Imperialismo e lotte sociali in Iran

A metà novembre dell’anno scorso il presidente Hasan Rohani ha annunciato la fine del prezzo calmierato della benzina e il costo del carburante è salito in poco tempo del 50%. Quest’ultimo è stato però solo l’innesco, la situazione di malcontento sociale era già al limite e la benzina più che da combustibile questa volta ha funzionato da miccia: violente manifestazioni di protesta hanno avuto inizio in molte zone del paese.

Ufficialmente la misura era stata giustificata dal regime con la necessità di destinare più fondi alle fasce della popolazione in difficoltà economica (si era in campagna elettorale per il rinnovo del parlamento) ma gli iraniani hanno reagito con cortei di protesta e, in alcune città, vere e proprie rivolte, mettendo in discussione non più l’una o l’altra fazione, questo o quel provvedimento, ma l’intero sistema di potere della Repubblica islamica.

Il governo ha reagito con rabbia, oscurando completamente internet per almeno una settimana e dando l’avvio ad una repressione brutale. La macabra contabilità dei morti, dei feriti e degli arrestati è quantomai incerta per evidenti motivi, le stime variano da 300 a 1500 manifestanti uccisi – in molti casi si è sparato letteralmente sulla folla – mentre si parla di 8-10 mila feriti e altrettanti arrestati.

Dopo la repressione il malcontento non si è spento, ma è rimasto ben vivo sotto la cenere. Il regime ha potuto sfruttare per un momento l’uccisione di Soleimani per distrarre l’attenzione verso il “nemico esterno”, ma tale diversivo è durato poco, la rabbia è riapparsa non appena si è saputo che un aereo di linea, i cui passeggeri erano quasi tutti iraniani o iraniano-canadesi tornati a casa per le festività, era stato abbattuto per errore dalla contraerea iraniana, mentre per giorni il governo aveva mentito pubblicamente, negando ogni responsabilità.

In generale la situazione economica in Iran è molto critica, agli effetti della crisi internazionale del capitale si aggiungono quelli delle sanzioni decise dagli Stati Uniti, che hanno fatto diminuire drasticamente le esportazioni di petrolio e quindi le entrate. Non è solo il petrolio però il problema: il particolare assetto di potere all’interno della repubblica islamica ha fatto sì che molte attività economiche siano finite in mano ai pasdaran del regime, i quali ne usufruiscono come rendita di posizione, tenendo in piedi apparati produttivi inefficienti e con un tasso di corruzione molto alto; spesso agli impieghi pubblici si accede non per merito ma per fedeltà al regime, ci sono poi mafie economiche in quasi tutti i settori, specialmente in quelli che si basano sui monopoli. Come in molte aree del mondo nelle quali si sono verificate rivolte, la corruttela dell’apparato statale va di pari passo con la speculazione, è uno dei dati caratterizzanti questo lungo incubo chiamato crisi. La disoccupazione, soprattutto giovanile, è alta e pure l’inflazione cresce1. Un terzo degli iraniani vive sotto la soglia della povertà e per colmo di malasorte essi sono anche costretti a sopportare la quotidiana vessazione di un regime capitalistico/religioso che assomma all’oppressione economica quella sulla vita sociale e sui costumi, in modo particolare delle donne.

Se però sul fronte interno il regime è in grave difficoltà, anche per merito della lotta e del sacrificio del proletariato iraniano, sul fronte imperialistico ha invece conseguito negli ultimi anni dei successi significativi. A partire dal 2003, da quando cioè gli Stati Uniti hanno invaso per la seconda volta l’Iraq, facendo saltare questa volta il principale ostacolo all’espansionismo della repubblica teocratica, l’Iran è riuscita poco alla volta a stabilire delle teste di ponte in molti paesi, cosa che gli ha garantito una crescente influenza a livello regionale: nello stesso Iraq, in Libano, in Siria, nello Yemen, in Palestina sono presenti partiti e/o organizzazioni paramilitari che ne difendono gli interessi. E’ stata proprio questa crescente influenza, ottenuta grazie ad un’abile strategia basata su finanziamenti, addestramento militare, appoggio logistico-organizzativo, fornitura di armi, con tutto il collante dell’ideologia religiosa sciita, a permettere questi risultati in politica estera. In un contesto in cui sulla carta dal punto di vista militare il paese sarebbe in inferiorità rispetto ai principali concorrenti dell’area, Arabia Saudita e Israele, l’Iran con questa strategia che viene detta di guerra “asimmetrica” è arrivata a creare problemi sempre maggiori agli stessi Stati Uniti, che dopo essere stati esautorati dalla Siria, stanno avendo ora grossi problemi anche in Iraq, dove faticano a gestire la situazione con il solo ricorso a quello che tradizionalmente viene detto “soft power”.La stessa difficoltà la trovano in Afghanistan e nello Yemen, dove l'Iran appoggia i guerriglieri Houti.

Per questo negli slogan delle manifestazioni di protesta, in particolare da parte di lavoratori e disoccupati iraniani, è risuonato spesso il leitmotiv “Non a Gaza, non al Libano, non alla Siria: la mia vita per l’Iran” che - al netto degli accenti nazionalistici – palesa la frustrazione e la rabbia dei proletari nel veder dirottate le magre risorse del proprio paese per perseguire i disegni di egemonia di una borghesia che alla giacca e alla cravatta ha preferito il turbante. Soprattutto, questa situazione rende evidenti, almeno secondo il nostro punto di vista, quelle che sarebbero le condizioni oggettive per un’alleanza internazionalista dei lavoratori dell’area, contro le rispettive borghesie.

E’ probabile infatti che il nuovo coraggio sia stato trasmesso ai proletari iraniani - reduci dall’ondata di scioperi repressa nello stesso periodo dell’anno scorso2 - dalla notizia delle proteste che si sviluppavano in Libano e Iraq: due dei paesi appartenenti alla sfera d’influenza della repubblica teocratica. Anche lì le proteste avanzavano rivendicazioni simili.

In quello che alcuni osservatori3 hanno definito, forse esagerando, un nuovo capitolo della primavera araba, la nota positiva - ma non sappiamo quanto la tendenza sia destinata a durare - è che i giovani, che sono la maggioranza della popolazione, usando internet e i social media per informarsi, sembrano riuscire ad emanciparsi più che in passato dalle appartenenze religiose e soprattutto chiedono ai rispettivi governi di svincolarsi dalla mefitica influenza dei partiti filo iraniani (e nel caso dell’Iraq pure dalla presenza USA).

Si dà per inteso che se l’obiettivo è sottrarsi all’influenza di una borghesia reazionaria come quella iraniana, per poi finire sotto quella altrettanto oscurantista dell’Arabia Saudita o della Turchia, per non parlare delle vecchie volpi USA e Israele, i cui misfatti da queste parti sono anche troppo noti, non si sarebbe fatto un gran passo avanti.

L’unica strada che porterebbe alla reale emancipazione del proletariato mediorientale, non meno che a quella del resto del mondo, è quella che vede la sua liberazione dal dominio ogni giorno più disumano e anacronistico delle borghesie nazionali e la loro sostituzione con repubbliche dei Consigli, governate cioè da organismi dei lavoratori e per i lavoratori: la strada da fare in questo senso è ancora lunga, per questo i rivoluzionari devono attivarsi fin da adesso.

1Six charts that show how hard US sanctions have hit Iran. Reperibile al sito bbc.com, consultato il 29 febbraio 2020

2Si vedano su questo gli articoli dei compagni inglesi sul nostro sito leftcom.org: 1) The crisis and the rise of workers’ militancy in Iran. 2) Iran: workers' strikes and protests continue. 3) Workers' strikes in Iran: this time it is different

3Eugenio Dacrema. Dal Libano all’Iraq: è iniziata un’altra primavera araba. 07 novembre 2019. Reperibile al sito ispionline.it

Martedì, March 3, 2020

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.