Finita l’era Trump inizia quella Biden

Il recente cambio alla Casa Bianca non porterà a grandi modificazioni nella politica americana. Il moderato Byden sarà costretto, in termini di politica interna, a concedere qualcosa pur di mantenere quieto il suo elettorato, ma in politica estera ben poco di nuovo sarà prodotto dal neo presidente democratico.

Il vecchio e arrogante inquilino della Casa Bianca ha dovuto fare le valige e andarsene a giocare a golf in qualche sua residenza privata sull’oceano Atlantico. Trasloco non voluto, nemmeno immaginato da una personalità disturbata da un ego abnorme, che solo i testi di psichiatria potrebbero descrivere. Sul terreno politico la sua sconfitta lascerà tracce indelebili per molti anni, certamente per quelli della nuova Amministrazione che si trovano tra le mani una valanga di problemi, da quelli economici a quelli sociali e ambientali, con un paese separato in due parti ferocemente divise.

Trump prima di andarsene ha minacciato tutto e tutti, compresi i 4/5 del suo partito, di fondarne uno nuovo, tutto suo, chiamando a raccolta la feccia più violenta dei suoi seguaci, gli stessi che, armi in pugno, hanno dato l’assalto al Campidoglio gettando nello sgomento le “anime belle” della borghesia democratica, e non solo. “Anime belle” che mai si sarebbero aspettate una simile situazione non avendo capito nulla della personalità politica del Tycoon e della violenta determinazione dei suoi reazionari seguaci, che in lui hanno sempre visto il “duce”, il difensore degli interessi americani contro tutti gli altri paesi e che li avrebbe condotti per mano fuori da questa crisi. Né, tanto meno, hanno capito la gravità della crisi e del pesante malessere che sta colpendo la società americana. Ecco che allora il vinto Trump riesce a mantenere la sua immagine di “duce” dei ricchi, degli arrivati, dei self made men, di una parte della piccola borghesia terrorizzata di finire nel girone più basso dell’inferno sociale. Il “duce” contro la marea sempre crescente dei poveri, anche se a parole in campagna elettorale è riuscito a convincerne una buona fetta. Sempre a favore dei bianchi contro i neri, degli americani “doc” contro gli immigrati. Il tutto gli garantirebbe, secondo le sue proiezioni personali, di costituire un nuovo partito, quello dei “patrioti”, che gli consentirebbe di lavare l’onta della sconfitta e di ripresentarsi alle prossime elezioni più agguerrito che mai. Oltre a questo ha lasciato in eredità a Biden e al partito democratico un disastro economico e sociale impressionante, solo in parte imputabile alla crisi da Covid. L'ex presidente “smascherato” dopo aver licenziato tutti i suoi collaboratori, da lui stesso nominati, e minacciando della stessa sanzione persino il virologo Fauci, perché non allineati alle sue altalenanti paranoie, si è prodigato a versare miliardi di dollari alla grande borghesia industriale, a quella finanziaria, mimando appena quanto promesso in campagna elettorale per risolvere i problemi dei meno abbienti, dei lavoratori dipendenti e dei disoccupati. In compenso ha smantellato quel poco di copertura sanitaria che Obama aveva introdotto, reintroducendo il principio che, in caso di gravi malattie, ha la possibilità di accedere alle cure solo chi ha i soldi per curarsi, per gli altri c’è solo sofferenza e morte. Non a caso degli oltre 400 mila morti per Covid, il 70% appartiene alle classi più diseredate e alla popolazione di colore. Ha inoltre lasciato in eredità 9 milioni di disoccupati in più di quelli che già c’erano, senza aver messo in atto nemmeno un minimo di tutele sociali se non quelle che già esistevano prima della crisi. Non a causa sua, perché il trend negativo era già in atto da anni, ma con una buona parte di responsabilità, ha contribuito a rendere la società americana la più indebitata al mondo. Secondo il Finalcial Time, alla fine del 2020 il debito complessivo (statale, imprese, famiglie e studenti universitari) ha raggiunto la cifra storica di 253 mila miliardi di dollari, per non parlare del crollo della bilancia dei pagamenti con l’estero che, nonostante i dazi doganali messi a copertura del debole mercato interno, ha raggiunto vertici insostenibili. La pauperizzazione sociale è aumentata enormemente mentre i miliardari si sono ulteriormente arricchiti e, non da ultimo, ha tolto il disturbo lasciando un paese sull’orlo della guerra civile.

Per Biden questa pesante eredità resterà tale semplicemente perché i mezzi finanziari non sono sufficienti a rimettere in piedi una sanità decente, a dare lavoro ad una massa di disoccupati così elevata e destinata a crescere. Perché nella più grande crisi nella storia del capitalismo recente le prime cure devono necessariamente andare alle ferite subite dal capitale industriale e da quello bancario - che dal 2008 non si sono completamente rimarginate, nonostante i cospicui sussidi statali, perché non incancrenissero completamente il sistema economico-finanziario - continuando così la politica di Trump. Ciò non toglie che il neo presidente qualcosa debba fare per non perdere la faccia. Metterà mano ad una mini riforma della sanità che dia l’impressione di un grande cambiamento ma che in realtà lascerà le cose, se non come prima, di poco migliorate. Già Obama aveva dovuto ridimensionare, e non poco, il suo progetto di dare alla sanità una dimensione popolare, per l’insuperabile pressione delle Assicurazioni che dominano il mercato sanitario, dai pronto soccorso alle sale operatorie, dagli acquisti delle siringhe al materiale sanitario altamente tecnologico. Si prodigherà in una vasta campagna contro la dilagante pandemia a dimostrazione della criminale inettitudine del suo predecessore. Introdurrà “pro tempore” una sorta di Cassa Integrazione e per i più diseredati un salario minimo. Qualche spicciolo residuo per l’assistenza sociale (dormitori e mense), che da sempre sono nati e gestiti da Associazioni private. Altro non c’è nell’agenda reale in rapporto a quel molto della fantomatica agenda confezionata ad uso e consumo della prima fase post elettorale.

In termini di politica estera le cose sono ancora più complesse. In primis l’Amministrazione Biden tenterà di uscire dall’isolamento internazionale in cui Trump ha collocato gli Usa. Come prima mossa cercherà di ricucire gli strappi con l’Europa, di ridare un ruolo alla Nato sotto l’egida degli Usa e di riprendere, ma a pesanti condizioni, i negoziati con l’Iran sulla controversa questione nucleare. Ha già formulato la promessa di rientrare nel progetto di “salvaguardia dell’ambiente”, con tanto di investimenti domestici nella “green economy”. Buoni progetti, ma tutti da verificare con le impellenti necessità del capitalismo tradizionale chiuso come non mai nella morsa della crisi.

Per il resto il programma di politica estera non si discosterà da quello di Trump se non nella forma. Secondo le dichiarazioni rilasciate il giorno prima dell’insediamento ufficiale di Biden alla Casa Bianca da Anthony Blinken, nuovo capo della diplomazia americana e proposto dal neo presidente alla carica di segretario di Stato, gli atteggiamenti americani verso i maggiori problemi di politica internazionale dovrebbero rimanere gli stessi senza, si dice, l’arroganza e l'unilateralità del precedente gestore degli interessi imperialistici americani.

Anthony Blinken ha esordito criticando il duo Trump-Pompeo non per quello che hanno fatto in termini di politica estera, ma per i modi rozzi con i quali lo hanno fatto, mettendo gli Usa in una posizione critica nei confronti dei tradizionali alleati della Nato e dell'Europa. Per cui la “nuova” gestione dovrà essere più attenta al “come fare” che al “fare”, perché quest’ultimo rimane rigorosamente lo stesso. Per il nuovo capo della diplomazia americana occorre riallacciare i fili spezzati da Trump, in termini di alleanze strategiche, per ridare un ruolo egemone agli interessi americani senza irritare la suscettibilità degli alleati. Non più unilateralità ma “collaborazione” è il nuovo slogan. Si cambiano tatticamente le formalità per mantenere gli stessi contenuti strategici.

Ciò premesso, il portavoce del presidente Biden si è ufficialmente espresso nel Senato americano a favore dell’uccisione del generale iraniano Soleimani colpito l’anno scorso da un drone americano a Baghdad. Soleimani era uno dei maggiori esponenti militari di Teheran, capo delle forze speciali al Quds. Giustificare il suo omicidio ha significato avallare la politica imperialista americana contro l’Iran anche nelle forme più efferate. Come dire che, se ci sarà un’apertura nella ripresa del dialogo con la repubblica degli ayatollah, avverrà su ben altri binari di quelli precedentemente percorsi dalla diplomazia americana.

Per quanto riguarda il Medio Oriente tutto rimarrà come la strategia di Trump ha voluto, disegnato e sancito nei fatti. Gerusalemme rimarrà la capitale di Israele. Gli insediamenti dei coloni in Cisgiordania continueranno indisturbati e con l’avallo del governo americano. Mentre il vecchio progetto dei due popoli e due Stati è scomparso dalle agende della Casa Bianca. Il che sta ha significare che, anche per la nuova Gestione degli USA, la via più sicura dell’imperialismo americano, in una delle zone più calde del Mediterraneo, passa dell'incondizionato appoggio ad Israele, in chiave anti-russa e anti-iraniana e di disturbo al regime filo russo di Bashar el Assad.

Anche sul delicato problema “Cina”, quello di gran lunga più importante, gli atteggiamenti non sono cambiati né cambieranno. Nella stesso pronunciamento al Senato, Blinken ha fortemente sottolineato che “sulla Cina Donald Trump ha avuto spesso ragione”. La continuità tra le due Amministrazioni è più che evidente, cementata dai medesimi problemi di egemonia imperialista che le due potenze interpretano nei quattro angoli del mondo. La Cina ha da tempo conquistato il mercato mondiale dei beni di consumo a basso costo. Ora si propone come “competitor” anche sul terreno dell’alta tecnologia. Detiene quota parte rilevante del debito pubblico americano. Xi Jinping ha osato sfidare gli Usa sul mercato internazionale delle valute pretendendo non più dollari, ma yuan per il pagamento delle sue esportazioni. In aggiunta c’è lo scontro nel Mare Cinese per l’annosa controversia sull’isola di Taiwan e per le via di commercializzazione navale tra la Cina e il resto del mondo. Il progetto cinese di costruire la “via della seta”, ovvero un canale economico e finanziario ad “alta velocità”, che da Pechino deve arrivare in Europa e nell’Africa del nord per poi collegarsi con l’Africa centrale, soppiantando la presenza francese ed americana, fa tremare i muri di Washington. Da qui l’inevitabile scontro imperialistico (con tanto di sanzioni contro il governo di Pechino) contrabbandato con la necessità di condannare la Cina per la violazione dei diritti umani contro gli uiguri musulmani dello Xinjiang e a difesa dei manifestanti per l’autonomia di Hong Kong.

Questo per ricordare ai falsi democratici e ai falsi sinistri che l’imperialismo non dipende dalle scelte politiche delle Amministrazioni di turno, come se fosse il frutto estemporaneo di un governo cattivo in sostituzione di uno buono che, nelle stesse condizioni, si sarebbe comportato diversamente, nei contenuti e non solo nelle forme. L’imperialismo e la sua aggressività dipendono dalla necessità di offendere per difendere i propri interessi, dipende dalla profondità delle crisi economiche, dalle insanabili contraddizioni del capitalismo che lo rendono più aggressivo nell’agire mortalmente su tutto e su tutti pur di far sopravvivere il sistema economico che ne è alla base. Non c’è cambiamento di Amministrazione negli Usa, come in qualsiasi altro paese capitalista al mondo, che possa cambiare il nesso indissolubile che lega l’iniquo rapporto tra capitale e forza lavoro da cui originano tutte la contraddizioni del sistema,non ultima l’incombente catastrofe ambientale, imperialismo compreso. Come le crisi sempre più profonde e affamanti. Come le guerre devastanti che ne derivano per risolvere i problemi creati dalle contraddizioni del capitalismo, che si annunciano sempre più tragicamente intense e che metteno i proletari contro altri proletari per interessi che non sono loro ma dell’avversario di classe e che solo la rivoluzione proletaria internazionale, guidata dal suo partito, può cancellare dalla storia.

FD, 23 gennaio 2021
Domenica, January 24, 2021