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Home ›Il marxismo nelle macchinette da caffè
Pubblichiamo questa mail ricevuta da un giovane compagno, perché ci permette di chiarire i dubbi del compagno – e forse non solo suoi - riguardo all'intervento dei comunisti in determinati ambienti operai e del lavoro salariato in genere.
In breve, il compagno ci chiede quale debba essere la strada che il partito rivoluzionario deve prendere per entrare in quei settori di classe che godono di condizioni di lavoro migliori, rispetto alla media. E' una domanda che non può avere un'unica risposta, valida per tutte le occasioni, perché ogni situazione è un caso a sé.
Si possono però fare alcune osservazioni. La prima è che le realtà come quelle raccontate dal compagno sono, non diciamo un'eccezione, ma certo rappresentano un'esigua minoranza, legata a condizioni particolari. Tra queste, senza dubbio c'è il fatto di impiegare una tecnologia avanzata che consente all'azienda di primeggiare sul mercato, ma una volta che anche altre aziende si doteranno della stessa tecnologia, è probabile che quel primato venga quanto meno insidiato, con le ovvie ricadute sulla forza-lavoro.
In ogni caso, noi ci rivolgiamo alla classe nel suo insieme che, in linea di massima, lavora in condizioni diverse; è ovvio che là dove il padrone ha più carote da elargire alla “propria” classe operaia – gli affari vanno particolarmente bene, il programma del comunismo fa più fatica ad attecchire, anche se, oggi, questa difficoltà è riscontrabile per ogni settore della classe, dopo decenni di grave regressione politica...
Buongiorno compagni,
scrivo questa mail per condividere alcuni pensieri che mi sono venuti durante la visita a dei "produttori locali" organizzata dalla mia scuola. Mi scuso se disturbo, ma certe idee non mi son volute uscire di testa.
Comincio precisando che queste visite hanno il fine di presentare ai giovani un possibile sbocco lavorativo successivo al diploma. La prima ditta (prima e unica che tratterò in questa mail) da noi visitata oggi è stata la "X" produttrice di macchine da caffè. Ad accogliere gli occhi del nostro gruppo è stato un edificio che a primo sguardo appare molto simile ad uno degli innumerevoli capannoni industriali che circondano Firenze passando per le pianure di Sesto e Campi. Entrando al suo interno sembrava d'aver cambiato dimensione. Non vi era un angolo che non fosse pulito e lustro. Il pavimento era in cemento liscio di colore grigio mentre le pareti si alternavano tra motivi mattonati e lisci. Il colore, però rimaneva sempre lo stesso: un bianco neve. L'arredamento era una mescolanza tra un "coffe shop" rustico,con decorazioni ricavate da bancali di legno, e ufficio "open space" con uno stile moderno e tecnologico. Imperversavano decorazioni vegetali sia in vaso che verticali con pareti appositamente create per accogliere le piante. Dappertutto insegne della “X” che andavano ad unirsi alle locandine e alle immagini intente a lodare le gesta della ditta in patria e altrove. Tra libri colmi di testi sull'insolubile legame tra lavoratori e la gestione e locandine sugli innumerevoli progetti portati avanti dalla ditta per aiutare i coltivatori dei chicchi di caffè del continente nero, viene offerto a tutti un caffè gratis. In tutta questa calda accoglienza la sensazione che ciò che ci fosse presentato fosse un'illusione era in perenne crescita. Un'isoletta felice, baluardo di quella "purezza" che una volta possedevano quei santi degli artigiani e che i "malvagi grandi gruppi" hanno strappato via per la loro corsa al profitto, corsa alla quale pare che la “X” sia aliena. Dopo siamo stati sottoposti ad una presentazione su come la ditta smerciasse prodotti in più di cento paesi tra cui i democraticissimi Dubai, Cina e Thailandia, nei quali l'azienda non ha solo distributori ma bensì vere e proprie filiali. Devo dire che il gruppo della cosiddetta "costumer care" ha molto entusiasmo nel dire ad una scolaresca che le loro macchinette sono vendute dal centro Italia fino ai posti più lontani del Centro America dov'è il fucile a dettar legge. Dopodiché siamo stati portati nella fabbrica in sé, dove ci è stata data una spiegazione del lavoro svolto quotidianamente dagli operai. Ci sono sette fasi per assemblare una macchina da caffè. La quinta consiste nel montare una centralina elettronica che, da quando la macchina viene accesa, oltre che a regolare le quantità di acqua e vapore necessari per le più varie bevande calde, raccoglie questi dati che sono continuamente inviati ad una banca dati della “X”, la quale li raccoglie e li esamina per avere una panoramica quanto più ampia delle possibili cause e soluzioni in caso una delle macchine si guastasse. Questa macchina è una meraviglia dell'ingegneria. Ma questo bagliore di progresso viene ridimensionato dalla realtà sociale che vi è attorno a quel prodotto che è costretto a rendersi merce. Mi chiedo come si faccia tutt'oggi a credere alla menzogna della targhetta "made in Italy". Da quel che mi risulta nel paese sede di “X” non esiste la “X” acciaieria per l'acciaio e il rame delle macchine, la “X” "Semi-conduttori" per le componenti delle centraline e così via fino alla "”X” miniere" e alla "PetrolX" per la gomma. Nel sito di “X”, le macchine vengono assemblate partendo dalle caldaie. I materiali dell'assemblaggio, prima di giungere in fabbrica, hanno passato decine di processi industriali in decine di nazioni diverse. Come si fa a propinare ancora questa sudicia menzogna quando la verità è letteralmente davanti a tutti i nostri occhi? Prodotto locale? Sì! Se locale risulta essere il globo terreste. Doppiamente fastidio dà la difesa della fantomatica superiorità morale della piccola produzione che a quanto pare non sorge per la ricerca di profitto ma bensì per scopi filantropici, da come viene presentata. Ovviamente la battaglia per la classe salariata non è basata su un'analisi moralistica perché altrimenti tanto vale lanciare una santa crociata contro il capitale e indicare la volontà come motrice della Storia. La “X” pare incriticabile da ogni punto di vista. Durante il tour ci sono state mostrate le sale adibite a tutti i bisogni degli operai, dalla comune sala ricreativa con bar, biliardo e calcio balilla, fino ad una palestra interna ed esterna con giardini colmi di strumenti per l'esercizio all'aria aperta. Ci è stato inoltre ben spiegato e rispiegato che la ditta "mette prima l'uomo della macchina" e che il benessere dei suoi impiegati è priorità assoluta. Durante questo tour mi è subito balzata in mente una domanda ovvero come è possibile spiegare ad un operaio che lavora in un ambiente di gran lunga migliore rispetto ai capannoni sovraffollati di Prato, che riesce ancora a vedere e a parlare qualche volta con l'amministratore delegato che passa in fabbrica a controllare la produzione, che si sente valorizzato dalla gestione, il fatto che la sua sia una condizione di sfruttamento per la natura stessa del salario? Come fa un operaio in una condizione simile a fidarsi, a credere ad una complessa, e a volte apparentemente paradossale spiegazione, com'è quella marxista e come lo si convince a rischiare di perdere ciò che può sembrare un lusso, in una lotta che a lui può addirittura apparire moralmente ingiusta, visto che il proprietario sembra avere diritto alla proprietà per il lavoro da lui svolto nel fondare e dirigere l'azienda? Certo, un tour di due ore non svela né il livello dei salari né il numero di ferie né le idee degli operai, ma l'ambiente lavorativo da noi visitato ci è parso pur sempre sicuro e confortevole.
Questa domanda mi è rimasta durante tutto il tour. Spero di non disturbare troppo nel condividere queste riflessioni.
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