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Home ›Tassa per le multinazionali? Per ora la montagna partorisce un topolino
Il Presidente degli Stati Uniti Biden, nell’intento di rilanciare l’economia USA, la cui leadership globale è in declino e sempre più apertamente contesa dalla Cina, ha lanciato un ambizioso e oneroso piano di investimenti. Tale piano dovrebbe essere finanziato nelle intenzioni non solo con il ricorso a nuovo debito, ma anche con una riforma fiscale che inverta il brusco abbassamento delle tasse voluto dal suo predecessore e coinvolga maggiormente le fasce ad alto reddito e le imprese. Uno dei corollari di questo progetto è la proposta di revisione della tassazione internazionale sulle multinazionali, che fino ad oggi hanno goduto di un regime fiscale che definire invidiabile agli occhi di chi vive del proprio salario netto è un puro eufemismo.
Un altro fattore che è alla base della “minimum tax” globale è legato al tentativo di risolvere i contenziosi commerciali formalmente scatenati da Trump con l’arroganza e la spettacolarizzazione tipica del personaggio, ma di fatto attivi ed operanti anche senza il suo contributo. Da qualche anno in Europa si introducono digital tax che andrebbero a colpire soprattutto i 5 Big Tech a stelle e strisce (Amazon, Google, Apple, Microsoft, Facebook). Per questo ora Biden propone un compromesso che ridistribuisca gli oneri fiscali in maniera da accontentare tutti, cosa che però come vedremo è quasi impossibile.
Facciamo una premessa, sicuramente scontata ma doverosa, per ricordare le condizioni di partenza per quanto riguarda le multinazionali, non solo quelle tecnologiche, ma tutte quelle imprese che in misura maggiore o minore hanno la forza per operare anche al di fuori del mercato domestico.
Tutte le condizioni per mettere in atto contromisure alla caduta tendenziale del saggio di profitto sono a disposizione: trasferire gli impianti dove la forza lavoro costa meno, migliori sono le infrastrutture e la disponibilità di materie prime, sindacati assenti e ricche sovvenzioni, poi vendere le merci nei mercati più solvibili e infine - che è l’aspetto che più ci interessa in questo momento - spostare i profitti dove sono tassati di meno.
Il catalogo delle strategie di evasione o elusione fiscale è quanto mai ampio ed hanno contribuito ad arricchirlo nel tempo società di consulenza finanziaria, studi legali, fiscalisti e lobbisti d’ogni sorta. Si va dalla creazione nei paradisi fiscali di filiali a cui vengono attribuiti i diritti di sfruttamento dei brevetti, filiali che fatturano alla casa madre costi altissimi per far defluire i profitti da un paese all’altro mediante transazioni intra-gruppo, alla pratica di far emettere alla succursale prestiti ad interessi molto alti verso la capogruppo, per permetterle di dedurre fiscalmente gli interessi, per finire con lo sfruttamento delle lacune o disparità normative tra i diversi paesi per creare società, come è successo ad Apple, che non hanno sede legale in nessun luogo. Il capitale sa essere terribilmente solido quando deve imporre la sua legge e le sue compatibilità, ma si trasforma allo stato liquido o anche gassoso quando si tratta di pagare le imposte.
C’è poi l’altro lato della faccenda che è quello dei paradisi fiscali, cioè paesi che fanno a gara per offrire ai capitali, di provenienza lecita o illecita, condizioni di ospitalità da albergo a 5 stelle, solo che in questo caso non si paga il conto. Una lista esaustiva è difficile, da anni vengono stilate black list che però sono variabili a seconda del momento e dei parametri usati; per semplicità di discorso menzioniamo solo in Europa: Irlanda, Svizzera, Olanda, Ungheria, Estonia e Lussemburgo e fuori d’Europa gli ex domini della corona britannica: isole Cayman, Bermuda, Isole vergini. L’elenco sarebbe più lungo in realtà e comprende anche paesi come Kenya, Nigeria, Sri Lanka, Perù, ma lasciamo da parte per ora l’esaustività, limitandoci al nocciolo del problema.
La proposta di introduzione di una minimux tax globale è stata avanzata prima in sede OCSE, poi portata avanti nei vari G7 e G20 e il processo per la sua definizione non è ancora concluso, forse lo sarà entro l’anno, sempre ammesso che il Senato Usa, dove Biden ha una maggioranza risicatissima, la approvi. Al momento sono 9 i paesi che non l’hanno firmata e sono tutti paradisi fiscali ovviamente. Altri l’hanno firmata ma si riservano di offrire agevolazioni di altro tipo per incoraggiare le imprese a spostare lo stesso i capitali nei propri confini. La proposta in ogni caso ha le maglie sufficientemente larghe per continuare a far passare strategie di elusione fiscale.
Essa prevede due “pilastri”: con il primo si intende portare al 15% l’aliquota fiscale universale dei redditi d’impresa. Se un paese ha un’aliquota del 9% per esempio, la multinazionale sarebbe costretta a pagare la differenza tra il 9% e il 15% allo Stato nel quale ha la sua presenza fisica, cioè molto spesso gli Stati Uniti, vanificando in questo modo lo spostamento fuori confine. Molto si è detto sul fatto che un’aliquota del genere è ridicolmente bassa e che dovrebbe essere almeno del 25% per considerarla seria, ma già il 15% è osteggiato da tanti paesi, in primis quelli sopra menzionati. Per intendersi, Boris Johnson ha già ottenuto per la city di Londra un’esenzione che le permetterà di rimanere un mercato finanziario di riferimento a livello internazionale, e non si vede perché mai chi vuole competere con la city dovrebbe fare altrimenti.
Poi c’è l’altro pilastro: la distribuzione dell’imponibile tra i diversi paesi. L’aliquota si applica solo alle imprese che hanno due requisiti: un fatturato superiore ai 20 miliardi e un margine operativo superiore al 10%. Solo sulla parte di utili che eccede il 10% ci sarebbe una redistribuzione dell’imponibile verso i paesi in cui la multinazionale effettua le sue vendite, in proporzione ma per non più del 20%.
Per intendersi Amazon, che ha un fatturato enorme e profitti altrettanto in valore assoluto, ma un margine operativo percentualmente più basso perché ha costi molto alti, al momento sembrerebbe esonerata. Se poi il tetto di fatturato è a venti miliardi, è verosimile che sarà sufficiente scorporare formalmente delle attività per fare risultare come società diverse quelle che in realtà operano come uno stesso gruppo. Ci sono poi le lamentele dei paesi più piccoli, a cui rimane una base imponibile veramente esigua a vantaggio di quelli più forti economicamente.
Al di là di tutte le considerazioni che si possono fare sul fatto che il progetto sia o meno un passo nella giusta direzione, la sentenza più definitiva l’hanno emessa le multinazionali stesse, che in più occasioni hanno dichiarato che se questo è il progetto a loro va bene, non c’è nessun problema e i mercati finanziari hanno fatto eco. A noi modestamente, più che un progetto per rendere più equa l’economia mondiale, far pagare la crisi anche ai ricchi etc. sembra un tentativo di risoluzione delle controversie fiscali e commerciali che per ora va soprattutto a vantaggio degli Stati Uniti e in parte dell’Europa. Vedremo le prossime puntate, che significa anche vedere come reagirà la Cina, per il momento silente.
MBBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #09-10
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