L'America Latina brucia, tra rivolte e repressioni

Quello che è stato per decenni il “giardino” degli Stati Uniti, poi diventato un covo di “socialisti”, ora è attraversato da una profondissima crisi che non risparmia né i grandi paesi come l'Argentina, il Brasile e il Venezuela, né i piccoli come la Bolivia, l'Ecuador e il Perù.

Tutto il subcontinente americano è in fiamme. Milioni di persone, lavoratori, proletari, contadini e una fetta sempre più consistente di una piccola borghesia in via di proletarizzazione, spinti dalla fame e dalla miseria scendono nelle strade, riempiono le piazze in cerca di una “soluzione” politica ai loro impellenti bisogni elementari.

Il che rimescola le carte sulla scena sociale sudamericana. Governi di “sinistra” che cadono o stentano a rimanere in piedi. Forze di destra che soffiano sul fuoco nella speranza di arrivare al potere. In entrambi i casi nel mezzo si muove un proletariato oggetto di repressione da parte dei governi in carica, di false, quanto impraticabili promesse da parte delle forze di opposizione. Di fronte ad un simile sfascio economico, sociale e politico, non pochi analisti borghesi gridano al fallimento delle varie vie al socialismo che avrebbero caratterizzato la via economica e ideologica di molti paesi dell'area, dal Brasile al Venezuela, dalla Bolivia all'Ecuador. Niente di più falso. Quello che sta tragicamente succedendo sotto quelle latitudini non è altro che la conseguenza di questa crisi che, nata nel 2008 sotto la formula di crisi finanziaria dei sub prime, continua a macinare le sue nefaste conseguenze sia nei paesi ad alta industrializzazione, sia nella “periferia” del capitalismo, non lasciando margini di ripresa a nessun paese, tanto meno a quelli che sono sempre vissuti all'ombra di questo o quell'imperialismo.

Se andassimo a vedere la composizione economica dei paesi sudamericani, non con una lente d'ingrandimento ma con un semplice paio di occhiali, ci accorgeremmo che in quelle esperienze politiche, sedicenti di sinistra, non c'è mai stato nulla di socialismo se non l'imbonimento presso le masse diseredate e il proletariato per assicurarsi una basa elettorale che consentisse al Caudillo di turno di rimanere al potere.

Questa crisi è esplosa nel settore finanziario solo per il semplice fatto che molti capitali, non trovando più adeguati profitti nell'ambito della produzione reale, si sono spinti verso la speculazione. Hanno intasato così i canali della finanza sino a far deflagrare le bolle speculative che, attraverso i complessi meandri del mercato finanziario, hanno impestato dei loro miasmi l'intero mondo capitalistico. Con l'unica differenza, che prima le bolle sono esplose nei paesi maggiormente colpiti dalla crisi del saggio dei profitti e poi nella periferia. Mentre in Usa e in Europa i sistemi bancari sono stati salvati con i soldi pubblici, ovvero dei lavoratori, nei paesi periferici, mancando questa disponibilità, la crisi pur arrivando più tardi, si è espressa con maggiore virulenza.

Le crisi finanziarie che hanno devastato le divise nazionali di questi paesi hanno le stesse origini capitalistiche di tutti gli altri paesi avanzati. In Argentina, per esempio il peso (la moneta locale) è crollato di oltre il 50%. La borsa di Buenos Aires ha perso il 50% della sua capitalizzazione. L'inflazione è arrivata al 54% ma è destinata ad aumentare. In pochi mesi il Pil è sceso del 35%. Il governo uscente di Macrì ha dovuto contrarre un debito di 57miliardi di dollari con il FMI in cambio di pesanti sacrifici. Capitali fuggiti all'estero, salari dimezzati, emergenza alimentare e una povertà che supera di molto la statistica ufficiale del 30% sono le conseguenze del fallimento di una economia capitalistica e non di un esperimento socialista, peraltro impossibile, a maggior ragione, se così si può dire, sotto un governo di destra come quello di Macrì.

Un discorso simile, anche se con caratteristiche diverse, è quello che si può fare con il Venezuela. A tutt'oggi lo scontro politico è tra Maduro, il vecchio delfino di Chavez e continuatore dell'ipotetica via bolivariana al “socialismo”, e il destro dichiarato Guaidò finanziato dagli Usa. Alla base la solita crisi internazionale che, in questo caso, ha colpito anche un paese ricco di materie prime, petrolio in primis. La crisi nella crisi che ha portato sul lastrico un paese ricco come il Venezuela sta nel fatto che, calato il prezzo del petrolio, il presunto governo socialista si è trovato immediatamente in difficoltà. In tempi di vacche grasse non aveva diversificato l'economia, ha basato tutto sulla rendita petrolifera che aveva consentito ai miliardari venezuelani di esportare in Usa il loro “risparmi” e aveva dato solo le briciole al popolo venezuelano in termini di scuola e sanità, per garantirsi la base sociale a scopi elettorali. Con la “crisi”petrolifera da basso costo del greggio, la povertà è aumentata esponenzialmente, il Pil è sceso del 37%, le esportazioni del greggio sono calate “grazie” anche all'embargo Usa e l'inflazione è arrivata a 1 milione %. Anche in questo caso, sia che rimanga Maduro o che arrivi al potere Guaidò, nulla cambierà nella struttura economica del paese e sulle condizioni del suo proletariato. In aggiunta, in Venezuela si gioca una partita tra Russia e Cina da una parte (finanziamenti per 4 miliardi da parte di Mosca e 62 miliardi di dollari dalla Cina a partire dal 2005) e dall'altra gli Usa di Trump, che sostiene il suo candidato di destra a suon di miliardi, anche se non si conosce la vera entità delle somme che arrivano nelle tasche di Guaidò a sostegno della sua campagna politica. Nonostante che Maduro sia riuscito a coinvolgerlo in un processo per droga e abbia costretto una selle massime Istituzioni del Venezuela a cancellare la sua auto proclamazione a presidente ha organizzato alla fine di novembre una grande manifestazione contro il governo e rimane l'unico candidato accettato da Trump.

Stesso discorso per il Cile, primo produttore di rame al mondo. Con la crisi e con l'abbassamento degli scambi commerciali, complice la politica dei dazi di Trump, l'economia cilena, tutta incentrata sull'estrazione e la commercializzazione del rame, è crollata trascinando con sé il resto del paese, che di questa economia viveva raccattando le briciole. Come in tutti i paesi capitalisti, la crisi ha favorito la fuga dei capitali all'estero, la speculazione e la corruzione, esattamente come in Argentina e in Venezuela. Inevitabile la rivolta della fame che ha coinvolto i minatori, i lavoratori dell'indotto e i due terzi della popolazione. Conclusione: il governo nonostante le rivolte è rimasto in piedi e il potere è rimasto nelle mani dell'uomo forte del momento, il miliardario Sebastian Pinera. Naturalmente, non ha cambiato affatto le politiche economiche dei suoi predecessori - il cosiddetto neoliberismo - a danno del proletariato e, come si diceva, di settori consistenti di piccola borghesia. Il malcontento e la rabbia hanno così continuato ad accumularsi in questi strati sociali, sinché è bastato un provvedimento – di per sé modesto – quale l'aumento dei biglietti della metropolitana, per far esplodere la situazione. Dure proteste, scontri di piazza con le forze dell'ordine borghese – che hanno rispolverato i soliti ma sempre efficaci metodi “pinochettisti” – alla cui testa si sono schierati per lo più i giovani del proletariato e della piccola borghesia (gli studenti).

Nella bufera anche la Bolivia di Evo Morales costretto alle dimissioni prima e alla fuga in Messico poi, lasciando il potere alla destra di Anez, donna filo americana che dovrebbe, chissà come, rimettere le cose a posto, se non da un punto di vista economico, da quello politico, dando vita ad un nuovo allineamento strategico verso Washington. (1)

Poi ci sono le rivolte della fame in Ecuador e Colombia dove la destra di Duque ha preso il potere con il solito avallo degli Usa.

Al momento tutta l'America Latina è sotto il fuoco della crisi permanente mondiale che non dà scampo a nessuna economia, nemmeno a quelle più forti da dove, peraltro, la crisi è partita. Per di più, nei paesi più interessanti del sud America l'imperialismo sta recitando un vecchio, tragico copione di pressioni ed interferenze con lo scopo, da parte nordamericana, di riprendersi il giardino che fu suo, mentre Russia e Cina cercano di mantenere le posizioni che sino a poco tempo fa detenevano con grossi vantaggi economici, commerciali e strategici.

E' lo stesso macabro gioco che hanno praticato in Medio Oriente, in Siria, in Iraq, nello Yemen, intervenendo bellicosamente senza, per il momento, scontrarsi direttamente ma amministrando delle guerre per procura. In America Latina il tragico gioco è rappresentato dal rovesciamento di governi, dalla strumentalizzazione della fame, della miseria e del progressivo impoverimento che ha mosso alla cieca milioni di lavoratori presi alla gola dall'impossibilità di avere una vita degna di un essere umano e non simile a quella di un cane randagio. Purtroppo cedendo molto spesso alle sirene dei partiti di opposizione e agli imperialismi più munifici nei confronti delle rispettive borghesie, in attesa che qualche briciola cadesse dal tavolo dei ricchi per dare sollievo ai quei poveri, cioè ai proletari stessi che nulla possedevano e che nulla hanno da sperare per il futuro.

Tornando all'originario assioma dei soliti solerti analisti e a quei personaggi sinistri che, in tutto questo, vedono il fallimento o la violenta interruzione dei vari esperimenti “socialisti” a vantaggio del reingresso imperialismo americano nell'area del sud America, vanno ribadite alcune cose. Innanzitutto, dal Brasile all'Ecuador, dal bolivarismo venezuelano a quello di Evo Morales non esiste esperimento socialista da salvare. In tutti i paesi dell'America Latina i partiti della cosiddetta sinistra non hanno fatto altro che amministrare i rapporti di produzione capitalistici al meglio degli interessi della classe dominante o del Caudillo di turno. Chi ha potuto si è proposto presidente a vita, ha concesso ad una cerchia ristretta di godere della rendita petrolifera (Venezuela), di una rendita derivante dal commercio del rame (Cile). Là dove le ricchezze minerarie erano meno consistenti, lo schema borghese si è riproposto lo stesso con una borghesia privata, ma molto spesso di stato, che amministrava lo poche risorse disponibili a scapito di un proletariato ridotto a plebe inerte, sensibile solo alle già citate briciole che potevano cadere dalla mensa dei ricchi borghesi, ingrassati dalla speculazione, dalla corruzione, e da quel poco o tanto che riuscivano ad estrarre dallo sfruttamento della classe proletaria.

Va poi detto ai soliti zelanti analisti e ai soliti “sinistri” che si schierano contro l'imperialismo americano, considerandolo l'unico al mondo, che ad operare in America latina, sul terreno dello sfruttamento delle popolazioni e delle risorse minerarie, ci sono anche la Russia, la Cina con la partecipazione, in tono minore, di Gran Bretagna, Spagna e Francia. In aggiunta, va sottolineato il grossolano errore di considerare socialista tutto ciò che viene strumentalmente definito come tale solo perché che prevede l'intervento dello Stato nell'economia e nella finanza: in termini assoluti, nella forma di capitalismo di stato, o in termini relativi di compartecipazione statale alle più importanti imprese nazionali. Nella testa di questi personaggi statalizzazione equivale a socializzazione, senza prendere in considerazione le categorie economiche capitalistiche che ne stanno alla base. Ed è per questo che si mobilitano (sempre a parole) in favore dei governi di “sinistra” contro il solo imperialismo americano e non contro gli altri imperialismi che, opponendosi a quello americano, diventerebbero automaticamente degli antiimperialismi degni di essere sostenuti.

E' per questo che non prendono minimamente in considerazione che la crisi attuale è la crisi dell'intero sistema capitalismo. Che non c'è un imperialismo di destra che vada combattuto e uno di sinistra che vada difeso. L'imperialismo è uno e non ha una destra o una sinistra che lo distingua. Va ribadito che le borghesie di destra o di falsa sinistra vivono sullo sfruttamento delle “loro” materie prime e sullo sfruttamento dei lavoratori che le producono. Che il capitale privato, pubblico o di partecipazione statale ha sempre lo scopo di valorizzarsi e lo può fare solo ad una condizione: sfruttare la forza lavoro. Ed infine deve valere il principio che quando le masse si muovono, scendono nelle piazze, si scontrano con le forze dell'ordine (borghese) come in questo caso, non vanno indirizzate verso uno dei fronti degli interessi borghesi o, peggio ancora, degli interessi imperialistici, ma devono essere guidate verso l'unico obiettivo di classe possibile: l'abbattimento dello Stato borghese sotto qualsiasi vestito ideologico si presenti, per una soluzione rivoluzionaria, premessa necessaria ad un cambiamento dei rapporti di produzione, che non preveda l'esistenza del capitale e delle sue necessità di valorizzazione. Soluzione che vada ad interrompere il rapporto tra capitale e forza lavoro, eliminando le classi sociali, dunque le differenze di reddito, l'eterno divario tra ricchi e poveri. E' questa la parola d'ordine che va agitata tra i proletari e i disperati dell'America latina come nel resto del mondo capitalistico. Ma perché tutto ciò possa avere un inizio, occorre che le masse in movimento abbiano un punto di riferimento politico (il partito rivoluzionario), una tattica adeguata (nessun compromesso con le borghesie di destra e di “sinistra”, con i populismi e i sovranismi di alcun genere), e una strategia rivoluzionaria che abbia nel suo programma la costituzione di una società senza capitale, senza classi, che produca beni e non merci, a soddisfacimento dei bisogni della popolazione e non di una sola parte di essa e nel rispetto dell'ecosistema.

FD, dicembre 2019

(1) I nostri compagni del Gruppo Lavoratori Internazionalisti (USA) hanno scritto la stessa cosa subito dopo la caduta di Morales. Il testo si trova sulla loro pagina di Facebook.

Lunedì, December 23, 2019