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Home ›Notizie da un mondo allo sfascio: l’intraprendenza dell’imperialismo cinese in Africa e nel Mediterraneo
Quando il capitalismo è in crisi, quando i saggi del profitto si abbassano, quando i PIL dei paesi capitalisticamente più avanzati si stabiliscono su livelli minimi o nulli. Quando gli Stati mal sopravvivono sotto il peso di indebitamenti pubblici sempre più insostenibili. Quando i capitali fuggono dalla economia reale per inseguire la chimera dei profitti facili dando vita ad un percorso vizioso, quello della speculazione, che genera bolle con devastanti, crisi finanziarie decennali, l’imperialismo entra in fibrillazione e diventa più vorace, cattivo fino ad inscenare teatri di guerra ai quattro angoli del pianeta. Chi paga tutto questo? Tutti, ma il proletariato internazionale in modo diretto, le classi subalterne, i diseredati, tutti coloro che in tempo di pace sono la merce su cui i capitali traggono profitti, e sono la carne da macello quando vengono mandati in guerra per risolvere i problemi dei capitalisti. Russia ed Ucraina mandano al massacro i propri proletariati non certo per risollevare le loro condizioni di vita, ma per i propri interessi economici. L’Europa vive un’economia di guerra supportando Kiev con finanziamenti ed armi. Subisce contemporaneamente il peso delle sanzioni contro la Russia, imposto dagli Usa e pagato a caro prezzo dai paesi europei, Germania in primis, e per questo sono costretti a stringere ulteriormente la cinghia sul welfare (scuola, sanità, pensioni), a imporre con ancora più forza bassi salari e maggiore sfruttamento per i lavoratori. In Medio oriente, con l’inganno del nazionalismo si sta perpetrando un massacro epocale che coinvolge Israele, i palestinesi, i libanesi, gli yemeniti e gli abitanti della Cisgiordania. Ma c’è il pericolo che lo scontro bellico si sposti nell’Indo-pacifico dove la tensione tra i due maggiori imperialismi sta salendo alle stelle. Se ciò avvenisse sarebbe una catastrofe per tutta l’umanità. Al proletariato internazionale e al suo partito rivoluzionario il compito di evitare questa possibile tragica barbarie, facendo guerra alla guerra. NO ALLA GUERRA SI' ALLA LOTTA DI CLASSE.
Dal 4 al 6 settembre si è tenuto l’ottavo summit tra la Cina, paese ospitante/organizzatore, e una cinquantina di Stati africani per il Forum di cooperazione sino-africano (Focac) che si tiene ogni tre anni. A parole, il Forum dovrebbe favorire la cooperazione tra gli stati partecipanti e costruire un futuro comune e condiviso tra Pechino e i vari paesi africani. Una sorta di rapporto politico- commerciale “paritetico” tra una grande potenza che “aiuta” e una serie di paesi in via di sviluppo che, ricchi di materie prime, ma sottosviluppati da un punto di vista economico e tecnologico, a loro volta ne usufruirebbero sotto l’aspetto dello sviluppo economico-sociale. Nei fatti, l'intraprendenza dell’imperialismo cinese, con una cospicua quantità di investimenti mirati, “colonizza” mezza Africa, interpretando la cooperazione nell’unico modo possibile per una potenza imperialista di ormai “lungo corso”: sfruttare al massimo le risorse minerarie ed energetiche dei paesi cooperanti, indebitarli sino al collo, con il duplice scopo di depredare a basso costo le loro risorse naturali e di ricattare i governi giocando sugli interessi dei debiti contratti, costringendoli ad un forzoso allineamento politico. Secondo una ricerca del Global Development Policy Center, un istituto dell’Università di Boston (Usa), la Cina ha concesso, solo fra 2000 e 2023, un totale di 1.306 prestiti ai 50 governi africani per l’equivalente di 182,28 miliari di dollari Usa, anche se una simile massa di crediti/debiti andrà, forse, a diminuire nei prossimi anni, per una pressante richiesta dei paesi debitori, Sud Africa in testa, di riequilibrare gli interscambi sulla base di contratti commerciali e finanziari meno onerosi. Ma si sa dove vanno a finire queste richieste: il più forte contrattualmente vince sempre. In cambio, Pechino costruisce scuole, infrastrutture, strade e autostrade che, in larga misura, servono più ai tecnici cinesi per spostarsi e spostare la mano d’opera indigena. Servono più alla logistica, sempre cinese, per il trasporto dei minerali che per il traffico commerciale interno, altrimenti praticamente inesistente. Alcuni esempi. Le infrastrutture cinesi si sono impiantate in molti paesi sub sahariani africani fino nel Corno d’Africa, dove sono state costruite la ferrovie che collegano Addis Abeba al porto di Doraleh presso Gibuti; a questa si aggiungono la ferrovia urbana di Addis Abeba, così come numerose centrali elettriche in Etiopia. Nel Sahel sono state costruite l’autostrada di 120 km che unisce le città di Dosso e Gaya in Niger, e 32 km di superstrada a pagamento che collegano Dakar, capitale del Senegal, e Diamniadio. Importanti sono anche i progetti che verranno realizzati in Nigeria come l’autostrada Abuja-Kaduna, la ferrovia di Abuja, il porto e la relativa zona industriale di Lekki e la strategica diga di Bui in Ghana. Quando è necessario, la Cina fornisce assistenza e strutture militari ai governi di turno e pone contemporaneamente le basi per rafforzare la sua presenza militare. In più, va sottolineata la presenza operativa di società cinesi di sicurezza private, ma di fatto sotto il controllo politico di Pechino. Queste società hanno il compito di fornire servizi di sicurezza, ovvero paramilitari, per tutte le infrastrutture a finanziamento cinese e per il controllo delle miniere per l’estrazione e il trasporto dei minerali. Funzionano anche per la difesa dei tecnici che, per tutte le emergenze che si dovessero presentare ad un imperialismo, rapace come tutti gli imperialismi, ma che vuol presentarsi come un “benefattore” e non come un rapinatore delle ricchezze africane, sono più che necessarie. I paesi interessati al trattamento di rapina vanno dalla costa occidentale a quella orientale con intrusioni anche in centro e sud Africa. Si parte dalla Guinea, Liberia, Ghana, Costa d’Avorio e Repubblica del Congo. I minerali che fanno gola alle necessità dello sviluppo industriale cinese sono la bauxite in Guinea e Ghana, il ferro in Liberia, mentre forniscono rame e altri minerali strategici come il cobalto, il Gabon e la Repubblica del Congo. In centro Africa lo scambio con lo Zambia è basato sullo sfruttamento delle miniere di oro, rame e cobalto, mentre, sulla costa occidentale, l’Eritrea mette a disposizione dell’imperialismo cinese oro, cobalto e rame. Per finire, nella fascia centrale del Sahel, Pechino si assicura i maggiori giacimenti di petrolio, di terre rare, di cassiterite (biossido di stagno per uso farmacologico), di uranio e litio. In più fanno peso i contatti commerciali (sempre a favore della Cina) con la Nigeria, la Repubblica democratica del Congo, con il Sud Africa, lo Zimbawe e il Mozambico senza contare le ingerenze politiche, a fini strategici, sulla molto contesa Gibuti, dove Pechino ha già creato un presidio militare in concorrenza con altri otto paesi tra cui Usa, Francia, Giappone e Italia. Il tutto in “discreta” concorrenza con l'alleata Russia (banda Wagner), che opera altrove con aiuti militari in Libia, sostenendo Haftar, nella Repubblica centro africana, in Niger, Mali e Burkina Faso. Entrambe (Cina e Russia) in acerrimo scontro con gli Usa sia per una questione strategica (controllo del Mar Rosso e del golfo di Aden) che economica (minerali, gas petrolio e terre rare). Va da sé che le due componenti dello scontro nel continente africano non mancano, come sempre, di giocare un ruolo tragicamente interconnesso che, molto spesso, sfocia in guerre per procura, colpi di stato guidati, fatti passare per guerre intestine o tribali, ma con armi che provengono da Mosca, Pechino e Washington. Mentre la Francia e il suo progetto di riannodare i fili con le vecchie colonie africane sembrano essere svaniti sotto i colpi degli imperialismi più agguerriti sia militarmente che finanziariamente. Solo con il Ciad Parigi ha ancora qualche contatto, ma in coabitazione con la Russia, e parzialmente conserva la citata presenza a Gibuti, ma con un ruolo ormai nettamente minoritario. Oltre a questi aspetti, l’appoggio volontario o forzoso degli stati africani servirebbe alla Cina, in caso di aumento delle frizioni con gli Usa. Servirebbe sulla “questione” Taiwan, sul proseguimento della costruzione della “via della seta”, sullo sforzo di fare dello yuan una moneta in grado di contrastare il potere del dollaro e, non da ultimo, di arrivare “trionfalmente” al fatidico 2035, data che dovrebbe segnare per Pechino il sorpasso economico della Cina nei confronti degli Usa. In ultima analisi servirebbe come fattore politicamente molto importante, come una base di appoggio irrinunciabile su cui contare in caso di bisogno, in una fase storica – come si diceva - nella quale il capitalismo mondiale soffre di una crisi strutturale che mette in fibrillazione gli imperialismi sui vari mercati, da quello finanziario a quello del controllo dei giacimenti di gas e petrolio. Da quelli commerciali al controllo dei gangli strategici sia per le vie di commercializzazione delle materie prime e delle merci, che per quello militare dei mari, come il Mediterraneo, sempre più oggetto di scontro tra la la Cina, Russia, l’Europa e la VI flotta americana, tutti a diverso titolo interessati alla crisi medio-orientale. Tornando in Africa ma non solo, in cambio di investimenti, Pechino impone, oltre allo sfruttamento minerario ed energetico, ottenuti con il ricatto debitorio e la sempre efficace arma della corruzione dei governi, la possibilità, inizialmente temporanea ma poi di lunga durata, di usufruire di infrastrutture portuali che diano sicuri avamposti lungo il faraonico progetto della “sua” Via della Seta. Per un simile obiettivo Pechino sta agendo nel Mediterraneo già da lungo tempo (due decenni), garantendosi la gestione di Porto Said (2005). Due anni più tardi, di quello di Damietta (2007) sul delta del Nilo, ovvero nella parte meridionale del mare in questione, a “guardia” dello strategico Canale di Suez. Ha poi aggiunto, attraverso forme di partecipazione societarie che arrivano a detenere anche il 50% del pacchetto azionario, la gestione dei porti di Valencia in Spagna (2017), Haifa (2021), el-Hamdania in Algeria, Zarzis in Tunisia e quello di Kumpart in Turchia (2015). Al proposito, va anche detto però che la sinergia tra Cina e Turchia, per quanto riguarda le rispettive presenze nei maggiori porti del Mediterraneo, è molto strumentale sino al punto da mettere in forse gli accordi sottoscritti. Infatti il governo turco ambirebbe essere l’unico, o il più importante, hub nel Mediterraneo, sia per la gestione delle pipeline petrolifere, sia per una indisturbata presenza militare navale che gli garantirebbe una superiorità strategica in quello che considera il “suo” mare. Quindi accordi sì, ma pronto a disertarli qualora non corrispondessero più alle sue prospettive di salvaguardia dei propri interessi. (Erdogan ci ha abituati a questo tipo di comportamento). Altro elemento importante Non da ultimo, grazie alla disponibilità finanziarie delle sue centrali operative, come la China Merchant, la Cina ha acquistato il porto del Pireo (2009) direttamente dal governo greco, usufruendo della sua profonda crisi economica e finanziaria, peraltro mai superata. Sempre nel Mediterraneo, Pechino si è accaparrato importanti partecipazioni nei porti di Rijeka in Croazia, di Marsiglia, di Malta, e del nuovo porto marocchino di Tangeri ancora in costruzione. A questi si aggiunge quella di Sines in Portogallo, nonché l’agibilità di un paio di porti italiani come quello di Savona (Vado Gateway, 2019) e quello di Taranto. Ha trattato anche per i porti di Genova e Trieste ma con risultati negativi. Però, per quanto riguarda Taranto, si presentano una serie di problemi in quanto il porto pugliese, di strategica importanza per la Cina, dista poco più di dieci chilometri dalla base della Standing Naval Forces della NATO e le pressioni americane non tarderanno a farsi sentire. Va da sé che tutti questi progetti (in buona parte realizzati), troveranno sulla loro strada le contromisure dell’imperialismo Usa. Alcune di queste contromisure sono già in atto. Sotto le ultime amministrazioni americane si dava, ormai da almeno un decennio, una penalizzazione a tutte quelle imprese occidentali che non praticassero la norma protezionistica di una tassa del 60% su tutte le merci importate da Pechino e pesanti rappresaglie politiche ed economiche per chi intendesse commerciare con valute che non fossero il dollaro. Tutto ciò per difendere gli interessi commerciali americani, la supremazia dollaro e il ruolo egemone degli Usa su scala internazionale. Dunque, va detto, il vero scontro tra i due massimi imperialismi non è nell’est dell’Europa (guerra di Ucraina sostenuta dalla Nato e dagli Usa), né la guerra in Medio oriente tra Israele (sorretta dagli stessi Usa, Europa, Germania in particolare) e la galassia islamista (Hamas, Hezbollah, sciiti iracheni e Houthi ) con alle spalle l'inquietante ombra della Repubblica degli ayatollah, ma quello nell’Indo-pacifico. Ciò non significa che il confronto imperialistico tra Russia, Iran e Usa non faccia, per questioni strategiche, parte della tragedia bellica di cui soffre il capitalismo internazionale. Altrimenti non si spiegherebbero le sanzioni economiche e finanziarie volute da Washington contro Mosca e gli ingenti aiuti militari a Kiev, per fiaccare l'economia russa e, di conseguenza, mettere in allarme il suo alleato cinese. Né avrebbe senso l’assoluto sostegno alla carneficina che lo Stato di Israele sta perpetrando contro il popolo palestinese e libanese con la scusa di vendicare il 7 ottobre. Nonostante i ripetuti, quanto strumentali richiami verbali di Biden alla politica di “eccesso di difesa” del governo di Netanyahu, cianciando lo stantio ritornello di “due popoli e due stati”, quando all’ONU si stava decidendo su di una risoluzione di condanna contro Israele, il presidente Usa ha usato per l’ennesima volta il diritto di veto per salvare il suo principale alleato in Medio oriente. Atteggiamento che ha ripetuto più recentemente in occasione dell’uso di “cerca-persone” manomessi dall’intelligence israeliana nell’ennesimo regolamento di conti con le milizie degli Hezbollah. Regolamento che è arrivato sino alla eliminazione di tutti i suoi vertici politici e militari non curandosi, e quando mai, delle conseguenze sulla popolazione civile. Sempre Biden, alla fine di settembre, mentre il segretario generale dell’ONU e la Corte Penale Internazionale denunciavano il governo di Tel Aviv per crimini contro l’umanità e “genocidio”, stanziava otto miliardi di dollari in armi sofisticate per il carnefice israeliano. Ciò non annulla il fatto che il vero scontro è, appunto, nell'Indo-pacifico, dove in gioco ci sono gli interessi primari delle due maggiori potenze imperialiste, ovvero la riunificazione tra la Cina continentale e l’isola-stato di Taiwan. Il che non è solo una questione di banale nazionalismo, ma anche economica, se si tiene in debita considerazione che a Taipei si produce il 65% dei microchip mondiali. C’è in ballo il dominio sulle vie di commercializzazione di merci nel Mar cinese, delle tecnologie più avanzate, dei diritti di transito delle navi da guerra che Pechino rivendica senza mezzi termini, anche a costo di uno scontro frontale con il suo nemico n°1, l’imperialismo di Washington, che,ovviamente, a tutto questo si oppone per le stesse ragioni ma di segno opposto. E’ in gioco anche la supremazia del dollaro a favore dello yuan nelle transazioni internazionali su gas e petrolio, oltre che sulle forniture di materiale di alta tecnologia. La partita include anche chi, tra un decennio, guiderà l’economia mondiale e chi, imperialisticamente, sarà la più attrezzata potenza a dominare il mondo. Un mondo, quello capitalistico, travagliato come non mai dalle sue contraddizioni, da una economia perennemente in crisi che spinge tutto e tutti verso la catastrofe umana ed ecologica.
Ecco perché la penetrazione cinese in Africa e sulle coste meridionali del Mediterraneo, oltre agli aspetti economici e strategici citati, dà a Pechino l’opportunità di presentarsi come la paladina del sud del mondo contro il vecchio imperialismo occidentale. Un non piccolo esempio è fornito dalla risoluzione ONU 2758 del 1971, che ha definitivamente riconosciuto la Repubblica popolare cinese come l’unica rappresentante della Cina alle Nazioni Unite al posto di Taiwan. Questa risoluzione è stata approvata anche grazie ad un appoggio da parte di molti paesi africani. Anche se va detto che, all'epoca, gli Usa hanno favorito (voluto) l’ingresso della Cina all’interno dell’ONU, fino a concederle un posto tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, in chiave anti Russia. Oggi i tempi sono cambiati nei rapporti di forza e nelle alleanze tra gli imperialismi, ma l’appoggio degli stati africani continua ancora ad essere importante.
Per la Cina sarebbe come dire che l’unico imperialismo è quello americano con al seguito la galassia dei paesi occidentali, mentre Pechino si presenterebbe sulla scena internazionale come l’unica potenza a difesa dei paesi del Sud del mondo, BRICS compresi, e come unica paladina della loro difesa contro l’arroganza di Washington. Solito meschino giochetto in base al quale la politica imperialista è sempre una prerogativa dell’avversario e mai la propria. E qualora le tensioni tra i due imperialismi si trasformassero in azioni di guerra con la solita inumana barbarie, la Cina spererebbe di avere a disposizione un’area molto vasta di consenso, se non di appoggio politico, nel suo duello mortale con gli Usa. Sia a Pechino che a Washington sanno benissimo che le crisi belliche, tuttora in corso, sono importanti, ma sanno anche che la partita di Taiwan e dell'Indo-pacifico verrà giocata con violenta determinazione da ambo le parti. E’ a quelle latitudini politiche che gli interessi contrapposti dei due imperialismi, con al seguito le rispettive schiere di alleati, cointeressati o strumentalizzati, possono deflagrare dando vita ad un conflitto più ravvicinato dalle conseguenze spaventose per l’intera umanità.
NO WAR BUT CLASS WAR. No alla guerra, sì alla lotta di classe è l’unica possibile risposta a questa catastrofica prospettiva.
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30 settembre 24
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