I buoni propositi dei radical-riformisti in “berretta rossa”

Mimmo Porcaro (Rifondazione comunista) nel suo Diario di un impaziente - Note sparse su sinistra, Europa, sovranità, si definisce un «convinto marxista» e ci informa che occorre, come «Marx dixit, l’intervento disciplinante dello Stato». Testuale. Non potevamo, dopo questa estemporanea battuta, abbandonare la lettura dell’articolo, tanto più che il Porcaro passa subito a… pragmatiche indicazioni. Innanzitutto l’impegno ad affiancare allo Stato (borghese) «agili ed efficaci associazioni autonome di cittadini e lavoratori» allo scopo non di sostituirsi allo Stato (questo giammai, poiché il solo pensiero sarebbe… criminoso!), bensì per effettuare un controllo, fare proposte e «preparare gruppi dirigenti di ricambio», come si fa con le gomme forate di un’auto. Insomma, ci si deve incamminare sulla strada di una «dialettica permanente» fra lo Stato e i suddetti organismi, quelli della «cittadinanza». E’ così che si attuerebbe formalmente la «democrazia di base».

Coraggiosamente, e senza esitazione alcuna, il nostro paladino della «libertà e democrazia» affronta addirittura la «questione del lavoro». La sua domanda è: c’è forse qualcuno che vorrebbe superare la «forma salario»? La risposta di Porcaro è “no”: va solo “garantita la piena occupazione» con l’intervento pubblico, dopo di che riducendo l’esercito di riserva (i disoccupati) non vi sarebbe più il ricatto del licenziamento… Con la piena occupazione (e il plusvalore che dalla forza-lavoro si potrà rastrellare) si avranno prestazioni «decenti» del Welfare e – suonino le trombe! – avremo la riduzione dell’orario di lavoro. E aggiunge: «a parità di reddito, sì, ma in forme “integrative”»...Ecco applicato il “diritto al lavoro”, sia pure “salariato” cioè a condizione che si accompagni ad un “giusto” profitto per il capitale, e qui – scusate – casca l’asino, già abbondantemente bastonato!

Nel caso il lettore se la senta di affrontare altre bazzecole ideologiche di questa sinistra borghese, ci segua: pur soffrendo (di stomaco) nel farlo, stiamo dando uno sguardo ai cumuli di vere e proprie idiozie di stampo politico ed economico, circolanti tra i divulgatori di una congegnata pubblica opinione. A cominciare – come in questo caso - da una levata di cappello a quella che fu l’Urss e i suoi «rapporti di produzione» i quali nonostante un «livello immaturo», sarebbero stati di «tipo socialista». Peccato che non abbiano potuto «svilupparsi» a causa di «fattori più immediati e soggettivi»…

Ma torniamo al presente, dove troppe sarebbero le forze produttive distrutte da un “capitalismo avanzato”, come in Italia dove la borghesia piange la perdita nell’ultimo decennio di quasi un 25% della capacità produttiva manifatturiera. E’ sottinteso – per questi mascherati apologeti del capitale – che con una tale tendenza alla “deindustrializzazione” non si fa di certo crescere il famoso Pil (crollato anch’esso ai livelli di una decina di anni fa) e si impedisce la “produzione” di quel plusvalore (profitti e rendite) senza il quale il capitale agonizza. Allarme rosso: la base imponibile si riduce, il debito pubblico aumenta, la disoccupazione dilaga. Se non si «producono» (?) posti di lavoro (salariato), quindi “creatori” di plusvalore, si rischia il collasso: può un “nazional-comunista” restare indifferente a un simile pericolo? Certamente no.

Sotto, allora, a «costruire nuovi buoni posti di lavoro, soprattutto (attenzione: la lingua batte dove il dente duole! - ndr) in settori non “poveri” sul piano del valore aggiunto prodotto e del contenuto tecnologico, cioè industria e terziario avanzato», cioè proprio là dove l’impiego di forza-lavoro, sfruttato al massimo, si riduce ai minimi con l’avanzare della tecnologia e della scienza! Occorre quindi una «ripresa degli investimenti fissi» per avere – così si spera – una crescita nella produzione di merci e una “sana” accumulazione di capitale. Solo allora questa crescita, ben «discriminata», potrà essere infiocchettata come «utilità sociale» e soprattutto garantire, se non immediatamente almeno in prospettiva, gli adeguati margini di profitto. Sempre ammessa la vendita de merci prodotte. Altrimenti si rischia la “pace sociale” e i soggetti alla Porcaro saltano sulle loro poltroncine al solo pensarci!

Ma per “crescere” bisogna sviluppare la manifattura – ci spiegano – ovvero sfornare merci da vendere: questa sarebbe la «spina dorsale di QUALSIASI economia» (maiuscole nostre: il che significa anche per la “costruzione” del socialismo!) ed è «fondamentale per la bilancia dei pagamenti». Rimane sempre il fatto che in quella produzione l’intervento della forza-lavoro degli uomini (proletari) si riduce di anno in anno…

Già in attività da tempo, sempre pronti a qualificarsi come i migliori gestori del modo di produzione capitalistico e relativi rapporti sociali, tutti si presentano con obiettivi inequivocabili per i bisogni del capitale. Per il resto il buio è profondo! Ed è proprio per questi “bisogni” (concorrenziali) e non per altro, che si batte e ribatte il chiodo dell’ammodernamento tecnologico e dello sviluppo dei «settori maturi (siderurgia, mezzi di trasporto, biotecnologie e farmaceutica, nuovi materiali, aeronautica e droni civili, energie alternative, ecc.)». Non solo per la «importanza strategica» (siamo o non siamo in fase di capitalismo globale dove la presenza del nostrano capitale va rafforzata?), ma anche – di nuovo - per la loro «alta tecnologia e alto valore aggiunto». In questa affermazione, la contraddizione è più che evidente; certamente non per chi sogna una sempre più alta produttività di valori di scambio da parte di aggiornati macchinari, per la conquista di spazi sui mercati.

C’è un problema: si tratterebbe in prevalenza di settori dove i grandi investimenti (necessari) di capitale costante non allettano il “privato” (che vede i saggi medi di profitto in calo a seguito delle modifiche della composizione organica del capitale). Ci sarebbe la soluzione: intervenga lo Stato in divisa di «regolatore, controllore e prestatore di ultima istanza, ma soprattutto come soggetto attivo, cioè nella veste di Stato imprenditore». Pronta dunque la ricetta risanatrice: «ripubblicizzazioni di imprese e banche»! Rilancio di politiche massicce di investimenti statali e allargamento del perimetro dell’attività produttiva allo scopo di creare posti di lavoro introducendo elementi di programmazione economica! Se queste non sono stampelle per il capitale…

La internazionalizzazione del capitale

La internalizzazione del capitale è un dato di fatto condizionante in assoluto quella politica economico-industriale, e sempre più finanziaria, la quale – stando ai pii desideri dei radical-riformatori del capitalismo in veste nazionale – dovrebbe superare condizionamenti e vincoli imposti nel medesime tempo dal capitalismo globalizzato. Tutti condizionati dalla necessità di una intensificazione dei processi volti ad un recupero della accumulazione in piena crisi. Gettando fumo negli occhi, si presentano le manovre in corso come «idea di cambiamento complessivo dell’ordine economico, sociale e politico», con «ipotesi organicamente e chiaramente alternative». Farebbero parte di una piattaforma politica «in elaborazione» -- sussurrano – e talmente «chiara ed aperta» nel suo obiettivo di una «pianificazione della produzione e di controllo sui capitali», da «riprendere» a piene mani – udite! udite! – niente di meno che «l’esperienza di intervento statale post-bellico, anni ’60 e ’70: programmazione economica e partecipazioni statali, in cui _gli investimenti pubblici non erano subordinati alla sola efficienza economica ma erano diretti a scopi di sviluppo generale del Paese e di convergenza tra il Mezzogiorno e il resto del Paese_». Eccola la soluzione spacciata da un Porcaro per un avvio del socialismo: lo Stato proprietario delle imprese e azionista delle Banche, con il Parlamento (lunga vita ai partiti della istituzionale democrazia borghese!) supervisore delle «attività economiche pubbliche all’interno delle Partecipazioni statali». E questo indirizzo, si piagnucola, è purtroppo osteggiato da altri, «malgrado i successi economici di molte imprese statali»…

Certo, per un simile… progetto, ci vuole uno Stato non “neutrale” (ma quando mai?) col quale avere “rapporti”… amichevoli e dal quale – pur essendo, bisogna ammetterlo, «una macchina burocratica organizzata per la difesa dei rapporti di produzione capitalistici» – ottenere (almeno con pari opportunità…) qualche “favore” anche per le forze che dovrebbero essere… “antagoniste al capitale”! La prospettiva rimane però quella di “tempi lunghi” per una mitica trasformazione democratica dello Stato, la quale primeggia nel menù politico di questi servitori della Patria. Tutti infatti aspirano a riforme parziali, graduali, in campo nazionale, cavalcando – a parole – un ventaglio di “lotte” altrettanto “parziali” i cui esiti potrebbero (le vie del Signore sono infinite!) favorire la costruzione di «rapporti di forza migliori tra capitale, da una parte, e lavoro salariato e classi subalterne, dall’altra». Ne deriverebbe la possibilità – qui siamo veramente al culmine del più grosso imbroglio politico – di una «trasformazione generale dei rapporti di produzione e sociali in senso socialista». Una vera e propria bestemmia sia teorica sia pratica, la quale mirerebbe ad occultare i tentativi – da affidarsi allo Stato, super partes! – rivolti a ristabilire saggi di profitto adeguati agli investimenti di capitale, e alla socializzazione delle perdite nell’attesa di vedere, a colpi di bacchetta magica, la «prefigurazione della trasformazione dei rapporti di produzione in senso socialista»… E con la «sovranità nazionale» Porcaro sogna la creazione di «nuove relazioni internazionali» le quali – altro miracolo! -- apriranno le porte a «esperienze socialiste»…

Mentre ci aspettiamo un colpo di approvazione battuto dallo Spirito di Baffone, ci rendiamo conto della difficoltà da superare per chi non possiede un forte apparato digerente. D’altra parte, è politicamente utile aver sempre presenti i contenuti tattico-strategici (?) di quelli che sarebbero i tracciati sui quali si agita (nella vana ricerca di una via d’uscita) quel che resta del pensiero borghese attorno ai tentativi di un accomodamento del presente stato di cose.

Ricordiamoci del clamoroso bla-bla-bla attorno alla vittoria dei No all’ultimo referendum: avrebbe – si disse – trasformato la palude della politica italiana in un giardino fiorito con al suo centro «un rapido fiume che corre veloce verso una cascata: le prossime, inevitabili elezioni». Questo abbiamo letto. Ed ecco all’orizzonte dei traballanti equilibri del potere borghese, qualche estemporaneo suggerimento alternativo del tipo: a)un mutamento di ruolo della Banca centrale con una ripresa della monetizzazione del debito pubblico; b) parziale nazionalizzazione del settore del credito; c) una forte impresa pubblica capace di rilanciare investimenti e innovazione per lo “sviluppo” del patrio capitalismo; d) un piano industriale che affronti i problemi idrogeologici ed energetici del paese e riduca la nostra dipendenza dalle importazioni (gli altri Stati sul piede di guerra!); e) politiche di piena occupazione attuate anche attraverso il rilancio del settore pubblico; f) una riforma del mercato del lavoro che elimini la precarietà, offra sbocchi alle «eccellenti risorse intellettuali prodotte dal sistema scolastico italiano» e faccia dell’immigrazione una risorsa per il capitale italiano. Infine, più stretti rapporti coi Brics (in aperta crisi pure loro!); una cooperazione mediterranea e una politica tesa a creare aree internazionali di controllo sul movimento dei capitali.

Se il lettore è riuscito a seguire questo macroscopico progetto da immaginario futuristico paese di Bengodi (quello dove secondo Boccaccio si “legano le vigne con le salsicce” e si mangia e beve a volontà…) sarà di certo esterrefatto dinanzi a simile meraviglia. E’ presentata (il Porcaro-pensiero non ha limiti) come il frutto di una serie di «riflessioni convergenti» provenienti da quella che sarebbe ormai una «vera e propria scuola di pensiero». Scuola frequentata da plotoni di “rifondatori” del comunismo, stretti attorno alla Costituzione del 1948 (che avrebbe un «impianto lavorista»…) con l’aspirazione ad un «soggetto politico che si appelli alla cittadinanza democratica _e sia apertamente nazionale_»…Col distintivo di… nazional-comunista all’occhiello, si salta sul carrozzone di una «alleanza di ceti popolari (destra o sinistra per me pari sono! - ndr), piccole imprese (che oggi sono vessate non solo dallo Stato, ma dalle grandi imprese private e dalle banche, e che in uno Stato rinnovato potrebbero trovare un alleato) e medie imprese alle quali consentire un maggior sviluppo»… Risuscita il “blocco storico” gramsciano, dove nel popolo – i “cittadini” - si dissolvono le classi (sfruttati e sfruttatori). Ecco il fondamento, per l’appunto interclassista, della nazione. E questo dopo che – fin dai tempi della Comune parigina – Marx scriveva che

il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti. (…) I governi europei attestano così, davanti a Parigi, il carattere internazionale del dominio di classe.

K. Marx, La guerra civile in Francia, pp. 140-141, Newton, 1973

Dopo di che, diventa inevitabile – per questi pseudo “comunisti” – la rivendicazione della «sovranità politica e monetaria»: la si spaccia come «favorevole ai lavoratori» oltre che alle «paritarie relazioni tra nazioni». Non solo: qui c’è in gioco «l’orgogliosa difesa di una civiltà politica _coniugatrice di_ libertà ed eguaglianza»… A questo punto, da più parti si sono alzati suoni di tromba per un risveglio dello «spirito nazionale» al di sopra dei poco edificanti risultati della globalizzazione. Si chiede alla politica, nel contesto “democratico” di ciascun Stato – questo sia chiaro! – di ritornare a far politica, sì, ma entro i confini (più o meno sacri) del proprio paese. Questo – si dice – è il vero campo di battaglia sul quale gli stessi lavoratori si dovrebbero impegnare (se necessario fino al… supremo sacrificio).

Insomma: soprattutto in Italia ci sarebbe una Costituzione che presuppone – per la sua stessa “efficacia” – la “sovranità nazionale”, la inalienabile condizione della democrazia, quella definita “popolare”, la quale sarebbe così libera nelle sue decisioni «senza dover preventivamente sottostare al placet delle potenze esterne o interne al paese». Chi scrive queste cretinerie (sempre il Porcaro nei panni di sostenitore di Rifondazione comunista) respinge indignato ogni possibile accusa di interclassismo, ritenendolo un «discorso dell’imperialismo nazionalistico del passato». L’imperialismo odierno distruggerebbe invece le nazioni, e questo – per Porcaro e C. – equivarrebbe aIl’annullare ogni «diritto civile e sociale»… Ci sarebbe in gioco addirittura «l’indipendenza di classe dei lavoratori» e della loro «politica autonoma», sì, ma rigorosamente «nazionale». Cosa significa allora per simili soggetti essere “comunisti”? Ce lo spiega ancora il Porcaro: poter scegliere liberamente (?) i «vincoli ai quali assoggettarsi, con una politica (se vuole somigliare al socialismo) la quale non contrasti la libera circolazione dei capitali». Ecco i veri “nazional-internazionalisti” del capitale! Evviva quindi le «relazioni tra nazioni sovrane»!

Decisioni supreme

Gli idealistici pensieri di questi aspiranti al ruolo di intellettuali organici di gramsciana memoria (qualche nome, fra i distributori delle dosi di oppiacee ideologie qui citate: F. Nobile, D. Moro, M. Porcaro…) si reggono esclusivamente su costruzioni di “progetti” del genere sopra esposto. Sii riparte dal mito della piena occupazione con una politica inflattiva la quale sarebbe in grado di riequilibrare le «relazioni di potere e di reddito tra i cittadini», nonché la «interazione tra economia, società e ambiente». Ed in serbo c’è dell’altro: lo Stato nazionale ha da essere «autonomo» e quindi fare «barriera alla mobilità sregolata del capitale», creando spazio per una nuova politica di redistribuzione. Questi signori hanno sempre sostenuto che Marx non ci ha lasciato una “teoria dello Stato”, ed ora –nella prospettiva di un “socialismo pluralista” al servizio del popolo e della nazione, parlano di «combinare e regolare» i diversi tipi di proprietà giuridica del capitale stesso. A suon di schede cartacee e di pratiche di “democrazia popolare” si dovrebbe far prevalere la proprietà statale dei più importanti gruppi industriali e finanziari, dopo di che si passerebbe allo sviluppo di un’economia pianificata ma aperta al mercato («civicamente controllato»). E qui arriva la ciliegina: il lavoro salariato potrà essere “superato” nella sua forma diretta, in parte sostituito da forme indirette (pubbliche, cooperative, comunitarie…) e con prestazioni “gratuite” di welfare. A condizione che i conti, sia delle aziende che del pubblico bilancio, non vadano in rosso...)

Ecco risolta quella «scarsità di capitale in possesso del pubblico», la quale (considerando questo “possesso” un importante «bene comune in proprietà dello Stato» (testuale!) – diventerebbe «fondamentale per decidere democraticamente sulla regolazione economico sociale». Insomma, Marx ai suoi “ottocenteschi tempi” non avrebbe capito che la vera soluzione a portata di mano consisteva nell’agitare il cocktail derivante dall’insieme operante di gruppi di imprese private e pubbliche, in grado di rivalutare (stiamo pendendo dalle labbra dell’eminente Porcaro) una giusta «concorrenza capitalista», una sana competizione non più solo oligopolistica. Qui l’ipocrita discorso supera ogni limite, ammettendo che se non si potrà raggiungere una «impossibile armonia» (chi più… marxista di Porcaro!), tuttavia si avrà un «palese e trasparente conflitto pluralistico» con la mediazione dello Stato…

Ecco l’uovo di Colombo: il “conflitto pluralistico” sostituisce la competizione capitalistica e permette “autonome” (?) risorse organizzative da offrire ai cittadini, oltre al “controllo reciproco” delle istituzioni…. Finalmente lo Stato di diritto si concretizza e così si risolverà la «sotto-capitalizzazione dei grandi gruppi industriali e finanziari». Se centralizzazione del capitale ha da essere, sia italiana!

Siamo giunti alla fine dello strabiliante “programma”, dopo aver «innovato l’apparato produttivo e quello di Stato, contrastando le deficienze del nostro capitalismo», pronti a scendere nello spazio euro-mediterraneo. Siamo in una vera e propria girandola di “pubblicizzazione” del sistema bancario e industriale, con rilanci di investimenti pubblici, piena occupazione, eccetera. Dopo di che, in questo nuovo idilliaco quadro, avremo – lo dice Porcaro – «la base materiale per il rilancio della lotta di classe»…. Saremmo finalmente «passati dal capitalismo privatistico ad un capitalismo di stato democratico e da questo ad un sistema tendenzialmente socialista». Che poi – è sempre il Porcaro che scrive – sarebbe in fondo «qualcosa di simile al primo periodo dell’Iri». Per i più giovani, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale fu istituito nel 1933 da Mussolini per “ossigenare” il capitalismo italiano provato dalla crisi economica mondiale del 1929…

Conclusione

Nella stessa sinistra borghese si alza la bandiera del “nazionalismo democratico”, il primo passo per avviare un processo di… emancipazione! Insomma, prima di tutto gli “interessi nazionali”, poiché la “sovranità democratico-popolare” ha bisogno – per esprimersi nello stretto spazio della cabina elettorale – di una definita sede di gestione capitalistica, ossia lo Stato nazionale. Nel mezzo c’è la «dignità di un popolo», naturalmente “sovrano”…

Domenica, August 4, 2019