Introduzione al libro, da noi pubblicato, Il capitalismo è crisi

Il capitalismo è crisi. Considerazioni e verifiche sulla caduta del saggio medio del profitto

Il libro che pubblichiamo è una raccolta di scritti apparsi nel corso degli anni sulla nostra rivista teorica “Prometeo”. Alcuni di essi sono stati rivisti qui e là, al fine di precisare e meglio definire qualche passo che, nella radazione originaria, poteva dare adito – agli occhi di critici più o meno prevenuti – a interpretazioni non del tutto coerenti con la critica marxiana dell'economia politica. Ma gli interventi in tal senso sono stati davvero minimi, anche per i saggi più in là nel tempo, che hanno conservato il loro interesse e la loro efficacia teorico-politica nel mettere a nudo i meccanismi del modo di produzione capitalistico e lo sbocco inevitabile a cui conducono, ossia la crisi, con gli effetti per niente collaterali che essa produce. Effetti sulla classe proletaria, sui rapporti interimperialistici, sull'ambiente, cioè sull'accelerazione impressa alla rapina delle risorse naturali e alle devastazioni che ne conseguono. Effetti drammatici e che promettono di aggravarsi mano a mano che la crisi, al contrario di quanto affermano economisti “di regime” e governanti di ogni colore, non si risolve e detta l'agenda dei governi, di miliardi di esseri umani e del Pianeta in generale.

Il fatto che la crisi imponga alla borghesia le proprie spietate necessità, non significa scadere in un ottuso determinismo, in cui la dialettica delle altre forze materiali – prodotti e agenti dalla e nella società – sia cancellata da un economicismo di matrice secondinternazionalista: al contrario, e gli scritti qui raccolti lo dimostrano. Significa “solo” guardare la realtà così com'è, individuare, auspicabilmente con meno errori possibile, il terreno che esprime il mondo in cui viviamo, determinato – questo sì – dai suoi rapporti di sfruttamento, di dominio e di oppressione. Si tratta di una determinazione storica, cioè prodotta dagli esseri umani collocati appunto in precisi rapporti di classe, che quindi può essere cambiata, fatta saltare per aria con tanta più efficacia quanto più si hanno chiari gli elementi che costituiscono la base materiale della determinazione stessa ossia le leggi del capitale. Leggi sociali, certo, ma pur sempre leggi, che indicano la direzione, dal punto di vista economico, a cui questo sistema di produzione – e conseguentemente di distribuzione – va incontro. Tra queste leggi, il ruolo di protagonista è interpretato da quella che Marx, oltre un secolo e mezzo fa, aveva già individuato chiaramente, benché allora solo in Gran Bretagna e parzialmente in pochi altri paesi, il capitalismo avesse dispiegato le ali: la caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Nel suo “laboratorio” rivoluzionario infatti scriveva:

«Questa è, sotto ogni rispetto, la legge più importante della moderna economia politica e la più essenziale per comprendere i rapporti più difficili. Dal punto di vista storico è la legge più importante. È una legge, che ad onta della sua semplicità, non è stata finora mai compresa e tanto meno espressa consapevolmente» (1).

Questo, la sua scarsa o nulla comprensione, era vero non solo ai tempi in cui Marx affilava le armi della critica rivoluzionaria stendendo i suoi appunti, ma lo è per tutta la storia del movimento operaio e comunista, fino ai nostri giorni, come si vede, per esempio, da uno dei saggi qui radunati. Persino una grande rivoluzionaria come Rosa Luxemburg aveva frainteso aspetti fondamentali della critica marxiana, ritenendo erroneamente che “la legge più importante” cominciasse a operare “catastroficamente” solo in presenza della saturazione dei mercati costituiti da “terze persone” (né capitalisti né operai), cioè mercati extracapitalistici. In pratica, contro l'impostazione di Marx aveva spostato l'origine della crisi dalla produzione alla distribuzione, cioè al consumo. Errore non nuovo e destinato, come vedremo, a lunga vita; ma almeno la Luxemburg partiva da un obiettivo corretto, più che mai condivisibile, vale a dire mostrare come il capitale vada verso il crollo non per fattori esterni, ma per le contraddizioni impresse nel suo codice genetico.

Si potrebbe qui aprire una parentesi sulla discussione, un tempo molto accesa, se in Marx sia presente una visione “crollista” del processo di accumulazione capitalistico, discussione che non ha risvolti accademici – anche se molti intellettuali a questo hanno voluto ridurla – ma direttamente politici, rivoluzionari, purché il “crollo” non venga inteso in termini meccanicisti. Ancora una volta, i fattori economici sono uno dei due aspetti della questione: fondamentali, certo, ma senza l'altro elemento non meno importante, la lotta di classe, il crollo del capitalismo, il superamento della società borghese possono essere sempre rimandati a data da destinarsi. Lenin metteva in guarda sul fatto che, in sé, il capitalismo può sempre avere una via d'uscita, sia essa la guerra imperialista, l'aumento dello sfruttamento operaio o tutte e due le cose insieme. In breve, che senza l'intervento cosciente del proletariato rivoluzionario e della sua avanguardia politica (il partito), la società borghese può tirarsi fuori anche dalle crisi economiche più devastanti a spese del proletariato, dei diseredati e, oggi, dell'ambiente, cioè dei prerequisiti biologici della vita.. Nella nostra epoca, si sta concretamente profilando il rischio che l'incapacità finora dimostrata dalla nostra classe di essere all'altezza dello scontro con una borghesia sempre più aggressiva, porti all'ipotesi quanto mai drammatica della “comune rovina delle classi in lotta”, adombrata da Marx e da Engels nel “Manifesto del Partito Comunista”: la guerra generalizzata e la catastrofe ambientale sono possibilità tutt'altro che campate per aria.

Possibilità, non un destino già segnato, ma che non lo sia dipende appunto dallo svolgimento della lotta di classe, fortemente influenzato, per non dire condizionato, dal modo e dall'intensità con cui si esprimono quelle contraddizioni di cui si è parlato più indietro. In quest'ottica si deve dunque collocare la questione del crollo del capitalismo, sulla scorta di Marx stesso:

«Queste contraddizioni conducono, naturalmente, a esplosioni, cataclismi, crisi, in cui una momentanea sospensione di ogni lavoro e la distruzione di una gran parte del capitale, lo riportano violentemente al punto in cui esso può continuare ad andare avanti impiegando pienamente le sue capacità produttive senza suicidarsi. Inoltre, queste catastrofi regolarmente ricorrenti conducono alla loro ripetizione su più larga scala, e infine al crollo violento del capitale» (2).

Crollo violento, non automatico: da nessuna parte Marx lascia intendere che ci sia un automatismo, anzi, indica con precisione le misure (cioè le controtendenze) messe in atto dalla borghesia per rallentare il più a lungo possibile il cammino obbligato verso l'inceppamento del processo economico-produttivo. Nella sostanza, in più di centocinquant'anni sono le stesse e i saggi di questa raccolta lo documentano, seguendo sistematicamente l'andamento della crisi, apertasi nei primi anni '70 con la fine del più intenso ciclo di “prosperità” economica della storia del capitalismo, incominciato dopo la seconda guerra mondiale. Non una di quelle misure individuate da Marx (3) è stata trascurata dai rappresentanti del capitale e dai loro “commessi”, vale a dire dai governi che, a dispetto del nome impresso alla fase attuale, cioè “neoliberismo”, hanno continuato come prima a “intromettersi” nella gestione dell'economia, seppure con modalità diverse rispetto alla fase “statalista”.

style="position: absolute; top: 0cm; left: 0cm" Tra queste “intromissioni”, per arrestare o contrastare la caduta del saggio di profitto, c'è la soppressione o il deciso ridimensionamento delle «detrazioni sul profitto, per esempio attraverso la riduzione delle imposte» (4). L'abbassamento delle imposte è infatti un cavallo di battaglia, per non dire IL cavallo di battaglia, di tanta parte del politicantume borghese, cavalcato da destra e da sinistra, in quanto fonte di consenso elettorale, a volte decisiva. Naturalmente, la riduzione delle tasse viene presentata come una misura di giustizia sociale che avvantaggerebbe prima di tutto il ceto medio-basso e, alleggerendo il carico fiscale sulle imprese, permetterebbe loro di spiccare il volo verso i cieli azzurri della crescita economica. Nonostante i fatti concreti abbiano sistematicamente smontato questa cinica barzelletta, il personale politico borghese continua a riproporla a un pubblico elettorale il cui disorientamento è pari alla rabbia e alla paura (impotenti) prodotte da una crisi che non passa. Da quando si è incagliato il lungo ciclo del secondo dopoguerra, i governi di ogni colore si sono applicati con scrupolo nell'abbassamento dell'imposizione fiscale sul capitale e sulla borghesia in genere, in particolare, va da sé, sugli strati superiori, anche se in questa pratica forse si distingue, se non altro per protervia, l'ala più becera, detta sovranista. Il suo campione attuale, Trump, ha calato drasticamente le tasse alle imprese, gettando anche quattro spiccioli al “popolo” (cioè agli strati sociali più bassi) per confondere le acque. Si tratta, però, di una mancia temporanea, pagata a caro prezzo con nuovi tagli al poco welfare che resta e il picconamento dei deboli argini alla devastazione dell'ambiente innalzati in epoche precedenti. In fin dei conti, anche quelli costituiscono un laccio agli “spiriti animali” del capitale, un freno a quella crescita (infelice) che si rifiuta ostinatamente di andare in scena, nonostante i continui aiuti offerti dagli stati. I dati forniti dai vari organismi della borghesia attestano che le montagne di denaro risparmiate dalle “corporations” - piccole e grandi – in linea generale non vengono reinvestiti nelle attività produttive (di plusvalore primario), ma sono dirottate verso la speculazione finanziaria che, com'è noto, ha assunto dimensioni gigantesche ed è il direttore d'orchestra dell'economia mondiale. Lo stesso vale per i salvataggi delle istituzioni finanziarie (banche, enti assicurativi ecc.) “troppo grandi per fallire”, messi in atto dai governi e il cosiddetto “allentamento quantitativo” (Quantitative easing), cioè l'immissione di moneta sul mercato da parte delle banche centrali (per i paesi della UE, la BCE) per mezzo dell'acquisto di titoli vari (di stato, tossici e via dicendo) al fine – sperato – di abbassarne il prezzo, il rendimento e, per questa via, quello degli interessi praticati dalle banche così da stimolare, appunto, gli investimenti e i consumi. Il risultato ottenuto dagli stati è una specie di accanimento terapeutico, che non guarisce il malato (il processo di accumulazione), ma si limita a prolungarne artificialmente l'esistenza, In breve, l'intervento massiccio dei governi (5) paradossalmente, ma non tanto, impedisce la svalorizzazione-sfoltimento dei capitali in eccesso e quindi il ristabilimento delle condizioni che possano innescare un nuovo ciclo di accumulazione. L'abbassamento delle imposte, i salvataggi delle banche, le politiche monetarie espansive (?) aumentano, non da ultimo, il debito pubblico, uno dei piatti più ricercati dalla speculazione finanziaria, in un circolo vizioso il cui conto è pagato dal proletariato e dagli strati sociali a esso vicini. Esplosione del debito (pubblico e privato), del capitale fittizio (parassitismo, speculazione) sono dunque tra le espressioni principali della sovrapproduzione di capitali, figlia della caduta del saggio di profitto e non c'è “astuzia” di tipo finanziario che possa eludere il problema di fondo – o meglio, può eluderlo, fino a un certo punto, a prezzo però del suo aggravamento – vale a dire la creazione di condizioni di sfruttamento adeguate alla composizione organica del capitale oggi. Come specificava Marx, a proposito della sovrapproduzione, se cioè si debba parlare di sovrapproduzione di merci o di capitale,

«si tratterebbe sempre di sovrapproduzione, perché il capitale sarebbe incapace di utilizzare il lavoro a quel grado di sfruttamento che è richiesto dallo sviluppo “sano”, “normale” del processo capitalistico di produzione, a quel grado di sfruttamento che accresce se non altro la massa del profitto […] Sovrapproduzione di capitale non è altro che sovrapproduzione di mezzi di produzione – mezzi di lavoro e di sussistenza – che possono operare come capitale, ossia essere impiegati allo sfruttamento degli operai ad un grado determinato, poiché la diminuzione del grado di sfruttamento al di sotto di un livello determinato provoca delle perturbazioni e delle paralisi nel processo capitalistico di produzione, crisi, distruzione di capitale» (6).

Con questo, siamo arrivati al cuore del problema, all'origine della crisi, problema che, come abbiamo già accennato più su, è clamorosamente frainteso non solo dal riformismo in tutte le sue espressioni, ma anche da chi si pretende interprete (ortodosso o “innovativo”) del metodo marxiano e, perciò stesso, si ritiene legittimato a salire in cattedra per impartire lezioni a destra e a manca. Nel salire, però, inciampa malamente, tanto che è il caso di dire “qui casca l'asino” (con tutte le scuse possibili al nobile animale), dimostrando un'incomprensione di fondo del metodo di Marx, se non, in certi casi, disonestà intellettuale. Le due posture, chiamiamole così, sono affrontate nel libro: la prima, nell'articolo sul “negazionismo”, la seconda in appendice, a proposito degli “Economisti Periferici”, ex compagni di partito che in fatto di stravolgimento delle posizioni altrui non sono secondi a nessuno. Senza entrare negli argomenti, diciamo solo, velocemente, che gli uni negano che il saggio di profitto sia calato nelle ultime decadi, perché, a loro parere, la contrazione della base di valorizzazione (cioè il capitale variabile, la forza lavoro) in Occidente sarebbe stata compensata dalla caduta dei costi delle componenti del capitale costante; gli altri che l'aumento della produttività associata al plusvalore relativo è la principale controtendenza alla caduta del saggio. Naturalmente, ogni analisi che si inscriva (o pretenda) nell'ambito del marxismo non è mai neutra, ma ha sempre un risvolto politico e questo vale anche pr sostenitori delle tesi suddette. Nel primo caso il risvolto è l'attacco alla nostra impostazione, anche se non siamo nominati direttamente. Per rendersene conto, basta leggere l'inizio del “negazionista” Luzzi (7): è il distillato dell'incomprensione – a voler essere generosi – che gruppi e individui nutrono nei confronti delle nostre posizioni, incomprensioni così stupefacenti che c'è da chiedersi se abbiano letto e ascoltato realmente quello che diciamo (e facciamo) o se ci guardino solo attraverso le lenti deformanti dei loro pregiudizi. Tra questi, che passeremmo il nostro tempo seduti sulla riva del fiume aspettando di vedere passare il cadavere della borgesia trasportato dalla corrente provocata dal crollo automatico del capitale. Non meno grottesco un altro, di pregiudizi, secondo cui predicheremmo l'astensione o l'inutilità della lotta economica, perché la crisi ha ridotto al lumicino, o peggio, gli spazi di agibilità del tradeunionismo e del riformismo in genere. Che quest'ultima cosa sia vera non legittima ciò che il “negazionista” va pontificando e per verificarlo basta scorrere la nostra abbondante pubblicistica in merito. Piuttosto, il “Nostro”, forse a sua insaputa, nell'adottare quell'ottica si trova, ultimo in ordine di tempo, in una larga schiera che vanta nomi illustri di personaggi affannatisi a martellare (con scarso successo) i fondamenti del metodo marxiano, per “dimostrare” la possibilità di riformare il capitalismo o l'esistenza di nuove vie, dette originali, al socialismo. Da Von Bortkiewicz a Bernstein, da Joan Robinson a P. M. Sweezy fino a... Pagine Marxiste, si rigira sempre la stessa minestra, già inacidita al tempo della sua prima cottura. Negare o attenuare drasticamente il condizionamento della fase economica nella lotta salariale, come fa Pagine, significa non aver capito nulla di Marx e scadere nel più trito volontarismo (8).

style="position: absolute; top: 0cm; left: 0cm" Di altro tipo è l'obiezione-accusa scagliataci contro dai nostri “ex”, anch'essi alla ricerca del Santo Graal della rivoluzione, dopo aver certificato – ancora una volta: ultimi di un'affollata brigata – la morte della “Sinistra Comunista”, in particolare di quella “italiana”, per non meglio specificati motivi, a meno che non si prendano per argomentazioni le elucubrazioni simil-accademiche già risentite da saputelli di ogni specie, autoproclamatisi vati del comunismo 5.0. Senza anticipare l'Appendice, gli “ex”, con la burbanza che è loro propria, incappano in un errore ricorrente ossia quello di ritenere l'aumento del tasso di plusvalore relativo la controtendenza principale alla caduta del saggio di profitto. Ora – vedi l'Appendice – se c'è una cosa che Marx ha ripetuto con coerenza inossidabile, è proprio il contrario. Dai Lineamenti (Grundrisse) al Capitale, passando per le Teorie sul plusvalore, non si dice altro che l'aumento della produttività col plusvalore relativo, se da una parte accelera il processo di accumulazione, dall'altro, e in maniera ancora più rapida, affretta la caduta del saggio di profitto. A questo proposito, riportiamo solo un passo in cui Marx, quasi presagendo le “asinerie” (9) di tanti discepoli facili all'equivoco, dice:

«... al fine di evitare malintesi […] la caduta tendenziale del saggio di profitto è collegata a un aumento tendenziale del saggio di plusvalore, ossia del grado di sfruttamento del lavoro […] Il saggio del profitto cade non perché il lavoro sia meno produttivo, ma perché è più produttivo» (10).

Questo non significa che il capitale non cerchi in tutti i modi di accrescere la produttività, vale a dire lo sfruttamento o estorsione di plusvalore, al contrario, ma, appunto, la contraddizione intrinseca al capitale viene in tal modo esasperata. Da qui, il ricorso ai due metodi che permettono di incrementare la massa del plusvalore senza innalzare, se non di poco, la composizione organica del capitale ossia il plusvalore assoluto e l'abbassamento del salario al di sotto del valore della forza lavoro (11). Due strade imboccate con decisione da una quarantina d'anni almeno, che se hanno peggiorato, spesso drammaticamente, le condizioni di esistenza del proletariato, non hanno però risolto i problemi che impediscono all'economia mondiale di decollare. Anzi, per ridurre all'osso la questione, più che di problemi si dovrebbe parlare di problema, cioè dell'insufficienza di plusvalore, l'ossigeno dell'economia capitalista. Può sembrare un paradosso, ma, nonostante l'attacco padronale in corso da decenni contro la classe salariata, il capitale estorce troppo poco plusvalore per uscire dalle secche della crisi. Dando di nuovo la parola a Marx,

«le medesime circostanze che hanno accresciuto la forza produttiva del lavoro, aumentato la massa dei prodotti, ampliato i mercati, accelerato l'accumulazione di capitale come massa e come valore e diminuito il saggio del profitto, hanno creato una sovrapproduzione relativa e creano continuamente una sovrapproduzione di operai che non possono venire assorbiti dal capitale in eccesso, perché il grado di sfruttamento del lavoro che solo consentirebbe il loro impiego non è abbastanza elevato, od almeno perché il saggio del profitto che essi produrrebbero a questo grado di sfruttamento è troppo basso» (12).

Insomma, per ribadire il concetto, dalla crisi non si esce perché la classe operaia (intesa in senso lato) è troppo poco sfruttata. Risultano dunque ancor più desolanti le ricette avanzate dal riformismo di ogni tinta per sbloccare il motore dell'economia, ricette che fanno perno – per altro come quelle delle teorie “di regime” – sull'aumento dei consumi. Se si consuma poco – è lo schema logico - bisogna indurre a consumare di più, con misure adeguate, siano esse la diminuzione delle tasse e/o l'aumento dei salari e degli stipendi. Si dimentica che prima di consumare bisogna produrre e che la produzione viene fatta entro specifici rapporti economico-sociali, i quali, in ultima istanza, determinano il consumo stesso. Giusto per un ripasso,

«Quest'ultima [la capacità di consumo] a sua volta non è determinata né dalla forza produttiva assoluta né dalla capacità di consumo assoluta; ma dalla capacità di consumo fondata su una distribuzione antagonistica, che riduce il consumo della grande massa della società ad un limite che può variare solo entro confini più o meno ristretti. Essa inoltre è limitata dall'impulso ad accumulare, ad accrescere il capitale ed ottenere quantità sempre più forti di plusvalore» (13).

Dunque, «si deve necessariamente venire a creare un continuo conflitto fra le dimensioni limitate del consumo su basi capitalistiche ed una produzione che tende continuamente a superare questo limite che le è assegnato» (14).

Se la capacità di consumo è “limitata dall'impulso ad accumulare” e se l'accumulazione si basa sull'estorsione di plusvalore, è evidente che qualunque intervento volto a indebolire la produzione di plusvalore quando è già troppo scarso (15), viene visto dalla borghesia come fumo negli occhi. Difatti, da anni la quota dei salari sul reddito nazionale va calando un po' dappertutto, anche in quei paesi protagonisti di un'intensa crescita economica, dove le remunerazioni della forza lavoro sono cresciute, sì, partendo però da livelli estremamente bassi, e in ogni caso rimangono ancora lontane dai livelli della “metropoli”. In compenso, diciamo così, in “Occidente” i salari – quando va molto bene... - ristagnano o, in genere, cadono con progressione continua, riducendo le distanze con gli “emergenti” verso il basso. A differenza di quanto crede Pagine Marxiste, il peggioramento della classe operaia non è dovuto a un mero rapporto di forze sfavorevole o a un'insufficiente di volontà di lotta (benché siano fattori importanti, ovvio), ma è il risultato obbligato cui porta il processo di accumulazione (16). Chiedere dunque un'attenuazione dello sfruttamento (l'aumento dei salari) per via sindacale e/o parlamentare, senza mettere radicalmente in discussione il sistema capitalista, non fa altro che alimentare il circolo vizioso delle illusioni, della loro caduta inevitabile, dello sconforto e della passività. Ma dove regnano sconforto e passività, la borghesia trova la strada spianata ai tentativi di perpetuare la sua esistenza criminale, intensificando gli abituali metodi criminali: l'oppressione del proletariato e di strati crescenti di piccola borghesia, lo stupro dell'ambiente, la moltiplicazione dei massacri imperialisti, che non escludono affatto – e magari preparano - lo scoppio di una nuova guerra imperialista a scala mondiale.

Le prospettive oggi sono cupe, ma raramente i comunisti hanno dovuto lottare in condizioni idilliache... Forse, però, oggi la posta in gioco si è alzata, perché la marcia distruttiva del capitale sta mettendo a rischio l'esistenza stessa dell'umanità: è il caso di farlo fuori, il capitale, prima che faccia fuori noi e l'intero Pianeta.

CB

(1) Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica [Grundrisse], La Nuova Italia, 1970, vol. II, pag.460.

(2) K. Marx, Lineamenti, cit., pag. 462.

(3) Nei Lineamenti e poi approfondite nel Capitale, in particolare nel Terzo libro.

(4) K. Marx, Lineamenti, cit., pag. 463.

(5) Chiamato anche keynesismo finanziario, perché, a differenza del keynesismo tradizionale, agisce sul settore finanziario-speculativo, non produttivo.

(6) Karl Marx, Il Capitale, Edizioni Einaudi, Terzo libro, capitolo XV, Contraddizioni intrinseche della legge, pag. 358.

(7) Vedi anarkismo.net

(8) Volendo, a ulteriore nota di demerito nei confronti del “Nostro”, si potrebbe segnalare un aspetto comico, per non dire altro, là dove asserisce che la teoria della caduta del saggio medio di profitto è opera di Engels, in quanto redattore del Terzo (e del Secondo) libro del Capitale. Chi ha un minimo di dimestichezza con i lavori di Marx sa che non vale la pena perdere tempo per confutare una simile sciocchezza.

(9) Vedi la lettera di Marx a Engels del 30 aprile 1868.

(10) Karl Marx, Il Capitale, cit., capitolo XV, pagg. 336-337.

(11) A tale proposito, Marx dice che quest'ultimo aspetto non rientra nell'analisi del capitale in sé, anche se ha una grande importanza, a riprova di come la lotta di classe ricopra un ruolo centrale, ma non nei termini velleitari e volontaristici alla Pagine Marxiste o dell'operaismo.

(12) Karl Marx, Il Capitale, cit., capitolo XV, pagg. 358-359.

(13) Karl Marx, Il Capitale, cit., capitolo XV, pag. 343.

(14) Karl Marx, Il Capitale, cit., capitolo XV, pag. 360.

(15) Nelle fasi ascendenti dell'accumulazione, quando il plusvalore è sufficiente o addirittura abbondante, ci sono ovviamente spazi ben più larghi per accrescere la suddetta capacità di consumo, anzi, il farlo può risultare conveniente al capitale stesso.

(16) Vedi Karl Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo XXIII, La legge generale dell'accumulazione capitalistica

Domenica, July 11, 2021

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.