Letture critiche del “capital-socialismo” cinese

Fra i sostenitori delle “conquiste socialiste” attribuite alla Repubblica Popolare Cinese, circola anche la favola che attribuisce a Pechino una linea strategica tale da giustificare la sua discesa su un terreno in apparenza impostole dalla borghesia stessa. O meglio – specifichiamo noi – costretta dal modo di produzione (e distribuzione) che domina anche in Cina. Qualcuno ci racconta invece che Pechino avrebbe fatto una scelta in grado di farla entrare, sì, nel vivo della fase di globalizzazione del capitalismo, ma sfruttandola a proprio vantaggio ovvero rafforzando il suo “capital-socialismo”. Una fase che la Cina intenderebbe guidare a scapito del potere imperialista esercitato dalle potenze occidentali. Da qui l’esigenza (socialista?) di acquisire tecnologie e capitali, inseguendo ogni possibilità di stringere relazioni commerciali con chiunque disponga di un portafoglio ben colmo. Una operazione che diventerebbe scontata dal fatto che la Cina, con etichetta “socialista”, ha a propria disposizione prodotti tecnologicamente avanzati e richiesti dal mercato internazionale (si citano i cellulari cinesi “Huawei”).   

Pechino si offre dunque quale importante partner commerciale in grado di fornire “vantaggi reciproci di guadagno”, compreso l’accesso – in casa propria – ad investimenti esteri di grossi quantitativi di capitali. Queste finalità di una “supremazia economica” dal carattere e sostanza pienamente capitalistica-imperialistica, verrebbero poi qualificati come espressioni di «internazionalismo proletario» con obiettivi (testuale!) di «benessere dei popoli». In questa «competizione di forze produttive» vi è compreso (anche se sottaciuto per non “destabilizzare” il momentaneo “ordine mondiale”!) lo “sviluppo militare”. (1) Dunque, un socialismo mercantile che attua la sua penetrazione nel commercio internazionale, oltre che nei mercati finanziari con lo yuan aspirante al ruolo di moneta internazionale di riserva.

In Cina continuerebbe intanto ad aumentare, nelle mani dello Stato, la proprietà pubblica delle grandi imprese, e così si spaccia quella imperante nel paese come una originale “economia mista”, dove il “socialismo” avanzerebbe col 60% delle azioni nel portafoglio dei governanti stabilitisi a Pechino, il 30% in quello dei privati e il 10% agli “stranieri”. Lo Stato (e quindi il “popolo”…) figura come principale “imprenditore” e agente di quella che sarebbe la “socializzazione degli investimenti di capitale”, accompagnando una inarrestabile crescita quantitativa del settore privato. Il tutto viene presentato come «ancorato alla grande proprietà socialista». (Così scrivono Gabriele e Jabbour (2), due “esperti” economisti ai quali dobbiamo parte dei dati e dei “giudizi” qui riportati.)

Differente la situazione nelle campagne, dove la terra non sarebbe stata privatizzata: è di proprietà dello Stato e gli agricoltori non sono salariati, ma in generale sono lavoratori autonomi in una “piccola produzione di mercato".

Spiegando quella che sarebbe la «essenza del modello di mercato socialista cinese», ci viene poi narrato che – per esempio – riguardo ai prezzi delle merci offerte a chi fosse in grado di acquistarle, la cosiddetta «pianificazione compatibile con il mercato» non li potrebbe fissare, magari in ribasso, avendo – si dice – altri «obiettivi strategici chiave, come la promozione degli investimenti e dell'accumulazione di capitale» attraverso soprattutto «l'innovazione e il progresso tecnico». I prezzi devono rigorosamente coprire i costi di produzione delle merci e assicurare un giusto profitto al capitale investito sia pubblico sia privato. Questo il pensiero degli “esperti”...

Sfogliando l’Annuario statistico della Cina (AEC), apprendiamo anche la varietà delle società industriali presenti in Cina. Sono incluse società statali, collettive, cooperative, società private e a responsabilità limitata (SRL), partecipazioni industriali (HI) e società private (EP). A questi gruppi di «società capitaliste in Cina» (testuale), si aggiungono diversi sottogruppi: “Private (totalmente), Private Companies, Private Limited Companies (ESAP), Private SRLs, Private Industrial Participating Companies (SPIP) e altre”. Tutte appartengono al «settore privato nazionale», mentre prosegue il processo, spacciato come una «strategia di sviluppo economico socialista», consistente – sono sempre gli “esperti” ad affermarlo – in una «corporatizzazione» che dovrebbe «ostacolare l'evoluzione dei diritti di proprietà».

Evidentemente noi non comprenderemmo che anche le «joint venture sono controllate indirettamente dallo Stato», e quindi tutto camminerebbe verso il completamento di una «economia socialista»...    dove le imprese sono «concettualmente società non capitaliste (anche se finanziate dagli investimenti diretti esteri, IDE – ndr), perché controllate indirettamente dallo Stato»! Il quale, naturalmente, rappresenta il popolo e non il capitale. Così si dice.

In questo falsificato quadro etichettato come “socialista”, si evidenzia comunque anche il grado di capitalizzazione delle società industriali definite “non capitaliste” solo perché non finanziate direttamente dagli IDE provenienti dall’estero, oppure dichiarate pubbliche se versano i loro profitti alle casse statali! “Elogiato” è però il livello medio di produttività delle imprese “private”: viene definito    «salutare». Lo si deve – ammettono i commentatori dei “miracoli cinesi” – al più alto rapporto capitale/lavoro in confronto a quello delle società controllate direttamente dallo Stato: queste – altra ammissione! – hanno «l'onere strategico di portare l'accumulazione di capitale della Cina oltre i limiti che un ambiente capitalista comune dovrebbe affrontare. Per dover portare questa croce per il bene di tutto il Paese, le aziende controllate direttamente dallo Stato pagano un prezzo…”. Il quale- il commento è nostro – viene scaricato, direttamente e indirettamente, sulle spalle delle masse proletarie.

Apprendiamo infine – sempre dai due “esperti” – che le joint venture, anche se controllate indirettamente dallo Stato, perseguono liberamente «obiettivi orientati al mercato». E ancora, grazie alla loro alta «produttività del lavoro», hanno prestazioni più che ottime in termini di redditività! (Pur non “massimizzando” – ci dicono – il loro profitto!). Sono tutte, comunque, aziende in perfetta regola coi rapporti di produzione capitalistici e quindi partecipano nell’alimentare quelle disuguaglianze e quel degrado ambientale che si vanno diffondendo in Cina, al pari di quanto accade in ogni paese e società capitalista.

La «disuguaglianza nei redditi» viene ritenuta, dal governo di Pechino, necessaria

«per raggiungere gradualmente la prosperità comune» e quindi deve essere «tollerata». E sapete con quale giustificazione? Quella di «incentivare rapporti di produzione avanzati». Parole di Deng (3) alla fine degli anni Settanta. E’ stata poi la volta di Xi Jinping (2017) a chiarire che solo «con lo sviluppo economico e gli aumenti salariali in collegamento con aumenti della produttività del lavoro, vedremo i redditi individuali crescere di pari passo. Per questo amplieremo i canali affinché le persone possano realizzare guadagni basati sul lavoro e redditi da capitale». Salari ai proletari e profitti al capitale! In perfetta coerenza con la forte tradizione meritocratica cinese che ha sempre riservato ai vari funzionari congrui vantaggi e privilegi rispetto alle masse immiserite. Bene quindi questo trovarsi perfettamente “armonizzati” con le disparità economiche che sopravvivono anche nella società del “social-capitalismo” cinese. Dopo tutto, la produzione di merci ha da essere incentivata e gli eccessi di egualitarismo sono… disincentivanti!

D’altra parte, il divario – ancora presente ed anzi crescente – tra le zone costiere, in cui fioriscono attività produttive e commerciali, e le vaste regioni dell'entroterra occidentale (ancora immerse nella povertà), sta spingendo gli stessi governanti cinesi (e in particolare la scuola quadri del PCC) a puntare su un “armonico” bilanciamento dei differenti “redditi”, controllando che almeno tali differenze non si amplino esageratamente. Oggi la manodopera richiesta nelle zone urbane deve essere qualificata e arriva fino ad un salario mensile netto di circa 575 dollari; un “reddito” come minimo al doppio di quello di un lavoratore agricolo, il che spiega la forte migrazione avutasi negli ultimi tempi.

Se prendiamo gli abitanti delle città, in Cina, essi figurano con un reddito superiore di tre volte quello di un lavoratore delle campagne. In verità, ciò che spesso si può constatare tra quello che guadagna un lavoratore di Shanghai a confronto con un contadino del Guangxi, è una differenza abissale. Ma se poi si guarda a quelli che si continua a chiamare “redditi” dei lavoratori urbani, si vedrà come le stratificazioni sociali si vadano ampliando fra gli stessi lavoratori.

Comincia poi a farsi stridente il contrasto con quei “redditi”, oltretutto visibilmente esibiti, di cui godono gli appartenenti ad un ristretto “ceto sociale” (cosi definito…).    Stiamo accennando a quella minima parte della popolazione cinese che accumula miliardi di yuan di ricchezza personale. Questo mentre decine e decine di milioni di altri “cittadini” cinesi sopravvivono addirittura con 2 dollari al giorno. Nel frattempo la propaganda cinese attribuisce le disuguaglianze sociali alle forti differenze regionali e a quelle “inter-gruppo”. E vanta la diminuzione di una povertà certamente atavica, ma ancora presente in particolare nelle zone rurali e riservata a centinaia di milioni di persone costrette ad attendere i risultati    di una produzione capitalistica di merci spacciata per il “socialismo che avanza con caratteri cinesi”…

Sempre riguardo alle condizioni del proletariato cinese, c’è un’altra differenza che si fa notare: quella con i lavoratori delle aziende statali i quali – già nei primi tempi – godevano stipendi doppi se non tripli ai “redditi” delle comuni rurali, e in più – specie ai più alti livelli – notevoli vantaggi indiretti. E fra i quadri dirigenti cominciava a dilagare una corruzione che oggi si va diffondendo un po’ dovunque, funzionari del governo di Pechino compresi. I quali reclamano – come impellente necessità – quella che le «strutture di consumo del popolo» si adattino ai “bisogni” del capitale, seguendo i migliori esempi delle società borghesi “avanzate”: la casa, l’automobile, il turismo, ecc.; insomma, i «nuovi punti caldi del consumo»…. E c’è un obiettivo che sta diventando l’assillo per ogni paese dominato dal capitale: la “crescita”. Avanti, quindi, con la produzione per la produzione: di merci, s’intende, affinché con la massima dinamicità si sviluppi il capitale, il lavoro salariato, la proprietà mobiliare e immobiliare, l'industria, il commercio, la finanza. Condizioni essenziali – secondo Pechino – per nuovi… rapporti umani!

(1) Secondo il Ministero della Difesa cinese, le forze armate apparterrebbero al popolo per servirlo in una strategia militare di “difesa attiva” della sovranità e integrità territoriale della Cina. Con un arsenale di 200 testate nucleari (previsto il raddoppio fra una decina d’anni) si guarda agli Usa che avrebbero (ad oggi) circa 3.800 testate nucleari. Ma la Cina è già davanti agli Stati Uniti in alcuni settori della cosiddetta difesa, tra cui la costruzione navale, i missili balistici e da crociera convenzionali e i sistemi di difesa aerea integrati. Da un recente rapporto del Pentagono, si apprende che la spesa militare cinese è raddoppiata negli ultimi dieci anni. Ha ormai raggiunto i 200 miliardi di dollari (gli Usa sono ad oltre 685 miliardi di dollari…). Pechino dispone già del più grande esercito e marina permanente del mondo (350 navi e 2 milioni di forze regolari). Dispone anche di una delle forze più grandi al mondo di sistemi terra-aria avanzati a lungo raggio.

(2) Alberto Gabriele, ex economista dell'UNCTAD – Elias Jabbour, professore di Relazioni internazionali ed economia all’Università statale di Rio de Janeiro – UERJ.

(3) Lo slogan di Deng Xiaoping: «Diventare ricchi è glorioso», andava preso alla lettera, semplicemente chiedendo più ricchezza.

Giovedì, November 19, 2020