Solo la lotta di classe, per il comunismo, può fermare l'escalation assassina dei briganti imperialisti

Dopo sette mesi di guerra in Ucraina, dalla quale il proletariato occidentale è stato appena sfiorato nella sua attenzione, e per contrastare la quale questo non ha dispiegato nemmeno la centesima parte del suo già enorme potenziale di lotta, il conflitto stesso sta entrando ora in una fase cruciale. Una fase che potrebbe fare sentire sempre più vicini gli echi di una guerra che si credeva lontana.

Sono stati pochi e sporadici gli esempi di opposizione reale dei lavoratori al conflitto, che hanno preso corpo in qualche occasione sotto forma di rifiuto di caricare armi su un aereo o su una nave, ma niente più. Gli esempi sono rimasti episodi isolati di cui poco hanno parlato le cronache e che non si sono estesi su una scala più vasta. Il 99,9% delle armi che dovevano raggiungere il teatro di guerra sono arrivate a destinazione e alla fine i tentativi di fare sì che ciò fosse ostacolato sono stati poche gocce sottratte all'oceano.

La stragrande maggioranza dei lavoratori finora è stata sfiorata poco e niente dal dubbio che un'escalation bellica a est avrebbe prima o poi travolto anch'essa o, se lo è, forse pensava e pensa che quel momento sia ancora lontano. Magari in molti della cosiddetta "opinione pubblica" – che di solito sa poco e male di ciò su cui dovrebbe opinare - hanno creduto anche alla retorica atlantica che più armi all'Ucraina significassero la difesa dei "nostri" interessi di europei, e una guerra di breve durata. Altri invece hanno ascoltato il canto delle sirene rossobrune che vedono in Putin, ma anche nella Cina e nel l'Iran (in cui si massacrano donne che non indossano "correttamente" il velo), l'ultimo baluardo contro lo strapotere americano. Come se ci fossero imperialismi buoni e imperialismi cattivi, quando non arrivando apertamente a negare il carattere imperialista del blocco cino-russo-iraniano (e satelliti).

Ora la cosa ha preso una piega un po' diversa: col richiamo dei riservisti da parte della Russia e con le continue minacce nucleari che rimbalzano dal Cremlino alla Casa Bianca.

Putin ha capito che se non metterà in campo tutta la sua potenza di fuoco, perderà la guerra (ammesso, naturalmente, che possa mai vincerla). Gli ucraini, armati e finanziati dalla Nato, hanno riconquistato migliaia di chilometri quadrati di territorio perduto da febbraio in poi, e decine di centri urbani. Tutti sanno l'importanza della posta in gioco, Putin sa che se perdesse l'Ucraina verrebbe tagliato fuori dagli enormi vantaggi rispetto al commercio energetico di gas e si ritroverebbe circondato dalla Nato in ogni chilometro dei suoi confini e in ogni caso le sue velleità imperiali verrebbero drasticamente ridimensionate; Biden, di cui Zelensky è solo una marionetta, che teme invece che una vittoria russa possa costituire un pericoloso precedente che rimetta in discussione la leadership mondiale a stelle e strisce e dia coraggio soprattutto alla Cina per la resa dei conti finale tra i due veri giganti: Washington e Pechino.

Sappiamo tutti, o almeno abbiamo tutti il sospetto, di cosa significherebbe un'estensione su vasta scala del conflitto. Sono anni che, attraverso una sequenza infinita di conflitti locali, il capitalismo sta preparando la Terza Guerra Mondiale. Per esso è lo sbocco risolutivo e definitivo per uscire dalla sua crisi: dopo l'espansione c'è infatti quest'ultima, seguita dalla guerra, poi dalla ricostruzione e poi da una successiva espansione. Bisogna distruggere tutto: infrastrutture, città, paesi, ponti, strade, fabbriche, porti, aeroporti, ospedali, scuole. E materiale umano: uomini e donne. Tutto per preparare il terreno al business della ricostruzione, una volta che taceranno i cannoni, per rilanciare quindi un nuovo ciclo di accumulazione, dopo quella enorme svalorizzazione del capitale. Sempre ammesso, ma per niente concesso, che dopo una guerra nucleare, dopo le immani devastazioni dell'ecosistema, oltre che della “civiltà”, si possa parlare ancora di un futuro.

Chi si nasconde dietro motivazioni di carattere patriottico per giustificare l'uno o l'altro contendente, porta acqua al loro mulino: il mulino della guerra. L'esempio da seguire, in queste ore, lo stanno dando le centinaia di manifestanti incarcerati in Russia, gli stessi che gridavano ieri "Putin in trincea". Sarebbe il caso che anche a Kiev si cominciasse a fare la stessa cosa, cambiando semplicemente in "Zelensky" il soggetto dello slogan. Perché gli slogan, finché non si trasformano in azioni, restano tali. Giungono voci di compagni/e, di area anarchica - quella che non è passata, ed è la maggioranza, con armi e bagagli dalla parte dell'imperialismo occidentale (la Resistenza ucraina...) - che difende la bandiera dell'internazionalismo proletario, ma sono voci per ora troppo deboli, sovrastate dal frastuono delle bombe, delle armi, oltre che dall'assordante propaganda borghese e dalla sua repressione, in Ucraina come in Russia. Ad esse, così come in Russia si oppone alla guerra subendo la repressione borghese, va la nostra solidarietà, indipendentemente dal fatto che dall'idealismo anarchico ci dividono questioni politico-metodologiche sostanziali.

È tempo di dare un taglio alla rassegnazione di essere impotenti contro decisioni più grandi di noi. È tempo di ripensare una società diversa, nuova, giusta. È tempo di reagire alla prospettiva di diventare tutti carne da cannone, chi combatte in trincea e chi in officina. Solo la classe lavoratrice, il proletariato, può mettere fine all'incubo bellico, non solamente in Ucraina, se, scuotendosi di dosso rassegnazione e fatalismo, dà vita a lotte di classe di massa, attaccando quelle che sono le radici della guerra borghese, della guerra imperialista: il rapporto capitale-lavoro. Ciò significa lottare sul posto di lavoro contro lo sfruttamento, la precarietà, i salari sempre più insufficienti, anche e non da ultimo per l'aumento verticale del costo della vita, accelerato dalla guerra e amplificato dalla speculazione della finanza internazionale. Significa riappropriarsi di metodi di lotta che vadano oltre il sindacalismo, perché si pongono attivamente su di un piano anticapitalista, rifiutando cioè le compatibilità del capitale, mentre il sindacalismo, anche quello più combattivo (per altro minoritario), presuppone il capitalismo, di fatto lo accetta come interlocutore naturale. Invece le lotte “operaie”, pur nascendo necessariamente sul terreno economico, spesso di difesa, devono assumere una prospettiva rivoluzionaria di superamento del capitalismo, una prospettiva comunista, che non si ferma all'obiettivo, per altro necessario, di migliorare le condizioni di vita e/o di contrastare gli attacchi padronali, obiettivo, tra l'altro, reso sempre più difficile dall'inasprirsi della crisi. No, vuole rompere una volta per tutte le catene dello sfruttamento e di ciò che ne consegue, oggi anche la guerra. Non è un percorso facile, tutt'altro, ma la nostra classe ha armi potenti, se solo le riscopre dopo lunghi anni di dimenticanza. Le nostre armi non sono bombe e fucili, ma la coscienza di classe, le lotte proletarie, gli organismi di lotta e di potere che da esse nascono (dai comitati di lotta ai consigli operai) e gli strumenti politici indispensabili – il partito rivoluzionario a scala mondiale, la nuova Internazionale - per il superamento di questa società fondata sullo sfruttamento e la morte.

È tempo di sognare e provare a muovere i primi passi verso il Comunismo.

IB
Sabato, September 24, 2022