazione, vale a dire la crisi strutturale del capitalismo. Trattati, vincoli ed euro sono, come peraltro sottolinea lo stesso Moro, gli strumenti di cui si dota il segmento europeo della borghesia, ma il “Nostro” non ne trae, sul piano politico, le dovute conseguenze. E non può nemmeno trarle, perché la sua visione del mondo affonda le radici nel terreno dello stalinismo, che ha pervertito la teoria e la prassi del comunismo, rendendolo inviso a milioni di proletari o, ben che vada, simile a un bel sogno ma di difficilissima realizzazione. Si dimostra così una volta di più che non necessariamente analisi grosso modo accettabili (almeno in parte) sul piano economico, si sposano con indicazioni politiche corrette, e viceversa.

Lo “stato di tutto il popolo” (6): ancora tu?

Detto questo, verrebbe da pensare che Moro non conosca alcuni testi basilari sullo stato di Marx, Engels o Lenin, ma la citazione di un passo classico smentisce l'ipotesi e conferma quanto si è appena detto dello stalinismo. A pagina 69, si appella a Marx ed Engels per affermare che «la repubblica democratica rappresenta il “migliore involucro possibile” per l'esercizio del potere borghese», ma nella pagina seguente si produce in un elogio della Costituzione antifascista come cristallizzazione di rapporti di forza più favorevoli alla classe operaia, conquistati nella Resistenza. Costituzione antifascista e repubblica democratico-parlamentare sono state la forma che quei rapporti di forza hanno assunto in Italia – ma anche in Europa, con intensità diverse – che hanno permesso (Moro dixit) le conquiste democratiche della classe operaia, agente attraverso i suoi organismi sindacali e politici (CGIL e PCI, innanzi tutto). Le istituzioni democratiche (ora non più “miglior involucro”, evidentemente, ndr) hanno difeso quelle conquiste, promosso il welfare e opportune scelte di politica economica a sostegno dello sviluppo (capitalista, aggiungiamo), anche e non da ultimo perché le istituzioni erano presidiate dai grandi partiti di massa, attraverso i quali si esprimeva la volontà popolare. Poi, l'Unione europea ha imposto una svolta autoritaria – anzi, essa stessa è una struttura autoritaria – ponendo vincoli e obblighi che limitano, per non dire annullano, la volontà popolare e rendono i parlamenti nazionali semplici notai-esecutori di quanto viene deciso a Bruxelles. Ora, a parte il fatto che in questa analisi che abbiamo sintetizzato viene calpestato l'ABC del marxismo, Moro dimentica forse che sono stati i “presidianti”, presunta vox populi, a costruire l'edificio europeo, votazione parlamentare dopo votazione parlamentare, e che lui stesso, lo ripetiamo, ha fatto parte di un partito che sosteneva il governo presieduto da Prodi, ex presidente della Commissione europea. La citazione di Guido Carli, già governatore della Banca d'Italia e presidente di Confindustria, messa all'inizio del libro, è quanto mai pertinente (7), perché illustra la volontà della borghesia europea di superare le dimensioni nazionali, nel tentativo di mettere in campo un organismo che rispondesse alle esigenze suscitate e imposte dalla crisi, tentativo per niente facile, come dimostrano le vicende passate e presenti, ma obbligato, se il capitale domiciliato in Europa vuole giocare un ruolo non insignificante nello scacchiere dell'imperialismo mondiale. Citazione appropriata, dunque, ma ancora una volta giocata in maniera sbagliata, in favore di nostalgie nazionalistiche o, per dirla con Moro, patriottico-democratiche ossia la faccia buona dell'ideologia nazionalista. Ideologia che non sarebbe tutta da rigettare, solo nella sua variante xenofoba e autoritaria, cioè di destra, mentre sarebbe da recuperare nella sua versione democratica, quella che ha animato i giacobini, il Risorgimento e la Resistenza, per issarla contro quello che Moro chiama l'ideologia delle élites, vale a dire del grande capitale. La chiama cosmopolita perché, operando a livello trasnazionale, non avrebbe la necessità di legarsi strettamente a uno stato nazionale, come le piccole e medie industrie. Ora, a parte il fatto che non solo il grande capitale agisce a scala mondiale – e Moro lo sa bene, non dobbiamo insegnarglielo noi - visto che, per esempio, non poche delle imprese italiane che delocalizzano rientrano nelle PMI, l'uso del termine “cosmopolitismo” ci riporta indietro di duecento anni, alle recriminazioni degli intellettuali romantici, fautori della rinascita (o nascita) nazionale contro l'Illuminismo che faceva appunto del cosmopolitismo un elemento distintivo (8). Se, allora, quella querelle aveva un senso, oggi è semplicemente ridicola e ad alto tasso di anticomunismo, così come lo è il tirare per i capelli Marx, Engels, Lenin e persino Rosa Luxemburg (!) per legittimare una “via nazionale al socialismo” in nome di una rinnovata “autodeterminazione dei popoli” da impugnare contro il cosmopolitismo delle élites europee. Il perché sia strumentale il ricorso ai “genitori” del movimento comunista per giustificare una prassi politica nazionalista e per ciò stesso controrivoluzionaria, lo abbiamo spiegato mille volte e rimandiamo ala nostra pubblicistica. Certo è che ancora una volta emerge una contraddizione stridente tra l'analisi economica e le indicazioni politiche, perché, lo ribadiamo, mai l'Autore si pone e pone il problema del superamento rivoluzionario del capitalismo, ma sempre e soltanto quello del recupero di forme democratico-nazionaliste della società borghese appartenenti a un'altra fase storica del capitalismo. Se il cosmopolitismo, non il nazionalismo, dice Moro, è l'ideologia delle élites, cioè del grande capitale, lo è perché essa ne esprime le esigenze economico-politiche, frutto a loro volta di movimenti profondi nella struttura della società (in breve, la caduta del saggio di profitto, la crisi), aggiungiamo noi. Ma allora, perché lottare sul piano della sovrastruttura, cioè della politica, secondo le regole e i limiti imposti dalla borghesia? Egli pensa che basterebbe «allargare gli spazi di democrazia, di sovranità democratica» per contrastare – rimanendo sempre dentro il quadro istituzionale borghese, attenzione – la presente tendenza storica del capitale e dare più forza contrattuale ai lavoratori. Vale la pena riportare un passaggio che esprime al meglio la contraddizione e il nullismo di questo “sovranismo di sinistra”. A pagina 84 si dice:

questi meccanismi [la riconquista della “sovranità democratica e popolare”] si concretizzano […] nella ricollocazione a livello statale del controllo delle valute, al fine di manovrare sui cambi e di attribuire alla Banca centrale il ruolo di prestatore di ultima istanza e di acquisto dei titoli di stato. Ovviamente, queste misure non risolvono di per sé tutte [qualcuna sì? Ndr] le contraddizioni del capitalismo né i problemi dei lavoratori. Tantomeno sono propedeutiche alla trasformazione dei rapporti di produzione capitalistici in rapporti di produzione socialisti. Tuttavia, indeboliscono i rapporti di produzione capitalistici, perché l'euro è una importante (se non la più importante) leva di imposizione del comando del capitale sulla forza lavoro e di ristrutturazione del profitto, mediante l'internazionalizzazione del capitale, elemento decisivo del capitalismo contemporaneo [sottolineatura nostra, ndr].

Tralasciando il particolare che per noi rimane un mistero come dei rapporti di produzione possano essere indeboliti (9), “l'internazionalizzazione” sopporterebbe molto male freni e marce indietro che i “sovranisti” vorrebbero imporle (a parole), ma se questo avvenisse avrebbe gravi ricadute, in primo luogo, come s'è detto, sul proletariato e starebbe a significare che la borghesia ha sempre più difficoltà ad amministrare gli effetti della crisi e le tensioni che ne derivano (10). Storicamente, situazioni simili sono state il presupposto della maturazione di epoche buie. Per il momento, a proposito della sceneggiata che ha partorito il governo “giallo-verde”, il commissario europeo al bilancio, Oettinger, ha ricordato – con poco savoir faire, è vero – una verità elementare sul gioco truccato della democrazia borghese, cioè che non si può votare contro i “mercati” ossia contro il capitale e le sue tendenze dominanti. Se questo dovesse accadere, prima o poi i “mercati” rimetterebbero in riga i reprobi, ma il prezzo da pagare sarebbe salato, persino drammatico. Allora, se dramma deve essere, che sia il proletariato a recitarlo da protagonista, spezzando, una volta per tutte, le catene dei “mercati”.

CB

(1) Va da sé, non furono di nessun sollievo per le condizioni disastrate dell'economia, se mai contribuirono ad alimentare il circolo vizioso in cui era precipitata. Ma neanche il New Deal rooseveltiano superò la crisi, nonostante le leggende: ci volle la seconda guerra mondiale per farlo.

(2) Intendiamo gruppi e individualità che, più o meno correttamente, definivano così se stessi, il che non significa che oggettivamente lo fossero davvero.

(3) Vedi, a questo proposito, il nostro opuscolo Il sindacato nel terzo ciclo di accumulazione del capitale, riportato nel nostro libro Contro venti e maree.

(4) Domenico Moro, La gabbia dell'euro, pag. 84.

(5) Sulle conseguenze di un'uscita dall'euro c'è molta letteratura, qui ricordiamo solo alcuni aspetti: svalutazione marcata delle moneta nazionale, necessità di ripagare un debito pubblico denominato in euro con la moneta nazionale per l'appunto svalutata e a fronte di un deciso aumento dei tassi di interesse, grossi problemi per le banche che detengono titoli di stato così svalutati, con conseguente restringimento del credito alle imprese, impennata del costo delle materie prime importate che supera i vantaggi per l'export legati alla svalutazione e alla caduta verticale dei salari, inflazione a due cifre ecc.

(6) È Marx che nella “Critica al programma di Gotha” demolisce pezzo per pezzo questo feticcio della democrazia borghese e del riformismo.

(7) «L'Unione europea ha rappresentato una via alternativa alla soluzione di problemi che non riuscivamo ad affrontare per le vie ordinarie del governo e del Parlamento», pag. 5.

(8) Il cosmopolitismo, che potremmo definire, semplificando, come il pensare oltre le frontiere, il sentirsi “cittadini del mondo”, era concepito come un modo di essere individuale, non di massa, patrimonio ristrette di élites colte e, inutile specificarlo, appartenenti alle classi superiori.

(9) Si possono, se mai, alterare i rapporti di forza tra le classi, non i rapporti di produzione, che quelli sono e quelli rimangono, al di là dell'involucro giuridico che posso assumere, per esempio, capitalismo “privato” o capitalismo di stato. L'indebolimento, nel senso di progressiva scomparsa, si può avere solo con la presa del potere del proletariato, per via rivoluzionaria, ma non è questo il caso contemplato da Moro.

(10) A tale proposito, vedi l'articolo sulla Brexit in questo numero della rivista.

Martedì, June 19, 2018

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.