Afghanistan - La tragedia afgana tra l’inumano nazionalismo talebano e la barbarie dell’imperialismo americano

La vulgata ricorrente sul ritiro Usa dall’Afghanistan recita che Washington si è stancata di fare il gendarme del mondo, di far morire i propri soldati ai quattro angoli del globo e di spendere migliaia di miliardi di dollari per finanziare le operazioni Nato. Niente di più falso. Gli Usa si ritirano non perché abbiano raggiunto i loro obiettivi, come recita Biden, ma perché sono stati sconfitti. Dopo 20 anni di guerra, 2 mila morti e 2 mila miliardi di di dollari di spese militari senza ottenere il benché minimo vantaggio imperialistico, si sono ritirati lasciando campo libero ai talebani sul fronte interno, a Cina, Russia, Iran e Turchia sullo scenario internazionale. Chi sostiene che queste tesi del “giusto” disimpegno americano, compreso il piano di “exit stategy” dall'Afghanistan, siano una soluzione tattica contro la Cina sbaglia di grosso. E’ pur vero che la Cina rappresenta l’obiettivo strategico n°1, sia per l’immediato che per il futuro, ma la verità è che il Pentagono non ha più la forza che aveva sino a qualche decennio fa. L'economia americana non domina più nel mercato mondiale, la sua bilancia dei pagamenti con l'estero è in rosso profondo. La crisi da bassi saggi di profitto, ovvero di valorizzazione dei capitali investiti produttivamente, hanno favorito la speculazione, depresso l'economia reale, per cui i costi di gendarme del mondo, ovvero il costo di continuare ad essere il primo paese imperialista dell’universo sempre e ovunque, incominciano ad essere insostenibili. Per cui meglio ritirarsi dalle zone pericolose e passibili solo di sconfitte (Iraq, Siria, Libia e Afghanistan) per concentrarsi su obiettivi più limitati ma strategicamente più importanti, come la Cina e l'Iran. Cosa ben diversa dalla vulgata precedentemente citata. Ma anche così facendo, la ritirata americana dall'Afghanistan consente a Pechino di stabilire accordi con i talebani che non interferiranno più nella lotta contro i musulmani uiguri della provincia cinese del Xinjiang, in cambio del riconoscimento politico e di “generosi” finanziamenti per la ricostruzione economica dell’Afghanistan dopo trent'anni di guerre. Per non parlare della promessa di fare dell'Afghanistan una tappa commerciale importante sulla via della seta e di “aiutare” il nuovo governo a sfruttare le ricchezze minerarie del sottosuolo, abbondanti anche se non strategiche, fatta eccezione per le “terre rare”, indispensabili per l'economia moderna come superconduttori, per la costruzione dei magneti, per i microchip nel settore automobilistico e aeronautico, e nelle apparecchiature elettroniche dei satelliti. In più, il ritiro concede alla Russia l'opportunità di aumentare la sua agibilità energetica verso la Cina e l'India; all’Iran di entrare nel “big game” della via della seta e uscire dall’isolamento voluto dagli Usa e, alla Turchia, di presentarsi come interlocutore negoziale nell'area centro-asiatica convocando a Istanbul Talebani e avversari per una soluzione “definitiva” della crisi in atto. Del popolo afgano, delle donne poco importa a Biden. Venuta meno la possibilità di supportare un governo alleato, vassallo di Karzai prima e di Ghani poi, il presidente americano ha dato l'ordine di fuga mobilitando migliaia di militari per l'ultima, vergognosa, campagna afgana. Vent'anni di presenza in Afghanistan sono dovuti non alla necessità di combattere l'integralismo talebano, non alla volontà di catturare il responsabile della distruzione delle torri gemelle, ma, inizialmente, all'obiettivo di mettere le mani sul controllo del petrolio e del gas delle repubbliche ex sovietiche, di costruire una serie di pipe-line che, bypassando la Russia e l'Iran, arrivasse all’Oceano Indiano sotto il controllo delle compagnie petrolifere americane. Fallito il progetto, la permanenza americana si è incentrata sul ruolo strategico dell’Afghanistan collocato tra Russia e Cina e confinante con l’odiato Iran. Fallito anche questo perché troppo costoso e inviso all'opinione pubblica interna, dall'amministrazione Obama a quella di Biden passando per quella di Trump, gli Usa hanno deciso di smobilitare, sconfitti da una logorante guerra. Anche gli imperialismi più forti, se in difficoltà economica e sconfitti sui campi di battaglia, sbagliano le loro strategie o sono costretti all’errore. Sul terreno di una risposta di classe, purtroppo niente, manca tutto, ecco perché la tragedia afgana oscilla “tra l’inumano nazionalismo talebano e la barbarie dell’imperialismo americano”.

Per le radici dell'intervento USA in Afghanistan, rimandiamo al seguente articolo, tratto da Prometeo VI serie, n. 4, 2001: leftcom.org

FD
Domenica, August 15, 2021