I venditori di morte

Secondo l'Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma il 2018 è stato un anno di grazia per i produttori di armi. Le vendite sono aumentate del 4,8%, per un valore complessivo di 480 miliardi di dollari. Dal computo mancano le vendite cinesi, altrimenti saremmo ben al di là dei 530 miliardi. A spiegare questa considerevole crescita c'è senz'altro l'incremento americano dovuto al programma di ammodernamento dell'esercito annunciato da Trump nel 2017. Tutte le grandi compagnie americane del settore si stanno rafforzando e fondendo, per attrezzarsi al meglio per produrre i sistemi militari di nuova generazione che consentiranno loro di collocarsi nella migliore delle condizioni per vincere gli appalti del governo di Washington. Questo spiega perché i primi cinque posti nella top 100 delle industrie belliche mondiali sono appannaggio dei giganti americani. Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman, Raytheon e General Dynamics. Messi insieme vendono per 148 miliardi di dollari in armi, il 35% dell'intero fatturato delle cento maggiori industrie. Se si aggiunge, grazie al processo di aggregazione, tutto l'indotto che ruota attorno alle cinque Majors, si arriva a ben 246 miliardi di vendite: il 59% del totale e il 7,2% in più del 2017.

Ufficialmente in calo, anche se di poco, il fatturato della Russia (-7%), che più verosimilmente è rimasta ai soliti livelli in barba alle statistiche emesse da Mosca che mostrerebbero il contrario. In Europa le cose, per “loro” non vanno male. Complessivamente i maggiori produttori europei hanno raggiunto un fatturato di 102 miliardi di dollari. In compenso si sono ridotte le vendite del Regno Unito, tradizionalmente primo paese del vecchio continente in questo settore, e quelle della Germania (-14%), mentre sono aumentate quelle della Francia (+27%), soprattutto grazie ai contratti siglati dalla Dassault, prima impresa francese nel campo della produzione militare, funzionali al ruolo che il governo di Parigi vuole imperialisticamente giocare nell'area africana delle sue ex colonie, ma non solo (vedi il suo intervento in Libia).

Anche lo straccione imperialismo italiano, nel suo piccolo, contribuisce alla fabbrica della morte. Le vendite di armi delle imprese italiane hanno avuto una crescita del 5% nell'ultimo anno (2018). La fetta di mercato delle società italiane, (sempre in riferimento alla classifica delle cento aziende), è stato del 2,8 per cento, più della Germania, del Giappone e di Israele. Il giro d'affari delle due maggiori società italiane è arrivato a 11,7 miliardi: La Leonardo è addirittura entrata nella top ten (ottavo posto) con 9,8 miliardi di armi vendute nel 2018, e con una non indifferente crescita del 4,4 per cento.

Oltre al business, sempre presente nei pensieri dell'economia capitalistica, c'è un altro motivo che muove in progressione la produzione e la vendita di armi sul mercato mondiale. Questo motivo impellente e pressante che nasce dalle viscere del sistema economico si chiama crisi. Una crisi devastante che, partita nel 2008 e che perdura ancora oggi, ha prodotto povertà in tutto il mondo: centinaia di milioni di disoccupati e di diseredati, sia nei centri del vecchio capitalismo che alla loro periferia. Ha innescato e intensificato un processo di aggressione nei confronti del proletariato internazionale, abbassato i livelli di incremento della produzione (Pil), scombussolato al ribasso gli scambi commerciali (la politica dei dazi di Trump non ne è la causa ma un effetto) e, infine, ha accelerato la conflittualità tra i maggiori imperialismi ai quattro angoli del mondo. E' in questo tragico quadro di guerre, conflitti regionali, tensioni internazionali, che in prospettiva sono destinati a trasformarsi in scontri militari diretti o combattuti per procura, che si colloca il fenomeno dell'aumento della produzione e della vendita di armi.

I maggiori imperialismi, oltre a dotarsi di tecnologie sempre più avanzate sia nel campo delle armi tradizionali che di quelle nucleari, per essere militarmente competitivi su qualsiasi terreno, compreso quello spaziale, vendono armi agli alleati, alle fazioni di riferimento nelle guerre locali, sino ad armare i cosiddetti terroristi africani o medio orientali, purché funzionali alle loro strategie. In questo caso le armi arrivano”gratuitamente” o a prezzi agevolati. A volte l'interesse strategico è superiore all'interesse immediato del business, anche se, nel computo generale, il secondo rimane il fulcro della produzione di armi e il primo è una forma d'investimento politico- strategico che, alla lunga, va a rinforzare il business stesso.

Non è un caso che i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU, cioè il gotha dell'imperialismo mondiale, (Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina) siano complessivamente i maggiori produttori e venditori di armi al mondo. Solo loro detengono l' 85% del mercato internazionale. E sono gli stessi imperialismi che vediamo agire nei teatri di guerra, molto spesso da loro stessi provocati.

Gli Usa sono da sempre i maggiori produttori e venditori di armi nel mondo. Non solo, ma il loro ruolo primario imperialistico fa sì che le armi arrivino a quei paesi allineati o soggiogati che, per interessi propri o per necessità di schieramento, di queste armi fanno la loro ragione di vita e di morte, ovviamente per gli avversari. Dal Pentagono arrivano rifornimenti di primo livello all'Arabia saudita (+225% di vendite a Riad nel 2018) che, spendendo decine di miliardi di dollari in armi, cerca di giocare un ruolo primario nel mondo sunnita, reprimendo ogni istanza sciita, come gli alawiuti in Siria, gli houti nello Yemen, hezbollah in Libano e tutte quelle forze che direttamente, o in maniera mediata, entrano nella sfera di influenza dell'Iran. Senza però rinunciare a mantenere l'ordine, all'interno dello stesso mondo sunnita, con la pretesa dell'indiscutibilità dalla sua leadership politica e militare, boicottando, se non reprimendo le posizioni di non allineamento come quelle del Qatar e, più recentemente, denunciando la defezione dalla Coalizione del Golfo da parte degli Emirati uniti. Il tutto, ovviamente non per una presunta superiorità religiosa, ma perché la supremazia in nome di Allah diventi il presupposto per avere mano libera nella gestione del petrolio arabo, sia all'interno dell'OPEC, sia come strumento di pressione sugli altri mercati del greggio. E senza una enorme massa di petrodollari che si trasformano in armi sofisticate, il prestigioso ruolo di leader nel campo arabo sunnita sarebbe soltanto una vana speranza.

Sempre gli Usa hanno venduto armi e fornito copertura politica ai talebani in Afghanistan negli anni Ottanta, anche se poi se li sono ritrovati contro, il che ha mandato in fumo il primo grande progetto di pipeline che, dalle ex repubbliche sovietiche dell'Asia, avrebbe dovuto portare il petrolio in Europa e in Usa senza passare dai territori russi e iraniani. Con le armi hanno inventato Al Qaeda e poi l'ISIS. Hanno finanziato e armato in Siria tutte le opposizioni al governo di Assad, anche quelle jihadiste, concorrendo a rendere sempre più efficace la fabbrica della morte che ogni guerra mette in movimento. Senza parlare delle due guerre contro l'Iraq e le probabili interferenze politiche e militari nei nuovi governi dell'America latina.

La Russia, altro contendente imperialistico di primo piano, vende armi alla Turchia, sia per un interesse economico immediato, sia nella speranza di rinsaldare l'accordo per la costruzione, peraltro già in atto, del Turkish Stream che, da un lato, rafforza il già potente apparato militare di Erdogan, e dall'altro consente alla Russia di rafforzare la sua presenza economica e militare nel Mediterraneo. Specularmente agli Usa, in un conflitto indiretto ma molto intenso, ha sorretto militarmente con armi e uomini il governo di Assad, garantendosi così la permanenza delle proprie navi militari nel Mediterraneo con i porti siriani di Tartus e Latakia.

Le armi russe arrivano a sostenere l'esercito degli Ayatollah in Iran, i ribelli sciiti nella guerra civile dello Yemen. Sono una componente determinante per l'Esercito Nazionale Libico di Haftar nella sua lotta contro il regime di Serraj. Sul territorio sono presenti un centinaio di mercenari russi che, sotto il nome di “gruppo Wagner”, agiscono come milizia da combattimento, come reparto di supporto alle forze di Haftar e da consiglio militare. Questo per rimanere nella realtà dei fatti contemporanei.

Francia, Usa e Cina si contendono nella fascia del Sahel la supremazia nello sfruttamento delle risorse naturale del Ciad, Niger, Mali sino al Sud Sudan. Sfruttamento che va dal petrolio alle “terre rare”, dai minerali al gas. La Francia ha un esercito permanente in quest'area, finanzia e arma i governi compiacenti e corrotti mentre combatte le forze ribelli. Al contrario, quando è il caso, finanzia ed arma i ribelli che si fanno strumento dell'imperialismo francese, pensando di portare a compimento il loro piano di potere economico e politico, anche se pesantemente condizionato da chi le armi le fornisce. Per il momento, la presenza Usa è prevalentemente in funzione anti cinese, anche se non disdegna di lasciare nelle zone più strategiche i suoi consulenti militari.

La Cina per il momento si limita nel Sahel a corrompere i governi dei paesi più interessanti da un punto di vista dei suoi interessi di sfruttamento imperialistico (soft power), senza peraltro lesinare armi e finanziamenti per infrastrutture civili e militari. Sono questi i classici strumenti di pressione che arrivano, per via diretta, alla luce del sole o indiretta tramite canali non ufficiali, la cui pratica deve rimanere nell'ombra. Ben altri canali vengono usati nel Sahel da Francia e Usa con il solito collaudato metodo: contro i jihadisti se ostacolano i loro piani, con i jihadisti se gli obiettivi contingenti coincidono. Non si spiega altrimenti come nei paesi del Sahel, dove la povertà e la mancanza di strutture sono endemiche da decenni, ci siano bande armate sino ai denti che combattono da anni contro i regimi indigeni senza mai rimanere sprovvisti di armi, la cui provenienza è nota anche ai ragazzini. E' così che organizzazioni che operano in quella zona come Al Qaeda (Nigeria), Hayat Tahrir al Cham che ne è una sua costola, Swap altra costola qaedista che combatte in Nigeria, o come Boko Haram e altre fazioni che si riferiscono all'Isis, come gli al Shabbab in Somalia e altre strutture militari possono, nella miseria generale dei loro paesi, godere di forniture militari milionarie, in grado di allestire eserciti altamente competitivi. Ma dello stesso discorso vale il suo rovescio. Quando i governi degli stati in questione si rifiutano di essere sfruttati, o solamente non si mettono d'accordo con il “neo colonialismo” di Francia e Usa, le armi cessano di arrivare e quelle che arrivano vanno a rafforzare le fazioni jihadiste, prima definite terroriste, contro i governi reticenti.

Per la Cina vale però anche un altro discorso. Il “suo” giardino di casa da coltivare è quello asiatico e lì va a finire il 90% delle sue esportazioni militari. E' dal 2013 che Pechino è il quarto esportatore di armi per una quota di 25 miliardi di dollari all'anno. Esporta in Arabia saudita per 8 miliardi di dollari in aperta concorrenza con le esportazioni americane, anche se quelle di Washington sono ben più consistenti sul piano quantitativo e qualitativo. Esporta, sempre i concorrenza con gli Usa, anche in Iraq e negli Emirati. Nell'estremo oriente i suoi clienti sono il Pakistan, per 5 miliardi di dollari (missili balistici e i Cai-omg che sono dei droni armati di ultimo modello e sottomarini nucleari). La lista delle esportazioni continua con il Myanmar, la Thailandia, il Bangladesh e lo Sri Lanka. Va da sé che chi vende armi pretenda almeno un allineamento tattico, se non una sudditanza politica, come si confà a qualsiasi potenza imperialistica “degna” di questo nome.

Per quanto riguarda la Gran Bretagna, da sempre grande esportatore di armi, anche se oggi in leggera flessione, mantiene una serie di “clienti” in Medio oriente: la solita Arabia saudita che compra tutto da tutti. In questo caso le forniture inglesi riguardano le bombe a grappolo che Riad usa nello Yemen contro gli houti. Il che ha creato problemi al governo di Londra, che ha dovuto rinunciare alla vendita di queste armi “illegali”. In compenso continua ad esportare verso Riad per il 23% del suo import, secondo solo a quello americano. Ottimo cliente, anche se di armi leggere, è il Messico, sia per le forniture del suo esercito che per le agguerrite bande di narcotrafficanti. Nel periodo 2013-2016 ha venduto in Messico armi per 446 milioni di sterline. Poi, in ordine sparso, le esportazioni vanno verso il Medio oriente, l'India e Australia.

In conclusione, le fabbriche di morte che le potenze imperialistiche producono per i propri fabbisogni bellici o per vendere a paesi alleati, o ancora, a formazioni che loro stesse definiscono, a seconda delle convenienze, terroristiche o lealiste, viaggiano a ritmi crescenti. In mezzo ad una crisi di sistema che nel mondo capitalistico avanzato ha fatto chiudere milioni di fabbriche e di piccole imprese, con qualche centinaio di milioni di disoccupati, di diseredati che vivono sotto la soglia di povertà, l'unico settore che tira è quello della produzione e vendita di armi. Quelle stesse armi che gli imperialismi impugnano per combattere ferocemente le loro guerre di rapina e di distruzione quali mezzi di sopravvivenza del decadente sistema economico che difendono e arrogantemente rappresentano.

Non c'è guerra senza armi, ma non c'è guerra senza il coinvolgimento del proletariato internazionale che con quelle armi combatte per gli interessi dell'avversario di classe. Sono tutte guerre combattute dagli sfruttati per consentire ai gestori del capitale la continuazione della sua valorizzazione, ovvero la continuazione dello sfruttamento di quegli stessi proletari nei confronti dei quali le malsane ideologie nazionalistiche o religiose riescono ancora ad essere efficaci sul terreno del loro suicidio sociale. Ma è giunta l'ora di fare in modo che quelle stesse armi vengano puntate dai proletari non contro i propri simili in una sorta di guerra fratricida, ma contro chi fa delle armi e delle guerre l'unica ragione di vita: la propria.

FD, gennaio 2020
Lunedì, January 20, 2020