“Dotte considerazioni” sul futuro del capitalismo “dopo” la fine dell'attuale crisi

Sulla crisi del 2008 si sta ancora discutendo nel sempre più fragile mondo borghese. Quando la crisi scoppiò nell'agosto del 2007 la risposta fu “chi poteva aspettarselo?”. Oggi, a oltre dieci anni da quel fatidico inizio, le risposte sono molteplici, contraddittorie e molto spesso false. Gli analisti borghesi viaggiano in ordine sparso annaspando sulle cause e sui tempi della crisi, compilando statistiche false, quando va bene parziali e fuorvianti. Cianciano sulla fine della crisi stessa, voltando lo sguardo dalla parte opposta allo sfacelo che ancora incombe sull'economia mondiale.

Mezza Europa, Italia compresa, è in recessione tecnica. Inghilterra e Germania non stanno molto meglio, la prima è alle prese con una via di fuga dalla crisi, uscendo dall'Europa, che finirà per costarle più di quanto prevedesse. La seconda, la locomotiva d'Europa, è ferma nel suo apparato industriale (-5,2% rispetto all'anno scorso), le esportazioni e gli investimenti sono in calo e la superiorità finanziaria dei suoi Bond è in netta discesa. Secondo l'analisi della Bundesbank c'è stato un decremento del PIL nel secondo trimestre di quest'anno dello 0,1% e se le cose dovessero andare in questo modo anche nel terzo trimestre ci sarebbe il rischio di una recessione tecnica. A tal riguardo Bloomberg, citando l'autorevole fonte del ministro delle Finanze Olaf Scholz, ha riportato l'ipotesi di un auspicabile piano finanziario di 55 miliardi di euro per rilanciare l'economia tedesca. Sul piano finanziario si registra la preoccupante situazione che la Bundesbank è costretta a vendere i suoi Bund a interessi negativi. Nell'intero comparto dell'area Euro l'incremento medio della produzione oscilla tra l'1,0 % e l'1,2%, una miseria.

Gli Usa, nonostante un falso e politicamente scorretto uso delle statistiche che enfatizzano una ripresa che non c'è, o se c'è è nettamente inferiore alle peggiori aspettative, vive sotto una montagna di debiti e di deficit, che solo il piratesco ruolo del dollaro e l'arroganza della USA ARMY consentono all'imperialismo più potente di sopravvivere alle sue enormi contraddizioni. Gli analisti americani paventano una recessione a 12 mesi, intanto la Banca centrale, sulla scia di quella tedesca, si predispone a vendere i tresaury bond a 10 anni a tassi quasi dimezzati rispetto all'anno scorso e, come sostiene il vecchio Greenspan, nulla vieta che si arrivi a tassi negativi... Infatti i tassi sono passati da un 2,8% all'attuale 1,56%.

La Cina arranca un po' meglio, ma a velocità ridotte. I tempi di un Pil in crescita del 18-20 % sono passati da anni e mai più ritorneranno; l'anno scorso le stime davano una crescita annua del 6,2%, oggi del 4,8%, la più bassa degli ultimi vent'anni, e per il più falso dei comunismi che mai si sia arrogato il diritto di usufruire questa definizione, è oro che cola.

Ciò senza parlare dell'America latina, dell'Argentina, il cui “status” economico è stato giudicato dalle Agenzie di rating al pari dei paesi africani più poveri. Del Brasile, del Venezuela, dell'aumento della povertà nel mondo, del divario sempre più largo tra ricchi e poveri, non soltanto nei paesi periferici, ma anche in quelli che vengono considerati come i modelli del capitalismo moderno. In una ricerca di E. Maito (che si trova nel libro di Michael Roberts “The long depression”), i saggi del profitto dei 14 maggiori paesi produttori al mondo, sono andati dal 31-33 % negli anni della ricostruzione economica post bellica, ai 17/18% del 2010, ovvero una diminuzione di quasi il 50%, che è stata alla base della crisi dei sub prime, e tutto fa pensare che non ci sia all'orizzonte uno stop significativo alla caduta medesima.

L'economia ufficiale contemporanea non ha mai preso in considerazione la legge della caduta del saggio medio del profitto, anche se ne subisce le conseguenze e ne combatte, a suo modo, gli effetti. Tanto meno lo fa Stiglitz. Ma la legge esiste, è connaturata allo sviluppo delle forze produttive capitalistiche, a tal punto che Marx l'ha considerata la più devastante delle leggi economiche del capitale sino a dedicargli molti capitoli del Terzo libro del Capitale. E' quantomeno dagli inizi degli anni '70 che le crisi da caduta del saggio del profitto fanno sentire pesantemente i loro effetti, sotto forma di progressive e sempre più profonde depressioni, di esplosioni di bolle finanziarie, di interventi bellici nelle zone strategiche del globo e per finire in “bellezza”, sulle condizioni di vita del proletariato internazionale.

A questo proposito, ma al di fuori dell'analisi marxista delle crisi, nel mondo borghese si è aperta una riflessione sui modelli di politica economica, sui meccanismi economici e finanziari dei mercati, sul ruolo dello Stato e di quale sia la migliore ricetta perché si possa uscire definitivamente dalla crisi per dare vita a una società capitalistica che non crei più i disastri passati, che non riproponga il divario attuale tra ricchezza e povertà, che sia sì una società capitalistica ma da volto umano. Portabandiera di questa riflessione, che noi prendiamo in considerazione sia per l'attualità degli argomenti, sia per l'autorevolezza del personaggio, è il vecchio premio Nobel per l'economia (2001) Joseph Stiglitz, a cui abbiamo accennato poco fa. La nostra scelta sul “vecchio guru” dell'economia internazionale è dovuta al fatto che le sue posizioni, pesantemente critiche nei confronti di certi aspetti dell'economia capitalistica, ci danno il pretesto per allargare il discorso collocandolo su di un terreno materialista e rivoluzionario, lasciando al “vecchio guru” l'idealistica prospettiva di riformare il capitalismo cattivo, conferendogli tutte quelle potenzialità positive che, in realtà, sono impossibili da attuare all'interno del quadro capitalistico nel quale si muove. Questi concetti sembrano nuovi perché nuova è l'autorevole fonte che li elabora, in realtà sono vecchi come il capitalismo stesso e, puntualmente, assurgono alle cronache economiche di mezzo mondo solo quando siamo in presenza di un disastro economico, come quello prodotto dall'ultima crisi.

Stiglitz parte dalla constatazione che quarant'anni di neoliberismo sono stati un fallimento che ha portato alla crisi del 2008, con tutti i nefasti corollari del caso.

In un suo recente editoriale apparso sul New York Times e sul Guardian (maggio 2019), se la prende in modo feroce con la Scuola di Chicago del suo collega Milton Friedman, nata negli anni settanta ma che ha prodotto i suoi disastrosi effetti negli anni ottanta con i governi di Reagan negli Usa e della Thatcher in Inghilterra, per poi proseguire sotto mentite spoglie, dovute ad “accurate modificazioni”, nei decenni successivi sino alle soglie della più grande depressione mai avvenuta dalla fine della seconda guerra mondiale. Secondo la sua analisi, in questo caso giusta, lasciare al mercato il compito di mettere in equilibrio tutte le componenti economiche del capitalismo, è stato un errore gravissimo. Non solo il mercato non è riuscito in questo intento, ma la “libertà” di cui ha goduto ha posto in essere il peggio del capitalismo. I pilastri portanti sui quali si è formata la dottrina del neoliberismo sono una sorta di mescolanza di politiche economiche costituita dai seguenti elementi: meno tasse per i ricchi (imprenditori e speculatori), deregolamentazione del mercato del lavoro (contenimento dei salari, meno welfare, flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del lavoro, condizionamento del ruolo dei sindacati ecc.), finanziarizzazione dell'economia e, per finire, globalizzazione (ovvero libera circolazione di merci, capitali e forza lavoro, anche se, quest'ultima, con qualche limitazione in più...

Le conseguenze di una simile politica hanno portato, secondo Stiglitz, ad una crescita dell’economia mondiale nettamente inferiore a quella avuta nei venticinque anni successivi alla chiusura della seconda guerra mondiale, ad una disuguaglianza sempre crescente tra ricchi e poveri e alla produzione di quelle crisi economiche e finanziarie che hanno martoriato gli anni novanta sino al fatidico agosto 2007, che assumiamo come data ufficiale della crisi ancora in atto. Ne conclude che la madre di tutti gli sconquassi economici è il neoliberismo, che va combattuto con tutte le forze possibili perché non abbia a ripetersi una fallimentare esperienza come quella provocata delle politiche economiche della Scuola di Chicago.

Di seguito mette in rilievo come anche nelle politiche successive che, per comodità di discorso Stiglitz definisce di centro-sinistra (Blair in Inghilterra, Clinton negli Usa e successivamente Renzi in Italia), il neoliberismo sia rimasto come guida sotterranea nei governi amministrati dai suddetti premier. Stessa storia per i movimenti “sovranisti” di destra e di sinistra che, dietro le finzioni strumentali di politiche popolari, nel senso che avrebbero dovuto andare incontro agli interessi delle classi meno abbienti, di fatto hanno seguito, più o meno pedissequamente, la solita trama del neoliberismo. Concludendo che anche la destra nazionalista alla Trump mantiene alcune delle stesse caratteristiche. Oltre al dichiarato nonché praticato razzismo e alla lotta all'immigrazione, Trump si è adoperato per il taglio delle tasse per i più ricchi, per una deregulation del mondo della finanza che ha pesantemente riformato il Dodd Frank Act, un complesso di norme sorte sulla necessità di regolamentazione delle attività finanziarie nel corso della grande crisi finanziaria del 2008, depotenziandolo al punto da renderlo quasi nullo. Inoltre, ha favorito la contrazione dei programmi di sicurezza sociale, come la riforma sanitaria varata da Barack Obama.

Se questa è la diagnosi delle politiche economiche che hanno dominato la scena internazionale negli ultimi quarant'anni, quale la prognosi? Semplice, Stiglitz riscopre il ruolo indispensabile dello Stato. Certo non uno Stato eccessivamente invadente, non uno Stato totalitario, ma uno Stato che sappia porre dei freni alle “esuberanze” del mercato, sia in termini di attività produttive, sia in termini di finanziarizzazione e speculazione. Insomma uno Stato etico, al di sopra delle parti (classi sociali) che renda buono e sostenibile tutto ciò che amministra in funzione del benessere comune. Quindi:

  1. Uno Stato che si opponga all'autoregolamentazione del mercato per evitare tutti i danni precedentemente elencati.
  2. Uno Stato che si proponga come stimolatore della crescita economica.
  3. Uno Stato che regolamenti l'intero mondo della finanza non consentendogli mano libera nella produzione di capitale fittizio e di impedirgli di dare vita a una azione più votata alla speculazione che al finanziamento degli investimenti nell'economia reale. Ovvero impedire l'instabilità finanziaria.,
  4. Uno Stato che abbia cura dell'ambiente e che non si disinteressi delle nefandezze, o addirittura le copra, di una economia che, giocando al risparmio e alla ricerca del massimo profitto possibile, faccia dell'ambiente una enorme discarica e, contemporaneamente, un business da raggiungere ad ogni costo.
  5. I governi hanno quindi il dovere di limitare e formare i mercati attraverso regole per l’ambiente, per la salute, per l’occupazione.

E’ anche compito dello Stato fare ciò che il mercato non può o non vuole fare, come investire nella ricerca di base, nella tecnologia, nell’educazione e nella salute dei suoi partecipanti.

Questo tipo di programma non solo vuole confrontarsi e battere i danni provocati dal neoliberismo, ma si propone come “la via risolutiva” del futuro dell'umanità. Basta con i fallimenti di un capitalismo feroce ed aggressivo, caratterizzato dal dominio del capitale finanziario e dalle grandi Corporation. Basta con le illusioni di una società comunista, visto la fine che ha fatto l'Unione Sovietica o la Cina di Mao. Per Stiglitz è giunto il momento di dare vita all'esperimento economico e politico del “socialismo di mercato”, definizione ibrida quanto contraddittoria, dove con il termine di mercato si intende una economia capitalista in cui operano tutte le categorie economiche del capitalismo, ma anche “socialista” grazie all'intervento regolatore dello Stato, che costringerebbe la forma economica sottostante a comportarsi “bene”, ovvero a lavorare per il benessere di tutti. Va aggiunto che su questo terreno il premio Nobel per l'economia non è solo, negli Usa le correnti a favore di un capitalismo progressista e dal volto umano hanno già arruolato molti “illuminati” borghesi di sinistra del calibro di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio Cortez, che su questo programma stanno preparando le elezioni presidenziali del 2020.

Ma torniamo ai punti programmatici di questo utopistico, quanto conservatore progetto, partorito dall'intelletto di un economista borghese interamente assorbito all'interno dei meccanismi capitalistici con lo scopo dichiarato di salvare l'umanità dal disastro e contemporaneamente di salvare il capitalismo, considerandolo l'unica forma produttiva possibile, esaltandone gli aspetti “positivi” ed eliminando quello negativi. Non perdiamo tempo nello smontare pezzo per pezzo la sua concezione dello Stato quale Ente “super partes”, quando anche al più ottuso scolaretto di Scienze Politiche verrebbe in mente che lo Stato, qualunque esso sia è, e resta, lo strumento politico della classe dominante e che, come tale, fa solo ed esclusivamente gli interessi del capitale e dei suoi gestori in termini di legislazione, di regolamentazione del mercato del lavoro, in termini di sicurezza sociale (quella dei ricchi) e di condizionamento della magistratura.

Ma passiamo ai contenuti di questa “nuova “ politica sociale che, come abbiamo già detto, nuova non è, per il semplice motivo che si ripresenta (l'intervento dello Stato) tutte le volte che il sistema economico si esprime nell'ennesima crisi.

Al primo punto del programma abbiamo l'assoluta necessità di eliminare, o quantomeno, di limitare il divario tra ricchi e poveri. Il come non ce lo dice, ma è facile pensare che la manovra si basi su più alti salari, più welfare nella sanità, nel settore pensionistico, nella educazione ecc.. Ben detto, ma Stiglitz dimentica che in regime capitalistico la povertà di molti è la condizione della ricchezza di pochi. Tradotto in termini di categorie economiche, si ha che il capitale si investe alla sola condizione di ricavarne un profitto che è la parte di lavoro non pagata al lavoratore. Questo rapporto tra capitale e forza lavoro è alla base del sistema, non solo, ma il capitale tende alla massimizzazione dei profitti, aumentando lo sfruttamento della forza lavoro. E' dunque intrinseco alla dinamica del capitalismo che la distribuzione della ricchezza sociale sia iniqua come il rapporto che lega il capitale alla forza lavoro. Pertanto, la distribuzione della ricchezza sotto forma di profitti, rendite ecc..e di salari, non può che dipendere dall'iniquo rapporto che ne sta alla base.

Certo, lo Stato potrebbe intervenire sui rapporti economici mitigando, regolamentando il rapporto stesso ma solo tenendo conto di due imprescindibili condizioni. La prima è che, salari relativamente alti e un welfare “decente” per i lavoratori sono possibili unicamente se ci sono margini sufficienti per il capitale, che li “concede” solo ed esclusivamente sotto la spinta della lotta di classe. Per di più, questi margini sono da anni in veloce restrizione a tal punto che i lavoratori si devono guardare dagli attacchi che il capitale in crisi gli organizza contro con ancora più determinazione di prima. La seconda è che lo Stato, pur democratico che sia, è lo strumento politico della classe dominante, per cui tutte le politiche dei suoi governi sono inevitabilmente legate alla valorizzazione del capitale, che comportano esattamente il contrario. Più i salari sono bassi, più è latitante il welfare e più i meccanismi di valorizzazione del capitale girano a pieno ritmo. Oggi poi, nel perdurare della crisi dovuta a saggi di profitto sempre più bassi, come abbiamo detto, è la borghesia che attacca le condizioni economiche e sociali del proletariato a colpi di limature del welfare (pensioni, sanità, scuola) e di contenimento dei salari, altrimenti gli investimenti vanno all'estero, dove i costi sono nettamente più bassi, i rischi all'investimento minori e, in prospettiva, il tasso di valorizzazione del capitale è maggiormente garantito.

Per cui una diversa redistribuzione del reddito che non tenga conto di questi fattori è una pia illusione o una politica economica destinata al fallimento. E' mai possibile che un premio Nobel per l'economia non sia in grado di valutare tutto questo? La risposta è sì. Non perché Stiglitz sia un incompetente, ma perché, pur ragionando con le migliori intenzioni di questo mondo, usa le categorie economiche capitalistiche, dalle quali non esce se non con voli pindarici, con impostazioni idealistiche che lo collocano più sul terreno del “vorrei ma non posso” che su quello di una analisi corretta dei processi di produzione capitalista e delle sue inevitabili conseguenze sul terreno della distribuzione della ricchezza sociale prodotta.

Sempre nella dimensione delle pie illusioni si collocano i punti 2 e 3 che riguardano il comportamento dello Stato da un punto di vista macro economico come stimolatore della crescita economica e regolatore del mondo della finanza.

Intanto bisogna sottolineare che sono più forti le istanze che partono dalla base economica e finanziaria di quelle che promanano dagli organi amministrativi. Anzi, di solito, sono le prime che condizionano le seconde, in base a un determinismo economico che lascia pochi spazi agli slanci progressisti di un capitalismo in crisi profonda. Detto questo, se uno Stato borghese svolgesse appieno il suo ruolo di facilitatore dello sviluppo economico, dovrebbe mettere in atto tutte quelle leggi, quelle normative e le relative disposizioni esecutive, atte ad accompagnare il capitale nella sua ricerca della migliore valorizzazione possibile. In altre parole, in una fase di crisi come questa, dovrebbe portare alle estreme conseguenze la riforma del mercato del lavoro (libertà di licenziamento e contenimento dei salari), lo smantellamento del welfare, la riforma delle pensioni e meno tasse per gli imprenditori, cioè tutto quel bagaglio di necessaria prassi di conservazione, più o meno violenta, che va dalla parte opposta a quella desiderata da Stiglitz.

Lo stesso discorso vale per il mondo della finanza, con qualche aggravante in più. Allo scoppio della crisi del 2007, prima negli Usa poi in tutti i paesi “infettati”dai titoli tossici, gli Stati si sono dati da fare per tamponare l'emorragia che lo scoppio della bolla dei subprime aveva prodotto. Da più parti si è levato il grido di allarme: mai più inseguire “l'economia di carta”, bisogna assolutamente tornare all'economia reale, quella che produce valore e non capitale fittizio e speculazione. E così lo Stato ha tentato di muoversi. In primis il governo americano ha salvato le più importanti banche del paese (troppo grandi per fallire) con un processo di semi nazionalizzazione o di nazionalizzazione temporanea. Poi ha messo in atto un piano di New Deal finanziario (quantitative easing) che ha calato a pioggia migliaia di miliardi di dollari, immediatamente seguito dalla BCE di Draghi, con lo scopo di rimettere in piedi gli Istituti finanziari affinché ricominciassero a svolgere la loro funzione di stimolo agli investimenti attraverso il credito alle imprese, ovvero di far proseguire il fiume di capitali ricevuti verso l'economia reale. Ma nonostante la pioggia di miliardi di dollari e di euro piovuto nelle casse delle Banche, l'auspicata ripresa dei finanziamenti alle imprese è rimasta al palo. Non che non si sia mosso un centesimo, ma gli Istituti di credito, sia in Europa che negli Usa, prima hanno lenito le loro “sofferenze” dovute a crediti non più esigibili (dovuti ai fallimenti in tutti i settori dell'economia), poi si sono riempiti la pancia di titoli di Stato più remunerativi, ed infine si sono date alla speculazione come prima dell'inizio della crisi. Alle imprese hanno concesso poco ad alti tassi di interesse, studiando sin nei minimi dettagli i piani di investimento delle imprese stesse per essere sicuri della bontà dell'investimento. In pratica, il circolo virtuoso del capitale, quale motore primo della ripresa economica, non è ripartito. Il motivo è molto semplice. Con una crisi dovuta a saggi di profitto bassi, il capitale si è indirizzato prevalentemente sul terreno speculativo, tentando di recuperare quei saggi di profitto che con l'attività imprenditoriale stentava ad ottenere.

Rimanendo all'interno dell'economia reale, l'unica “soluzione” per il capitale sembrerebbe l'ulteriore sviluppo delle forze produttive per aumentare la massa dei profitti, diminuendo i costi e i tempi di produzione. Il suddetto sviluppo è arrivato, nei paesi “altamente sviluppati”, a produrre sì un saggio di sfruttamento, sulla base del plusvalore relativo, molto elevato ma, contemporaneamente, ha spinto la composizione organica del capitale talmente in alto da rendere sempre più difficile il processo di valorizzazione del capitale stesso. Infatti l'alta composizione organica del capitale ( più macchine e meno forza lavoro), dovuto all'obiettivo di comprimere, con tecnologie avanzate, il tempo di lavoro necessario a riprodurre i mezzi necessari alla sopravvivenza dei lavoratori, se da un lato aumenta il saggio di sfruttamento e la massa dei profitti, dovuto al maggior numero di merci prodotte e vendute (forse), dall'altro diminuisce il numero dei lavoratori, restringendo la base dell'estorsione di pluslavoro e aprendo la strada alla caduta del saggio medio del profitto.

A questo stadio di sviluppo delle contraddizioni del sistema economico capitalistico il processo di valorizzazione del capitale diventa sempre più difficile e non c'è da meravigliarsi se una quota rilevante di capitali evitano di investirsi nella produzione di merci e servizi per rincorrere il miraggio di extraprofitti derivanti dalla speculazione sui vari mercati, che vanno da quello delle materie prime a quello dell'oro o delle divise. Solo così si spiega l'attuale ristagno degli investimenti produttivi e l'esistenza di una massa di capitali (calcolata 12 volte il Pil mondiale) che aleggia nel limbo del non investimento, per cogliere l'opportunità di investimenti speculativi che la ripaghino degli scarsi profitti derivanti dalle attività produttive. Con l'inevitabile effetto di stornare capitali alla produzione e di indebolire ulteriormente quella base produttiva già sofferente per l'operatività della legge della caduta del saggio medio del profitto. Questa contraddizione non può essere sanata da una mirata politica economica. Non c'è governo o Stato che sia in grado di intervenire sul mercato per eliminare una simile contraddizione. E' il capitale, le sue immanenti leggi, che fanno scorrere il tumultuoso fiume delle contraddizioni capitalistiche. Queste, a loro volta, impongono agli Stati politiche di salvataggio che, nonostante la loro messa in esecuzione, non risolvono il problema ma lo allontanano nel tempo, per poi ritrovarselo ingigantito sulla base delle stesse contraddizioni che il problema hanno creato.

“L'estrema ratio” sarebbe la distruzione massiccia di valore capitale che solo una guerra può mettere in atto, ma di questo, come dei problemi di caduta del saggio del profitto e di valorizzazione del capitale , il “nostro” Nobel non se ne cura, non li prende nemmeno in considerazione, perché non esistono nei suoi schemi mentali, quindi non fanno parte del suo programma di bonifica del capitalismo. La realtà, invece, quella che opera quotidianamente, al di fuori dalle velleità ideologiche dei “guru” della finanza, mostra come i fattori contraddittori del capitalismo operino velocemente e come la preparazione alla distruzione di valore capitale attraverso una guerra generalizzata rischia, ogni giorno di più, di diventare una tragica realtà.

La prima parziale conclusione è che, anche per quanto riguarda il condizionamento del mercato finanziario da parte degli organi dello Stato, nonostante i tentativi fatti (salvataggio dei maggiori Istituti di credito e il Q.E.) non hanno risolto nulla. Il capitalismo marcia in avanti con tutte le sue contraddittorie espressioni. Compito dello Stato, semmai, è quello di assecondare questo percorso anche se porta alle crisi e alla guerra; tutto il resto sono utopie che lasciano il tempo che trovano, comprese quelle di Stiglitz.

Anche per il problema ambientale siano nelle stesse condizioni. Siamo in presenza di un processo epocale contro l'ambiente. Dalla piogge acide all'inquinamento delle acque, dalle emissioni di CO2 all'innalzamento della temperatura. Dallo scioglimento dei ghiacciai alla desertificazione, dalla deforestazione alle discariche abusive. Da decenni i paesi industrialmente avanzati usano i paesi poveri e arretrati come discariche. L'affannosa ricerca del petrolio e il ritorno al carbone per chi il petrolio non ce l'ha, devastano l'ambiente come mai prima d'ora. I governi ne sono consci, soprattutto quelli che di petrolio e di gas non hanno nemmeno un bicchiere o una bomboletta, stanziano e incentivano con scarse risorse economiche le energie alternative (eolico, elettrico e solare) ma nulla possono contro le leggi assassine del profitto che, pur di essere realizzate, considerano la salvaguardia dell'ambiente non come un bene da proteggere, ma come un ostacolo che deve essere aggirato se non abbattuto, almeno sino a quando le energie rinnovabili non diventeranno un business sicuro, in quanto quelle inquinanti saranno diventate rare e costose da estrarre.

L'apparente paradosso è che, dal lontano protocollo di Kyoto (1997) a quello di Parigi (2015), sull'abbassamento delle emissioni, non solo non si è fatto nulla di concreto, ma le più forti resistenze sono venute dai paesi maggiormente responsabili dell'inquinamento terrestre. Come la Cina, la cui responsabilità inquinante, a scala globale, è del 16%, anche se poi a Parigi ha posto la sua firma sul trattato. Come gli Usa (36%) che, prima con Bush Jr. poi con Trump, hanno ritenuto che i maggiori costi imposti dalle normative anti inquinamento avrebbero danneggiato l'intera economia americana, diminuito la capacità di competizione, e che quindi avrebbero creato solo un pesante danno economico e un notevole intralcio ai processi di valorizzazione del capitale del più potente imperialismo mondiale. Da Kyoto a Parigi non solo si è parlato molto di ambiente ma fatto poco, i paesi più inquinanti hanno comprato le “quote” dei paesi meno inquinanti per continuare nel loro percorso che prevede la soddisfazione delle leggi del profitto a tutti i costi e non quelle della salvaguardia della natura. Così si è arrivati ad una devastazione che, per molti scienziati, rischia di avere toccato il punto di non ritorno.

In regime capitalistico le leggi dominanti sono quelle del capitale dominante. In una situazione di crisi da saggi del profitto, per giunta, le concentrazioni economiche si ingigantiscono, il capitale si centralizza ulteriormente, la concorrenza si esaspera e le leggi che regolamentano la valorizzazione dei capitali diventano più ferree. Le buone intenzioni di alcuni governi o rimangono lettera morta o diventano un inutile esercizio di buone intenzioni di cui, come recita il parroco di turno, “sono lastricate le strade dell'inferno”. A Stiglitz non resterebbe altro che iscriversi allo Youth Climate Protest (YCP) di Greta Thunberg, che da buona giovane idealista pensa che sia possibile salvare il clima dalle nefandezze del capitalismo senza toccare le cause che queste nefandezze producono. Sarebbe come cercare di salvare i cristiani nell'arena (il proletariato) senza uccidere il leone (il capitalismo) che li vorrebbe sbranare.

Il quinto punto è la sintesi dei primi quattro e recita che “I governi hanno il dovere di limitare e formare i mercati attraverso regole per l’ambiente, per la salute, per l’occupazione. E’ anche compito dello Stato fare ciò che il mercato non può o non vuole fare, come investire nella ricerca di base, nella tecnologia, nell’educazione e nella salute dei suoi partecipanti”. Siamo all'apoteosi del radical riformismo borghese. E' pur vero che nella storia di alcuni Stati c'è stato un controllo del mercato più stretto se non addirittura soffocante. Ma è anche vero che in questi casi, di relativa recente esperienza, lo Stato centralista non ha fatto altro che tentare di rendere più funzionali tutti quei meccanismi di mercato che regolano le solite, assolute, necessità di valorizzazione del capitale. E' quello che è avvenuto in Russia dopo il fallimento della rivoluzione d'ottobre. E' quello che sta avvenendo in Cina dove non c'è stata nessuna rivoluzione proletaria fallita ma la costruzione di un capitalismo di Stato a modello russo. E' quello che è avvenuto in Italia durante il fascismo dove lo Stato è diventato il proprietario, attraverso le sue finanziarie, delle più importanti imprese nazionali, o possedendo il 51% delle azioni o detenendo il pacchetto di maggioranza relativa delle stesse. Non a caso si era nel bel mezzo delle devastanti conseguenze della crisi del 1929.

Ha un bel dire Stiglitz che il mercato capitalistico non può autogestirsi da solo perché creerebbe tali disastri e tali crisi economiche da mettere continuamente a repentaglio le condizioni di vita dei quattro quinti dell'umanità. E ha un bel da fare a inoculare nel mercato elementi di “socialismo” cioè di presenza dello Stato nell'economia e nelle strategie finanziarie. A tal proposito, può far sorridere l'incongrua espressione, ma nella mentalità americana, anche in quella di esimi premi Nobel, è sufficiente predicare una qualunque presenza dello Stato nell'economia, per essere definiti socialisti o per definire socialista uno Stato che pratichi un minimo di questa presenza.

Ma ovviamente non è questo il punto. La giusta disamina di Stiglitz contro il neoliberismo non tiene conto di un fattore imprescindibile. Le “nefandezze” del capitalismo non sono imputabili a questa o a quella forma di amministrazione dei rapporti di produzione capitalistici, ma ai rapporti stessi. Le crisi economiche, l'attacco alle condizioni salariali che ne conseguono, lo smantellamento del welfare, la divergenza a forbice sempre più larga, le guerre permanenti che gli imperialismi combattono, per il momento per procura, non sono figli illegittimi di un sistema economico che, se amministrato come si deve, prenderebbe altre strade e farebbe altre scelte. E' nella natura del capitalismo produrre questi efferati effetti. E' nel suo DNA aggredire nel mercato interno la sua forza lavoro e su quello esterno la borghesia e il proletariato di altri paesi per risolvere i suoi problemi di valorizzazione e di saggi del profitto. L'imperialismo non è un abito che il capitalismo indossa per difendersi da attacchi esterni, non è una scelta politica che pratica in casi estremi o un atteggiamento che, volendo, potrebbe evitare prendendo soluzioni alternative alla guerra.

L'imperialismo è la conseguenza e contemporaneamente l'unico modo per tentare di contenere tutte quelle contraddizioni che il sistema stesso produce, e lo fa sul piano della violenza. E più la violenza è devastante e più le possibilità dell'imperialismo vincente di sopravvivere sono alte. Ciò è puntualmente avvenuto con regimi liberisti e neoliberisti, con regimi che prevedevano una “discreta presenza” dello Stato nell'economia. E' addirittura avvenuto con regimi a capitalismo di Stato. Ne consegue che lavorare sulle sovrastrutture di politica economica nel tentativo di rendere il “sistema” più buono, a misura d'uomo, soltanto approntando le adeguate misure al comportamento dei mercati, quando sono loro che dettano legge all'interno del “sistema”, è uno sterile esercizio di manutenzione della tolda di una nave che sta affondando, perché il fasciame sottostante è completamente marcio. Non è possibile agire sugli effetti se si lasciano inalterate, e in grado di agire, le cause che li pongono in essere.

Se si esce dall'impostazione borghese del problema, se si abbandonano le categorie economiche capitaliste, se non ci si infila nel tunnel delle impossibili speranze e ci si affida ad una impostazione dialettica di tutti quei problemi che il capitalismo produce, allora la strada incomincia ad essere più visibile e percorribile. In altri termini, per poter portare a compimento uno solo degli obiettivi del programma di “salvezza internazionale” occorrerebbe una rivoluzione sociale, figuriamoci per cinque. Se si vuole dare vita ad una società in cui lo sviluppo delle forze produttive non sia l'ennesima catena che lega il proletario ad una fase di maggiore sfruttamento, ma la creazione di tempo libero. Se si vuole azzerare lo sfruttamento, eliminare la disoccupazione, che ormai è diventata una condizione endemica all'interno dei rapporti produttivi capitalistici mondiali. Se non si vuole che la povertà di molti sia la condizione per la ricchezza di pochi. Se si vuole evitare che scoppino guerre per procura e, in prospettiva, la conflagrazione di una guerra globale dove gli imperialismi si scontrino tra di loro, mettendo in scena quello che sarebbe la più grande delle tragedie umane. Se si vuole evitare l'ennesima barbarie, di cui la catastrofe ambientale sarebbe una componente, il primo punto da cui partire è la rottura del rapporto tra capitale e forza lavoro, ovvero il sistema fondante di tutto l'impianto economico produttivo e distributivo basato sullo sfruttamento della forza lavoro. Senza questo passo ogni soluzione alternativa al capitalismo o, peggio, all'interno del capitalismo stesso in senso riformistico, è solo una tragica ingenuità, se non uno stupido palliativo che lascia esattamente le cose come stanno.

L'iniquo rapporto tra capitale e forza lavoro non solo è sinonimo di sfruttamento, ma più si sviluppano le forze produttive sulla base della contrazione del lavoro necessario a riprodurre le condizioni di esistenza della forza lavoro, più si innalza la composizione tecnica e organica del capitale. In termini più semplici, ci ripetiamo, lo sviluppo delle forze produttive sulla base del plusvalore relativo innesca, accanto ad un aumento dello sfruttamento, la modificazione della composizione organica del capitale (più macchine e meno forza lavoro da cui si estrae il pluslavoro e il plusvalore), favorendo l'innesco della legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto. A sua volta la modificazione della composizione organica del capitale imponendo la crisi da diminuzione del saggio del profitto, pone seri problemi al processo di valorizzazione del capitale che, a sua volta, esaspera tutte le contraddizioni del sistema capitalistico, favorendo la concentrazione dei mezzi di produzione, la centralizzazione del capitale, la crisi di “sovrapproduzione”, le crisi finanziarie, incentivando la speculazione, la creazione di capitale fittizio e, come “extrema ratio”, il ricorso della guerra quale ultima “risorsa” per la sopravvivenza di un sistema ormai agonizzante, che deve assolutamente distruggere per ricreare le minime condizioni per la sua sopravvivenza..

Ma perché un simile programma possa muovere i primi passi in un contorno economico e sociale di conservazione e reazione, è necessario che il mondo della schiavitù salariale si muova al di fuori degli steccati sindacali, delle illusorie promesse del radical riformismo, dei falsi partiti di sinistra, per affrontare in una guerra definitiva il sistema del capitale e la violenza reazionaria dei suoi gendarmi interni ed esterni. E proprio per questo è assolutamente necessario che questo mondo di proletari, diseredati, sfruttati come solo il capitalismo moderno è in grado di fare, di disoccupati perenni, di giovani in cerca di un lavoro qualunque, se lo trovano, abbiano un obiettivo tattico e strategico che solo il partito di classe, rivoluzionario, può dare. Altrimenti i demoni dell'apocalisse ricacceranno i lavoratori nell'inferno della schiavitù salariale per poi reclutarli nei loro criminali eserciti di morte, facendoli scontrare gli uni contro gli altri in una sorta di macabro rito, celebrato all'unico scopo di consentire all'imperialismo di distruggere il più possibile per ricostruire capitalisticamente altri monumenti di miseria e sfruttamento.

FD, agosto 2019
Sabato, August 24, 2019

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.