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Home ›A quando la Camera dei Fasci e delle Corporazioni? (Sulla proposta di legge cislina relativa alla cogestione)
L'ironia viene spontanea pensando alla partecipazione della Meloni alla kermesse della CISL dell'11 febbraio a Roma, dove tra il sindacato e la presidente del consiglio è stata ribadita quella forte corrispondenza d'amorosi sensi che lega il più servo dei sindacati – se ha senso una graduatoria simile – con il governo più a destra della storia repubblicana.
Si sta parlando dell'assemblea nazionale dei delegati cislini, che hanno accolto la prima ministra con ovazioni da stadio, tanta è la sintonia tra i due soggetti politico-sindacali. Lì si è discusso della proposta di legge lanciata dalla CISL – pare abbia raccolto 400 mila firme – sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende. Vecchio pallino dei cattolici, quello della compartecipazione della forza lavoro alla direzione delle imprese, che affonda le radici nella cosiddetta “dottrina sociale” della Chiesa elaborata a fine '800. Secondo questa visione, tra classe lavoratrice e “datori di lavoro “ (padroni) non ci sono interessi opposti e inconciliabili, ma complementari e per questo devono essere armonizzati in nome del bene comune ossia dell'azienda e della nazione. Tale dottrina aveva – e ha – lo scopo di combattere l'odiata lotta di classe proletaria, per far sì che la borghesia porti avanti la propria lotta di classe contro il proletariato senza conflitti, anzi, con il consenso remissivo degli sfruttati. A dire il vero, questa impostazione interclassista, fondata cioè sulla collaborazione tra le classi, non è un'esclusività del cattolicesimo, perché, variamente declinata, è l'essenza di ogni ideologia borghese – da quella democratico-riformista a quella fascista – che, da quando è apparso il modo di produzione capitalistico, si sforza di negare l'evidenza ossia che il rapporto capitale-lavoro è un rapporto di sfruttamento e di oppressione, dove l'armonia non ha cittadinanza, nemmeno per sbaglio. Neanche la CGIL, neanche la UIL – ora entrambe in dissapori con la CISL – sono immuni da quella ideologia, tutt'altro, solo che, almeno a parole, non spingono la loro “internità” al sistema borghese – o complicità, detto terra terra – fino allo sbracato puttaneggiare (per citare il padre Dante) della CISL col nemico di classe.
Nell'assemblea cislina non sono mancati, da parte del segretario uscente (Sbarra), attacchi alla UIL e, soprattutto, alla CGIL, accusata in particolare di praticare un sindacato ideologico, da antagonisti, incendiario. Come barzellettieri, sia la Meloni che Sbarra possono gareggiare, anche se non uguagliare, con un altro grande barzellettiere, il fu Berlusca, che tirava fuori dai guai giovanissime “amiche” (cioè se stesso) facendole passare per nipoti di capi di stato esteri o prometteva milioni di posti di lavoro con la disinvoltura tipica dei più consumati conta-balle. Dare degli incendiari a sindacati che vantano un curriculum di tutto rispetto al servizio della borghesia, proprio nelle vesti di pompieri della lotta di classe proletaria, fa ridere, ma dà la misura della protervia di un ceto politico-sindacale che si permette di dire qualunque scemenza perché chi potrebbe ricacciargliela in gola – il mondo del lavoro salariato – per il momento tace e, sostanzialmente, subisce non solo gli attacchi materiali della borghesia, ma anche la manipolazione ideologica dei suoi ben pagati lacchè.
La Meloni ha lodato l'iniziativa della CISL, considerandola l'attuazione dell'articolo 46 della Costituzione che “in armonia con le esigenze della produzione […] riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”. Ma la cogestione non è altro che la collaborazione operaia al proprio sfruttamento, perché se anche i rappresentanti operai (ossia i sindacati o loro espressioni) sedessero su un piano di parità coi padroni nelle direzioni aziendali – il che non è mai il caso – il rapporto capitale-lavoro salariato non cambierebbe di una virgola e tutte le categorie tipiche del capitale - che può esistere, ricordiamolo, solo con lo sfruttamento della forza lavoro – rimarrebbero vive e vegete: merce, denaro, salario, profitto. La cogestione è, in sintesi, una delle tante fregature rifilate dalla borghesia alla classe operaia, con l'apporto determinante del sindacato (spalleggiato dalla sinistra borghese), e l'accordo alla VolksWagen del 20 dicembre '24 ne è l'ennesima conferma. Nella casa automobilistica tedesca da anni regna la Mitbestimmung (cogestione, appunto), ma questo non ha impedito che i costi per tentare di uscire dalla crisi dell'auto (non solo tedesca) siano pagati esclusivamente dai dipendenti, operai e impiegati: 35.000 esodi “volontari” da qui al 2030, sospensione per alcuni anni degli aumenti salariali già previsti, taglio dei bonus e del benefit aziendali. Il risparmio sul famigerato costo del lavoro, da parte dell'azienda, è di 1,5 miliardi di euro all'anno per i prossimi cinque anni.
Nella proposta di legge della CISL adottata dal governo, ma dopo aver potenziato il ruolo dei padroni dentro gli eventuali organismi di cogestione, emerge nettamente come la forza lavoro debba recitare con convinzione la parte dello schiavo, tanto più contento di esserlo quanto più fa aumentare le “performances” dell'azienda: i profitti. A lui, lo schiavo salariato, non andrebbero più, per esempio, i premi di produzione (non ci soffermiamo qui sul loro carattere), perché verrebbero trasformati in azioni, con tutti i rischi finanziari che questi titoli comportano, compreso l'azzeramento del loro valore in caso di crisi aziendale: il premio di produzione, se erogato, una volta incassato rimane, il valore dell'azione invece è aleatorio. In ogni caso, il dipendente verrebbe spinto a identificarsi con l'azienda e a intensificare il proprio sforzo lavorativo sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo ossia a offrire spontaneamente più plusvalore – lavoro non pagato, sfruttamento – a chi possiede, controlla e dirige veramente l'impresa. Tra parentesi, anche le cooperative rientrano in questa casistica, dato che i soci agiscono sul mercato come una qualsiasi azienda capitalistica.
A completare l'idillio tra i servitori del padrone nei rispettivi ruoli, la Meloni ha suonato la vecchia musica della destra, cioè il superamento dei contratti nazionali a favore di quelli territoriali e aziendali, più flessibili e più aderenti alle necessità dell'impresa, in quest'epoca segnata da crisi e turbolenze, non solo economiche. Dal lor punto di vista è vero, ma questo significherebbe dividere e frantumare ulteriormente la classe lavoratrice, cioè indebolirla ancor più di quanto non lo sia già.
Per la premier e i suoi compari cislini, questo nuovo capitolo dell'attacco alla forza lavoro sarebbe un passo in avanti nella modernità e il superamento del Novecento, con i suoi “oltranzismi” ideologici. Peccato però che tanta modernità, lo ribadiamo, emani il fetore delle vecchie ricette borghesi predicanti la collaborazione di classe ossia la sottomissione totale del proletariato alla borghesia: come si diceva, dagli “idilli” paternalisti del cattolicesimo detto sociale fino alla dispotica sceneggiata delle corporazioni fasciste, dove la classe operaia recitava lo stesso ruolo che la CISL e la Meloni le assegnano oggi.
Certo, non sono solo la nipotina del Duce o i baciapile del capitale cislini a lavorare perché la nostra classe rimanga nello stato di “classe per il capitale”, che non diventi mai “classe per sé”, cosciente cioè della propria condizione di sfruttata e per questo determinata a eliminare i rapporti sociali di sfruttamento, la classe che ne beneficia, le istituzioni che la difendono.
Un caso, fra i tanti. Un servizio di RAI 3 dei primi di febbraio mostrava le operaie della Perla (nota azienda di abbigliamento intimo) che, in lotta da molto tempo per salvare i posti di lavoro, in presidio davanti alla fabbrica impugnando le bandiere delle tre maggiori sigle sindacali, cantavano un vecchia canzone: “Compraci, noi siamo in vendita”. Si trattava ovviamente dell'invito a un investitore perché compri l'azienda, mantenendo così il posto di lavoro. Ancora una volta, per l'azione nefasta del sindacalismo e del riformismo, la determinazione, la generosità delle combattive operaie, ammirevoli da tanti punti di vista, sono indirizzate solo alla salvaguardia del rapporto di sfruttamento, cioè del posto di lavoro, da cui ovviamente dipende l'esistenza del proletariato. Nel cantare quella canzone, non c'è neanche l'ombra dell'idea che la lotta per la difesa dell'occupazione – indispensabile! - deve però essere inquadrata nella prospettiva più generale del superamento del capitalismo, che assume e licenzia, cioè sfrutta e smette di sfruttare, a seconda dell'andamento del profitto. D'altronde, questa prospettiva, cancellata e, quasi peggio, sfigurata da un secolo e passa di matrimonio (di fatto) tra stalinismo e socialdemocrazia, la classe non se la può inventare, non nella forma di programma, strategia e tattica: solo il partito può farlo, che della classe è l'espressione politica più compiuta.
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