Panoramica sulle condizioni in cui versa il capitalismo globale

Alla testa della crisi economica

Le battaglie di una aperta guerra commerciale appena iniziata fra i maggiori centri statali imperialisti borghesi, per ora culminante con l’introduzione di dazi doganali da parte americana, altro non sono che gli effetti di quello che viene definito – con un eufemismo – il “rallentamento” globale della economia capitalista. Ed ecco la guerra dei dazi– questa sarebbe la nuova faccia del capitalismo! – la quale entra a far parte dei tentativi di rimettere in equilibrio un sistema economico che più instabile di cosi non potrebbe essere, scosso dalle raffiche di una di volatilità in aumento sui mercati finanziari e ben oltre le “turbolenze” ufficialmente dichiarate. Mercati fittizi, a loro volta sconvolti dalla crisi del settore produttivo di merci e dal venir meno del vitale flusso di plusvalore che sorregge la traballante esistenza del capitalismo. Un sistema storico giunto al capolinea, che insegue invano la chimera di una sua espansione socialmente equilibrata e sostenibile. Proprio quando il profitto, l’unico fine del capitale, sia ormai soprattutto realizzabile a livello monopolistico e quindi scavando ulteriormente la fossa a questo sempre più assurdo (insostenibile) modo di produrre e distribuire. Ed infatti, monopoli ed oligopoli, coi loro extra profitti annullano ogni possibile “concorrenza” (e quindi annullano un’altra speranza di rianimazione dei mercati in stato quasi comatoso!) di medie e piccole aziende, i cui saggi di profitto sono in rovina anche a seguito dei prezzi delle merci imposti dai monopoli. Diventa difficile, ormai impossibile, pareggiare i diversi reali saggi di profitto; le loro differenze impongono, come un imperativo, un costante aumento della produttività sostituendo manodopera con macchine e nuove tecnologie. E questa è soprattutto una possibilità a disposizione delle grandi imprese.

A questo punto, però, il rarefarsi del lavoro vivo come principale “creatore” di plusvalore, quindi la disoccupazione, provoca una mancanza di domanda solvibile delle merci, rallentando ancora la crescita di quel profitto che poi finisce col ridursi (come saggio) anche nei settori monopolistici delle grandi imprese, dove proprio la forte estorsione di plusvalore relativo porta ad un dilatarsi della disoccupazione e ad un restringersi del consumo di merci. Quindi, investimenti bloccati da scarse prospettive di profitto, determinando una produzione stagnante e una crescente disoccupazione.

Con questa premessa, apriamo una finestra sullo stato di salute dei maggiori centri capitalistici, in particolare guardando a quei riflessi finanziari (negativi) che seguono la crisi economica.

La situazione economico-finanziaria degli Usa

Prendendo atto della fase altamente critica nella quale il capitalismo è precipitato da qualche decennio, diamo ora uno sguardo a quanto sta accadendo fra le super-potenze economiche, cominciando da quegli Usa che nel 2018 hanno avuto un disavanzo commerciale che ha toccato – ufficialmente – il 2,9% del Pil, in peggio rispetto al 2,8% dell’anno precedente. Lo stesso per i deficit gemelli (Stato e privato) i quali continuano ad aumentare e finché dura il capitalismo, nonostante il blà blà blà ufficiale, mettono a nudo la tragica realtà che accompagna l’agonia di questo modo di produrre e distribuire.

Invano ci si aggrappa a qualche investimento nei settori produttivi, o ad alcune scorte di merci aumentate assieme a spese federali e pubbliche: si spacciano per il segnale di un rallentamento della decrescita, per il capitale ormai in atto, ma il costante allargarsi del rapporto debito pubblico/Pil e sotto gli occhi di tutti e così pure il deficit di bilancio (966 mld di dollari, pari al 4,7% del Pil).

Il saldo primario del debito pubblico, cioè non calcolando il pagamento degli interessi sul debito, è sempre negativo (quasi il 3% del Pil).

Nel quadro complessivo di un debito aggregato mondiale che ha raggiunto la vetta di el 2008 era di 177.000 mld!), quello pubblico americano in dieci anni è più che raddoppiato. Ha raggiunto il picco di 21.000 mld: quest’anno Washington dovrà sborsare 390 mld di dollari soltanto per pagare gli interessi sul debito pubblico. Si stima che, fra un decennio, tale quota annuale potrebbe essere di 900 mld di dollari!

Quello che grava direttamente sulle famiglie americane è oggi un debito di 13.300 mld di dollari; le ipoteche immobiliari ammontano a 9.000 mld, superiori ai dati del 2008; i debiti per gli studenti (un incubo per molti americani) hanno raggiunto i 1.500 mld di dollari (erano 611 nel 2008); per l‘acquisto di auto vi sono debiti di 1.250 mld. Si pensi che la bolla dei mutui subprime era nel 2008 di solo 1.300 mld di dollari; da notare, inoltre, che oggi ad aggravare le cose c’è un mercato azionario addirittura gigantesco ma piuttosto fragile e pronto a franare. Ed anche il cosiddetto “sistema bancario ombra” continua a diffondersi, sino ad oltre 45mila mld di dollari, dai 28mila del 2010… Non c’è che dire: quello finanziario fu – una quindicina d’anni fa – presentato, ed esaltato, quasi come un castello dei miracoli (nelle sue stanze si festeggiavano le gesta del globale sistema economico, finanziario e monetario, che domina il mondo). Ora le sue mura si stanno sgretolando e le polveri che si alzano dalle macerie rendono l’aria – già inquinata… – sempre più irrespirabile.

Doccia scozzese con momenti di euforia e di pessimismo

Abbiamo sopra detto di una certa euforia degli “osservatori” americani, riguardante i dati di qualche aumento della produzione (ma si tratta – come visto sopra – di scorte per i magazzini, mentre le “vendite” non sono affatto esaltanti…). Quanto all’occupazione, con l’annuncio di segnali di un aumento, ancora una volta si manipolano numeri dai quali sono esclusi dai disoccupati (per esempio) tutti i senza tetto (ma non solo, anche quelli che lavorano un paio di settimane all'anno a orari impossibili e a salari di fame). Il tasso dei “cittadini” attivi è comunque in discesa. E dietro i dati spacciati per “positivi”, ci sono quelli chiaramente “negativi”, come i 621 mld del deficit commerciale, con un passivo delle merci salito a 83,8 miliardi (+10,4% in un anno) e raggiungendo così gli 891 miliardi: gli Usa hanno oggi importazioni di auto e computer che sono oltre il doppio delle esportazioni. Lo stesso per le alte tecnologie, le biotecnologie e la optoelettronica; sembra andar meglio il surplus nei servizi (+15 miliardi, per un totale di 270 mld – ma qui, in gran parte, non si “crea” plusvalore!), e nel settore aerospaziale.

Rapporti commerciali e finanziari con la Cina

Il deficit commerciale americano con la Cina è ancora aumentato nel 2018 (+ 43,6 mld di dollari, arrivando a 419,2 mld). Sono aumentate le importazioni nonostante le barriere tariffarie imposte da Trump, a causa dello yuan che ha perso valore rispetto al dollaro. Anche il deficit commerciale con l’Unione europea è aumentato, + 17 mld di dollari, arrivando a 169,3 mld: l’export statunitense è aumentato di 35,4 mld di dollari, ma l’import è cresciuto di 53,3 mld.

Ecco quindi che gli aumenti del debito americano verso l’estero sono un incubo che non demorde: siamo ad un passivo di quasi 9.630 mld di dollari, rispetto ai 7.625 di un anno prima ed ai 1.279 miliardi del 2007. Un trend in discesa che dura dal 1989 e che vede i consumi e gli investimenti lontani dalle aspettative (vere e proprie “necessità”!) del capitale. Anche l’inflazione rimane troppo bassa per quelli che sarebbero i “sani equilibri” tanto desiderati; insistendo con gli aumenti della spesa pubblica (e con il debito pubblico quasi al 110%), accompagnandoli con tagli di imposte, la borghesia americana (ma non solo lei) comincia a sudare freddo. Infine, spostandoci a livello mondiale, la percentuale degli asset in dollari si è più che dimezzata, nonostante gran parte degli scambi delle materie prime sia ancora basato sulla valuta degli Usa.

Tutti col fiato corto

A cominciare, quindi, proprio dagli Usa che alzano le bandiere del protezionismo a fianco di una Federal Reserve che, in evidente affanno, passa da una politica monetaria all’altra senza risultati positivi. Anzi, il contrario. Sul palco del Governo Usa, Trump fa l’arrogante ma i suoi sonni e quelli della grande borghesia non sono più molto tranquilli… Se si guardano i listini borsistici americani, uno dei loro ultimi crolli contrasta (non si tratta solo di una quasi normale “volatilità° della Borsa!) con gli annunci recenti della Casa Bianca di un nuovo boom economico. (Fatte le debite misure, anche un Di Maio, in Italia, ci ha provato, pochi mesi fa, con annunci del genere!). E sempre a proposito del forte e progressivo aumento del debito pubblico americano, non gli sono certo di giovamento i massicci sgravi fiscali voluti da Trump per i suoi amici e sostenitori. Il debito gemello degli Usa, lo ripetiamo, è altamente pericoloso (alcune previsioni temono che possa raggiungere, dall’attuale 78%, il 152% entro i 2048.

Ultima notizia: ora ci si aggrapperebbe ad un piano di infrastrutture (strade, ponti, ferrovie – oltretutto in pessimo stato -, reti digitali) da 2000 mld di dollari; una “ricetta” di stampo keynesiano che non si sa bene come finanziare…

Riassumendo l’aria che tira negli Usa: il debito federale, il deficit di bilancio e il disavanzo commerciale sono ormai fuori controllo. In un anno, il rapporto debito/Pil è passato dal 106,1% al 107,8%; il deficit di bilancio dal 3,8 al 4,7% del Pil. Il saldo primario è salito dal 2,2 al 2,9% del Pil mentre il disavanzo commerciale da 552 a 621 miliardi di dollari. La posizione finanziaria netta con l’estero è passata da un passivo di 7.625 miliardi di dollari nel 2017 ai 9.627 miliardi nel 2018. Questo preoccupante rosso dei conti obbliga gli Usa a giocare il tutto per tutto pur di riequilibrare innanzitutto la loro bilancia commerciale e richiamare capitali dall’estero, diminuendo i prelievi fiscali e rialzando i tassi di interesse sul denaro. Misure che, nel medesimo tempo, altro non fanno che peggiorare i conti pubblici e la competitività delle merci…

Dai tempi di Reagan, e per contrastare la stagflazione che già li minacciava, gli Usa hanno alzato i tassi (fino al 20%) attirando capitali dall’estero. Ma con un dollaro forte, l’export ha sofferto e si sono avvantaggiate le importazioni, spingendo le imprese alla delocalizzazione, là dove materie prime e manodopera costano meno.

Si può ancora, come nel passato, imporre ai paesi “amici” particolari accordi a base di dazi, più o meno mascherati? E di seguito parziali svalutazioni del dollaro? I tempi sono in parte cambiati nell’ultimo decennio, anche a seguito delle inondazioni di liquidità provocate dalla stessa Fed con l’apertura (dopo il 2008) dei rubinetti del credito facile. Circolano nel bel mondo capitalistico americano debiti societari per 9,1 trilioni di dollari (dieci anni fa erano 4,9 trilioni): le famiglie hanno sulle loro spalle il peso di 13,5 trilioni di debiti. Abbiamo visto come quelli scolastici e per l’acquisto di automobili, e quelli legati alle carte di credito, sono in continuo aumento. La crescita del Pil realizzata nel corso degli ultimi anni dagli Usa è stata realizzata esclusivamente a debito! I T-Bond che hanno perso parte della loro remuneratività a seguito delle politiche intraprese dalla Fed, e per questo motivo ora si cerca di aumentare i tassi: di conseguenza attirando capitali più che altro dalla Borsa.

Sono per altro poche le richieste di titoli, provenienti dall’estero (vedi le nuove “politiche” della Cina). A Trump non rimane che far passare come colpa della Fed (con la sua “stretta monetaria assassina”!) la condizione critica in cui versano gli Usa.

Adesso è la volta dell’Arabia Saudita

Ecco, infine, un altro intralcio ai piani strategici del capitale americano: si tratta delle minacce che l’Arabia Saudita lancia a Washington e che riguardano il patto del 1945 per la vendita del greggio solo in dollari, in cambio di “protezione” diplomatica e militare.

Con montagne di dollari accumulate nelle Banche di Wall Street (il “riciclaggio di petrodollari”), ora i sauditi provocano gli americani parlando di un disinvestimento di 750 mld di dollari, depositati in America, se non vengono sospese le indagini per l’attentato delll’11 settembre e se gli Usa non abbandonano il progetto di imporre sanzioni contro l’Opec per le sue politiche dei prezzi. Ma gli Usa hanno l’urgenza di difendere gli interessi riposti negli idrocarburi e nelle estrazioni dello shale sul loro territorio e guardano preoccupati agli accordi fra Riad e la Cina per vendite di petrolio in yuan… L’abbandono del dollaro da parte dei petrolieri sauditi è (sarebbe) una grave minaccia per gli Usa.

Pur continuando ad esercitare una loro ancora “formidabile” pressione, militare soprattutto, sono aumentati – lo abbiamo visto – le problematiche economico-finanziarie. Tanto da far loro giocare preferibilmente la carta di un “disordine” internazionale orchestrato ad arte (già precedentemente usata…) e che potrebbe – ma non è detto – portare ad una rivalutazione del dollaro sui mercati internazionali. Persino una pioggia di missili lanciata dagli Usa potrebbe – come già accaduto nel passato (Iraq e Afghanistan) – far salire gli indici della Borsa americana. Fondamentale – va sempre ripetuto – è il controllo delle risorse energetiche mediorientali e del relativo prezzo del barile, a questo punto non per i “bisogni” dell’industria americana ma per mettere in difficoltà i paesi che senza petrolio sarebbero con… l’acqua alla gola!

Ultima nota: si tratta delle pressioni, fatte dagli Usa, affinché il Fmi negasse un prestito da 20 mld di dollari al Pakistan perché starebbe “flirtando” con Pechino…

La Russia fa i conti del suo “bottino” nazionale

Puntando la nostra attenzione su un altro centro imperialistico, la Russia, notiamo come l’interesse di Mosca si sia da tempo spostato su yuan, euro e oro. Ne ha fatto le spese il dollaro, che ha visto i suoi attivi addirittura dimezzati, mentre le altre valute sono tutte in aumento. Come le riserve auree, dal 17,2 al 18,1% del totale, e attualmente pari a 90 mld di dollari.

La Russia si è trovata sotto attacco da parte del dollaro e, per limitare la esposizione delle sue Banche e imprese, sta cercando di diversificare il suo portafoglio riguardante gli investimenti stranieri. Di fronte a rischi finanziari incombenti, e con gli equilibri valutari traballanti, Mosca ha cominciato a studiare e praticare una diversificazione delle sue operazioni sia commerciali che finanziarie: prima si sono alzati i tassi di interesse (per la prima volta dal 2014), poi sono diminuiti gli acquisti di bond americani, mentre sono aumentati gli acquisti di quelli cinesi

Sarebbe già notevole la riduzione dei Bond Usa in possesso di Mosca, quale primo esito delle manovre che la Banca di Russia sta portando avanti. Avrebbe, negli ultimi tempi, contribuito ad allestire scenari dagli sfondi tempestosi per il dollaro. Ecco, per esempio – come emerge da dati pubblicati dalla Banca stessa – il trasferimento dalle riserve russe (oltre 466 mld di dollari) di un quantitativo di dollari pari a 101 mld a un altro di 147 mld di euro, 67 mld di yuan e 21 mld di yen. Sarebbero stati inoltre acquistate notevoli quantità di bond cinesi; Mosca acquista anche Titoli di Stato francesi e tedeschi, ma considera “poco affidabili” quelli italiani a causa del nostro forte deficit di bilancio. Da tempo si parla di 90 mld di dollari (in bond Usa) che la Banca Centrale russa ha venduto in cambio di Yuan, una moneta che attira sempre più interessati.

L’oro, “bene rifugio” sul quale speculare

Quando le crisi (economico-finanziarie) del capitale irrompono sullo scenario mondiale, l’oro ritorna a brillare. Ed ecco la Cina che ha acquistato ultimamente 14,9 tonnellate d’oro, portando a circa 60 tonnellate di lingotti gli acquisti fatti dall’inizio dell’anno. Tuttavia non ha ancora grandi riserve, molto meno del 3% del totale mondiale, superata da Usa (8.407 tonnellate), Germania (3.483), Russia (2.149 tonn.) e Francia (2.518 tonn.). L’Italia vanta lingotti d’oro in deposito a Bankitalia pari a 2.534 tonn.! Da notare che le quotazioni dell’oro stanno andando oltre 1.280 dollari l’oncia, e in periodi di turbolenza economica questo viene considerato come l’investimento più sicuro e per di più –in questo periodo – una salvaguardia contro la volatilità del dollaro statunitense.

Va detto, per completare questi appunti, che la Germania ha cercato di rimpatriare oltre 600 tonnellate di oro conservate dalla Banca di Francia e dalla Federal Reserve Bank degli Stati Uniti. Un processo complesso, che dovrebbe concludersi nel 2020

Infine, anche se è vero che ne*lle riserve valutarie mondiali* il dollaro soprattutto è ancora dominante (si parla di oltre 6.600 mld), tuttavia messi assieme (l’euro con più di 2mila mld, lo yen e la sterlina) lo superano. Va però aggiunto che gli aumenti di moneta cinese sono avvenuti nell’ultimo anno, approfittando di un notevole calo del dollaro, che indubbiamente dagli inizi del 2000 ha cominciato a perdere più di qualche colpo. Persino i Brics hanno in parte lasciato i dollari per la valuta cinese che il governo di Pechino cerca di internazionalizzare a scapito del dollaro. Le stime di stampo “nazional-socialista” puntano infatti – entro il 2025 – ad un Pil che si collocherebbe al primo posto nel mondo capitalistico, raggiungendo la parità col dollaro dopo il 2030. In questa costruzione di “socialismo giallo”, le azioni del mercato azionario pechinese sono entrate nell’indice dei mercati emergenti, e lo yuan-renminbi nel sistema dei Diritti Speciali di Prelievo (Dsp), l’unità di conto del Fmi nel sistema monetario internazionale. Qui si possono utilizzare le proprie valute per ottenere liquidità. Pagando un interesse, sì, ma così ottenendo un’ampia convertibilità-integrazione-circolazione per lo Yuan stesso. Una spinta al commercio “socialista” e al pagamento in yuan del petrolio fornito dalla russa Gazprom. Quindi slancio anche ai future in yuan sul petrolio, a svantaggio del Brent e del West Texas Intermediate… e delle sanzioni Usa a Russia, Iran e Venezuela. Con una preoccupante (per il capitalismo) concorrenza sui prezzi e, sullo sfondo, anche per certi rapporti di alleanza fra la Banca russa e la People’s Bank of China…: il tutto mette in apprensione sia Usa (per le continue minacce all’egemonia del dollaro come moneta di riserva) sia Gran Bretagna, soprattutto oggi che il commercio internazionale batte la fiacca.

Gli equilibri cinesi

Eccoci in casa cinese, dove la crescita economica sarebbe stata nel 2018 del 6,6%, con un avanzo sull’estero pari appena allo 0,7%: pur perdendo qualche colpo,è stato ancora il Paese con la crescita più equilibrata sull’estero. Un’ombra cinese che continua ad allungarsi sul dollaro, aumentando il fruscio dello yuan…

Un altro fatto preoccupante (per il capitale americano) è quello di una Cina la quale ha smesso di reinvestire in Bond americani il suo surplus commerciale: oggi non è più in possesso degli oltre 1.185 mld di dollari come alla fine del 2017, bensì di 1.123 (al dicembre 2.018).

E di fronte agli attacchi dell’amministrazione Trump, al momento Pechino sembra aver contenuto i “danni”. I cinesi avrebbero ancora un piccolo attivo, a meno di altri dazi imposti da Trump e ai quali Pechino potrebbe rispondere con interventi al ribasso sul cambio dollaro/yuan. Ed ecco che ultimamente una svalutazione (in atto) dello yuan in confronto del dollaro non fa che favorire le esportazioni cinesi (pari a 539 mld di dollari) negli Usa: queste svalutazioni recuperano per Pechino spazi di competitività, consentendo un minor costo per i “consumatori” americani di almeno 51 mld. Ne risulta che la Cina avrebbe danni pari a 63 mld di dollari) mentre quelli subiti da Washington ammonterebbero a 75 mld di dollari.

Attenzione, però, agli indebitamenti in dollari di alcune aziende cinesi (“socialiste” ma affamate di capitale!) che da un deprezzamento ulteriore dello yuan non farebbero certamente festa, anche se potrebbero giocare un altro asso nella manica: si tratterebbe sempre dei Bond americani che tutto sommato la Cina detiene in buona quantità (circa 1,12 trilioni di dollari) e seconda solo alla stessa Fed.

A Shanghai sono intanto arrivati i primi pacchi di petro-yuan, mentre Gran Bretagna,

Francia e Germania hanno creato il cosiddetto Instex (canale commerciale per consentire i pagamenti all'Iran). Inoltre la Russia, l'anno scorso ha convertito 100 miliardi di dollari di riserve in renminbi, euro e yen.

Crisi globale

Al termine di questa panoramica, e ritornando su quanto detto all’inizio, il dollaro – supportato dalla enorme forza militare degli Usa e nonostante le difficoltà sopravvenute – si mantiene ncora in buona parte “egemone” come bene rifugio e anche se con qualche tremolio (ma sempre ben sorretto dai missili americani) si trova ad una quota di tutto rispetto nel paniere delle valute più stimate.

Quanto alla crisi in atto, che si tratti soltanto di una questione di tempo perché essa arrivi a punti di esplosione e possa travolgere tutto e tutti, non siamo solo noi a dirlo. Ciononostante, il mondo capitalistico, pur temendo una sua esplosione, è del tutto impreparato ad affrontarla. Sia che essa si dispieghi dai mercati emergenti (sui quali il capitale cerca di sfogare i suoi malanni) alle potenze maggiori che, dopo aver pompato enormi quantità di denaro, ora si precipitano a chiudere i rubinetti quando la massa di liquidità in circolazione anziché sfociare in nuovi investimenti, sta illuminando un catastrofico quadro di fallimenti. Inoltre, tutti – Cina compresa – hanno fin qui funzionato come ingranaggi complementari del sistema generale, e se il sistema continua a rallentare, come sta accadendo, tutti ne sarebbero travolti. Le spese in deficit dei governi non possono durare a lungo, e tutte le manovre messe in campo si sono già spuntate: i tassi sul denaro, per esempio, sono andati al minimo e non hanno risolto nulla, tant’è che ora tentano un piccolo rialzo.

Usa e Cina, i due maggiori centri imperialistici, si guardano in cagnesco e hanno cominciato a ringhiare: apparentemente inferocito si agita Trump con le barriere doganali, mentre Pechino sembra pronta ad usare aggressivamente la svalutazione della propria moneta per non diminuire le proprie esportazioni di merci. In ogni caso, è chiaro che mai come oggi il capitalismo globale (che pochi decenni fa celebrava il suo trionfo da “fine della storia”) sopravvive – purtroppo ancora – con un filo di respiro. E qualche rantolo…

Venerdì, June 7, 2019